La tradizione patristico-medievale nella filosofia di Nae Ionescu (II)

La filosofia di Nae Ionescu (1890-1940), nota come esperienzialismo (trăirism), si è nutrita, oltre che di spunti provenienti dalle avanguardie filosofiche del Novecento, del consistente apporto di riferimenti alla tradizione patristico-medievale. Dopo aver ripercorso l’iter che ha indotto il filosofo romeno a sensibilizzarsi ai principi della filosofia cristiana, nella prima parte del presente articolo abbiamo esaminato la sua concezione del Medioevo come «forma dello Spirito» improntata al teocentrismo, al dualismo tra l’umano e il divino e all’essenzialismo metafisico. Nella seconda parte, che presentiamo qui sotto, vengono discussi i seguenti temi: la dialettica tra cristianesimo d’oriente e d’occidente, che fa da sfondo all’intera riflessione ioneschiana, la questione del male, che ne costituisce il punto di partenza imprescindibile, e il realismo quale suo paradigma epistemologico.



Cristianesimo d’oriente e d’occidente

Per Nae Ionescu il cristianesimo è stato un movimento spirituale mosso da intenti principalmente morali. Si è presentato infatti come una «dottrina dell’amore», in cui però, contrariamente a quanto avveniva nella cultura greca, l’iniziativa non appartiene all’uomo, bensì a Dio. L’amore per mezzo del quale l’uomo giunge a conoscere Dio non è altro che una risposta all’amore divino [1]. Pertanto, non si può parlare di una «filosofia cristiana» in senso proprio, almeno in origine. Le dispute filosofiche, con le loro sottigliezze sofistiche, dovevano apparire una divagazione inopportuna, se non un ostacolo, rispetto all’urgenza di diffondere il messaggio evangelico. L’elaborazione di una “filosofia” cristiana si è imposta come una necessità solo in un secondo momento, segnatamente quando il cristianesimo, entrando in contatto con la compagine greco-giudaico alessandrina, dovette risolvere alcune questioni di ordine speculativo comuni in quell’ambiente intellettuale. Il cristianesimo non poté comunque pervenire a una teorizzazione unitaria, in ragione della fondamentale eterogeneità culturale degli apporti che via via si innestavano nella nuova dottrina. Durante il primo concilio ecumenico cristiano veniva elaborato un credo appena abbozzato nelle sue linee generali. I padri conciliari, riuniti a Nicea nel 325, «quasi tutti cresciuti nell’ammirabile tradizione origenista» (I, 31), optarono per un simbolo della fede dalla struttura leggera, che consentisse ampi margini di agibilità nel quadro dell’ortodossia, garantendo così al pensiero greco la possibilità di incontrare la fede cristiana senza subire condizionamenti dogmatici troppo pesanti. «In tali condizioni la mancanza di un sistema unitario di filosofia cristiana non può sorprendere» (Ibidem).
Il “paolinismo” ha poi fornito le premesse dogmatiche dell’organizzazione sinodale della chiesa d’Oriente rispetto a quella d’Occidente, fondata sul primato papale. Il Sinodo non è una semplice assemblea, come vogliono i cattolici, ma la comunità radunata sotto l’azione dello Spirito. Il concetto di pneuma permea la filosofia dell’evangelista Giovanni e la dottrina paolina, e per mezzo dello Spirito effuso sulla comunità, radunata nel concilio, quest’ultima partecipa di un principio superiore e trascendete. «Perciò un concilio, non è una semplice assemblea, in cui si riunisce la gente per strada, ma un concilio indica una comunità spirituale, all’interno della quale l’individuo scompare» (II, 251). Lo spirito è dunque il fondamento della verità assoluta che il sinodo rappresenta. Altrove Ionescu attribuisce a Paolo di Tarso la volontà di tratteggiare in termine generali il quadro dogmatico della nuova religione, permettendo a ciascuno di tracciare la propria via di salvezza. Su questa tendenza “liberale” avrebbe finito per prevalere, in Occidente, la tendenza opposta, “autoritaria” impersonata da Agostino, il quale riconosceva nella Chiesa di Roma l’espressione della potenza di Dio nel mondo [2]. Anche le esperienze più di “rottura” registratesi in seno alla Chiesa cattolica, come quelle ispirate dalle figure di Bernanrdo di Chiaravalle o, ancor più, di Francesco d’Assisi (considerato alla stregua di «un corpo estraneo» all’interno della chiesa in quanto esponente di un soggettivismo inconciliabile con la dottrina cattolica), hanno finito per soggiacere alla concezione agostiniana dell’Ecclesia. «Metà barbaro e metà romano» (IV, 105), vissuto in una regione, l’Africa settentrionale, disputata dalle correnti dottrinarie più disparate, la figura di Agostino appare a Ionescu carica di ambiguità nel suo oscillare tra posizioni mistiche e individualiste da una parte, autoritarie o centralizzatrici dall’altra. È tuttavia l’agostinismo ad aver procurato alla Chiesa di Roma la legittimazione del suo primato e ad averne plasmato l’organizzazione ecclesiastica.
Alla base dell’autoritarismo agostiniano Ionescu riconosce l’ampliamento del concetto di caritas oltre i suoi limiti naturali. Mentre in origine, l’amore «regolava i rapporti tra l’uomo e l’essere supremo», con Agostino «l’amore per Dio si estende ora all’amore del prossimo e finanche all’amore mistico del mondo intero» (I, 34). Ora, dal momento che la Chiesa rappresenta la comunità dei credenti, i quali, in virtù dell’amore reciproco, costituiscono una fratellanza, essi devono pensare all’unisono, con la conseguenza che l’eretico è nel torto, in primo luogo, e a prescindere dalla tesi che sostiene, per il solo fatto di spezzare la “comunità d’amore” che sussiste tra sé e gli altri. «Ne consegue che l’infallibilità della Chiesa in materia dogmatica deriva dall’ampliamento del concetto d’amore» (Ibidem). Ionescu definisce “inaccettabili” le conseguenze a cui la dottrina agostiniana dell’amore, come amore per il prossimo, fatalmente conduce. Se infatti l’amore del prossimo ha rappresentato un potente strumento di diffusione del cristianesimo, esso ha finito per snaturare le esigenze della fede cristiana degradandone la spiritualità a semplice mezzo per garantire la coesistenza pacifica degli uomini sulla terra.
La Chiesa d’Oriente ha percorso un’altra via, quella tracciata da Origene, per il quale la vita umana non ha alcun valore, partendo dalla consapevolezza che l’uomo «designa ipso facto il peccato», cioè «spirito corrotto, spirito e corpo» (I, 50). Date queste premesse, l’uomo non può “amare se stesso” in forma positiva. Ne consegue che il comandamento dell’amore, che assume l’amore di sé per presupposto (e ne fa il metro dell’amore per il prossimo), vada ripensato alla radice. Nella prospettiva origenista «ama il prossimo tuo come te stesso» significa in realtà «non stimarti più degli altri; o ancor più brutalmente: disprezzati» (I, 35). Nel cristianesimo orientale, la misericordia prende dunque il posto dell’amore per gli uomini. L’uno, l’amore, è un’inclinazione “positiva”, che valorizza l’esistenza umana e tende a costruire relazioni armoniose tra gli esseri umani, l’altra, la misericordia, è al contrario un sentimento negativo e passivo. Mentre il cristianesimo occidentale aspira alla realizzazione del regno dei cieli sulla terra e trova il suo tipo ideale – nel cattolicesimo romano – nella figura del sacerdote, il cristianesimo orientale tende a enfatizzare la “fuga dal mondo” e a considerare il monachesimo come summum bonum della vita religiosa ecclesiale.
Nell’ambito della riflessione intorno alla struttura fenomenologica dell’atto religioso, Ionescu si interroga sulla natura sociale o personale di quest’atto. La questione si presta ancora una volta al confronto tra Oriente e Occidente, e offre a Ionescu l’occasione per smarcarsi nettamente dalla posizione espressa da Max Scheler in L’eterno nell’uomo, opera sulla falsariga della quale il Romeno sembrerebbe aver svolto, almeno fino a un certo punto, le proprie lezioni di filosofia della religione. La Chiesa d’Occidente si riconosce nel motto unus christianus, nullus christianus, a dire che si è cristiani solo nella misura in cui si fa parte di una comunità. Secondo Ionescu, questa affermazione non è deducibile in termini strettamente fenomenologici, componendosi, a rigore, l’atto religioso di due soli termini: Dio e la coscienza umana – a meno di non voler considerare, come sembrerebbe fare Scheler, la “coscienza umana” come l’esponente dell’intero genere umano. In effetti, qualora l’amore, che è «l’atto fondamentale di unione tra l’uomo e Dio» (I, 93), venga potenziato al massimo finirebbe per comprendere in sé anche il rapporto con gli altri uomini. Ma, osserva Ionescu, perché si possa giungere a tanto occorre presupporre che «l’atto d’amore dell’uomo per Dio sia della stessa essenza dell’atto d’amore tra uomo e uomo» (I, 94). Questa tesi, in verità, non è suffragata dai testi della tradizione cristiana, i quali sembrerebbero anzi affermare il contrario. Nel Vangelo di Matteo, l’amore per Dio e l’amore per il prossimo vengono presentati come due grandezze qualitativamente eterogenee e come tali non commensurabili. Da una parte sta l’amore per l’assoluto, il quale richiede una abnegazione totale di sé («amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente»), dall’altra l’amore per il prossimo, che il comandamento raccomanda di adempiere in una forma puramente umana («amerai il prossimo tuo come te stesso», cioè lo amerai come si conviene a un uomo). L’amore per il prossimo e l’amore per Dio sono due atti distinti e l’uno non può fondarsi sull’altro. Ionescu ha ancora una volta presente la lezione di Origene. Nella seconda delle omelie sul Cantico dei Cantici (II, 8), Origene tiene ferma l’esigenza di “ordinare” la carità:

«anche il nostro Maestro e Signore, stabilendo nel Vangelo i precetti della carità, ha attribuito una qualità particolare all’affetto di ciascuno, e ha dato l’intelligenza dell’ordine a quelli che possono comprendere la Scrittura che dice: Ordinate in me la carità. Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente. Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non dice: Dio come te stesso, il prossimo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza e con tutta la mente» [3].

Il cattolicesimo ha dunque inopinatamente fatto corrispondere l’amore per Dio con l’amore per il prossimo, trasformando così l’atto religioso in un atto sociale. Il cristianesimo orientale, al contrario, ha conservato il carattere personale e individuale dell’atto religioso fondato sul rapporto non mediato, «anarchico», tra l’individuo e l’assoluto. Quando la religione, chiosa Ionescu, è posta al servizio delle relazioni sociali si snatura completamente, con grave danno per l’umanità tutta, la quale viene così deprivata di una sua dimensione costitutiva, che si esplica nella possibilità di vivere in pienezza il rapporto con l’assoluto.

«Il modo in cui s’intende il rapporto tra l’uomo e Dio consente in generale di comprendere tutto l’assetto spirituale di un’epoca. Qual era dunque la forma di vita religiosa nel Medio Evo? Per la chiesa cristiana cattolica la cosa è arcinota. Rapporti tra l’uomo e Dio quasi non esistono in modo diretto. La salvezza individuale non è possibile attraverso una comunicazione immediata con la divinità, bensì soltanto con l’aiuto della chiesa. Tra l’uomo e Dio sta la chiesa. E per di più al di sopra dell’uomo. Perché solo all’interno della comunità ecclesiale cristiana e per mezzo di essa è possibile la salvezza. È ovvio che, a queste condizioni, l’individuo perde ogni importanza di fronte alla comunità, che diventa un’autorità indiscutibile. Questo significa per il cattolicesimo l’autorità della chiesa e fino a che punto scompaiano i diritti della coscienza e della ragione individuale di fronte a questa autorità lo ha espresso nel modo più categorico Agostino: Ego vero Evanghelio non crederem, nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas [Io stesso non crederei al vangelo se non fossi mosso dall’autorità della Chiesa cattolica – Contra ep. Man. 5, 6]. È abbastanza tragico.
Notiamo tuttavia che questa atmosfera non apparteneva all’Europa in generale. L’Oriente menava, ad esempio, una vita a sé, che si riflette, d’altronde, nella fede e nell’organizzazione della vita religiosa. Si è spesso parlato di una Chiesa d’Oriente dalla struttura ridotta. Alcuni vedono in ciò un’inferiorità organizzativa. D’altro canto, però, non è stata che l’espressione della speciale forma di religiosità orientale. Anche gli ideali monastici, e la funzione dei sacerdoti, e l’assetto della vita religiosa medesima – per non parlare della letteratura teologica – promuove in Oriente un’interpretazione altra rispetto a quella occidentale dei rapporti tra l’uomo e Dio. La Tradizione, come anche l’autorità della chiesa, passano in secondo piano. Il problema della singolarità di fronte a Dio è qui più accentuato, la religiosità più sentita e più profonda, i rapporti con il trascendente più fruttuosi e più appaganti. Sotto questo aspetto, non si può negare una certa vicinanza con il protestantesimo successivo.
Tuttavia, mentre per quest’ultimo, nel processo della contemplazione, l’individuo è spogliato di ogni caratteristica, ridotto a una sorta di centro spirituale, di essenza quasi assoluta, nell’Ortodossia la coscienza del corpo accompagna ad ogni istante l’individuo. Da qui anche il sentimento di fratellanza – una sorta di comunione nel peccato –, assai viva e caratteristica in Oriente; da qui anche la concezione specifica dell’amore, della quale l’intero Occidente non può avere alcuna comprensione» (V, 161-162).

Nell’ambito del corso di filosofia della religione (1924-1925), Ionescu ritorna su questo punto, riconducendo la difformità tra protestantesimo, cattolicesimo e ortodossia a tre diversi tipi logico-oggettivi. Il protestantesimo accorda una preminenza assoluta alla ragione individuale, il cattolicesimo alla tradizione e al dogma. L’esistenza di Dio rientra a tutti gli effetti tra le verità di ragione, e in quanto tale è suscettibile di essere dimostrata razionalmente, ma per ciò che concerne la salvezza, anche un dialettico come San Tommaso d’Aquino deve sottomettersi all’autorità della chiesa. La terza via, quella ortodossa, riconosce nell’esperienza religiosa una sfera a sé stante, altra rispetto al dominio logico-oggettivo, ma passibile di essere ricondotta per via analogica alle rappresentazioni della vita logico-oggettiva.


La necessità del male: Paolo, Agostino, Pelagio, Origene e Giovanni Scoto Eriugena

Il problema del male è una delle questioni centrali e più a lungo meditate nella riflessione ioneschiana, nella misura in cui tale questione investe il senso profondo dell’esistenza umana e di conseguenza anche quello dell’indagine filosofica, su cui Ionescu non ha mai smesso di interrogarsi. Secondo il Romeno, la filosofia origina infatti da una condizione di squilibrio che l’uomo sperimenta come una menomazione del suo stato originario di pienezza. Il ristabilimento di tale stato, il raggiungimento di un nuovo equilibrio, potrà avvenire per via razionale o per via religiosa, in forma autentica o surrogata, ma quel che pare fuori discussione è la presenza nell’uomo di un’“ansia” metafisica che lo spinge a superare la condizione attuale, percepita come un declassamento rispetto alla posizione nel mondo che dovrebbe spettargli. Il filosofo romeno affronta dunque il problema del male in chiave metafisica, escludendo programmaticamente dalla valutazione della questione implicazioni di ordine morale. Ciò spiega perché Ionescu non senta l’esigenza di elaborare una vera e propria “teodicea”. Nella misura in cui il male viene compreso e giustificato nella sua necessità metafisica, quale condizione ontologica che, nella prospettiva dell’eterno, aveva ragione di essere ancora prima di compiersi storicamente con la “caduta”, non genera più alcuna contraddizione o scandalo per il pensiero giacché non menoma la potenza di Dio né pregiudica la di lui misericordia. Ionescu è dunque costretto a ripensare la nozione di peccato maturata in seno alla traduzione giudaico-cristiana, che identifica il peccato con la trasgressione della legge data da Dio all’uomo.
È ancora una volta Agostino il punto di partenza della riflessione ioneschiana: «peccatum est dictum vel factum vel concupitum contra legem aeternam» (I, 298). Il filosofo romeno definisce “giuridica” questa interpretazione letterale del mito biblico, per cui il peccato coincide con il “reato”, con l’infrazione della legge. Mentre, secondo Ionescu, è del tutto plausibile che il popolo ebraico escogitasse una soluzione “tecnica” al problema del peccato, sorprende il fatto che anche Agostino sembri condividere questa impostazione anti-metafisica e “positivista” – per usare le parole del Romeno – del peccato, la quale rappresenta una forzatura della struttura spirituale del cristianesimo, tanto più che tale lettura impoverisce la carica simbolica del mito, di cui Agostino si era proclamato difensore. Ionescu opta invece per una diversa interpretazione del peccato originale, che per quanto sia giudicata “eterodossa”, trova piena legittimazione nelle parole dell’apostolo Paolo. Secondo tale interpretazione l’uomo era necessitato a peccare. Teologi come Pelagio e Origene, seppure in termini diversi, hanno pensato il peccato come una condizione a cui l’uomo era destinato ancor prima di peccare [4]. Anzi, l’uomo era condannato a peccare ancor prima di esser creato, in quanto Dio, «che lo aveva creato, conosceva le possibilità che aveva posto in lui» (I, 301) e all’atto di affidargli la legge doveva sapere che l’uomo l’avrebbe trasgredita. In questo, il pelagianesimo, sebbene giudicato eretico dalla Chiesa, si mantiene fedele alla dottrina paolina della doppia predestinazione. Dio ha dunque previsto la caduta dell’uomo e così pure la sua redenzione per mezzo di Gesù Cristo [5].
Origene si conferma l’interlocutore privilegiato della speculazione ioneschiana, perché il padre della chiesa alessandrino inquadra il problema del male entro una precisa gerarchia metafisica a cui risponde pienamente la dottrina della “doppia creazione” dell’uomo e della donna. Prima Dio ha creato Adamo dalla terra e poi ha creato Eva dalla costola di Adamo. Dio avrebbe potuto creare la donna dalla terra, come aveva fatto con il primo uomo, ma non ha voluto. «Ci sono diversi stadi di creazione e non tutto ciò che esce dalla mano di Dio possiede lo stesso grado di perfezione» (Ibidem). Ciò giustifica il fatto che il serpente sedusse Eva («Serpens Evam seduxit») per prima e attraverso di lei anche Adamo sia caduto («Evam decepit per serpentem, et Eva dedit viro de ligno, et comedit vir») [6]. Origene prende spunto dalla seconda lettera di Paolo ai Corinzi (2Cor: 11, 3), ma ancor più eloquente, a tale riguardo, è la lettera di Paolo a Timoteo: «Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre» (1Tim: 2, 13-14). Il peccato veicola, per via negativa, l’idea stessa di una gerarchia nella creazione giacché la caduta – quale rovesciamento dell’ordine naturale delle cose – si consuma esattamente in senso inverso rispetto all’ordine della creazione divina, dal gradino più basso a quello più alto.
Il problema del male viene dunque collocato e compreso in una più ampia cornice metafisica, a cui non sono estranei i riferimenti alla cosmogonia teologica e alle intelligenze angeliche svolti nella Summa theologiae di Tommaso ma risalenti al De coelesti hierarchia dello Pseudo Dionigi Areopagita. Gli angeli sono creature deiformi disposte secondo un sacro ordine, a motivo del diverso grado di partecipazione alla natura divina. Gli angeli sono annunciatori di Dio dal momento che comunicano e manifestano la luce divina in maniera più o meno intensa, gettando tra Dio e l’uomo una “scala” che gli iniziati possono percorrere in senso ascensionale, passando attraverso gradi successivi di illuminazione. Le celesti gerarchie operano infatti “anagogicamente”, chiamando a sé le realtà inferiori e conducendole in alto, fino a realizzare la comunione con Dio [7].
La gerarchia celeste si riflette nell’itinerario spirituale che l’uomo deve intraprendere per ascendere gradualmente a Dio. Tanto la Scala paradisi di Giovanni Climaco quanto la Divina Commedia di Dante Alighieri rappresentano, agli occhi di Ionescu, un itinerario di iniziazione mistica.

«A mio parere, il passaggio di Dante nell’Inferno, attraverso il Purgatorio e fino al raggiungimento del Paradiso, rappresenta – al di là del cammino che lo spirito deve seguire per giungere a Dio – anche la realtà dei nostri stati spirituali. Non la realtà ontologica, bensì la realtà dei nostri stati spirituali, nella loro successione, così come debbono gerarchizzarsi nel cammino verso Dio; perché, dopo tutto, Dio, cioè l’essere supremo, è sempre il fine» (II, 130).

A questo punto, il problema del male torna a interpellare la coscienza dell’uomo, ponendosi a lui però come un’alternativa esistenziale. Secondo la dottrina “demitologizzante” di Giovanni Scoto Eriugena, verso la quale Ionescu mostra una chiara preferenza, perdizione e salvezza (Inferno e Paradiso) non rappresentano due stati ultramondani, ma esprimono piuttosto due stili di vita antitetici, l’uno dominato dalle esigenze del corpo, l’altro da quelle dello spirito.


Il realismo

La filosofia ioneschiana si pone in continuità con la metafisica medievale perché ne condivide sostanzialmente il paradigma epistemologico, il suo modo di intendere il rapporto tra pensiero ed essere, nei termini basilari di una precedenza dell’essere sul pensiero. Il realismo implica il dualismo soggetto-oggetto e il trascendentalismo, ovvero l’idea che il soggetto debba uscire fuori di sé per incontrare l’oggetto e farne esperienza. Possiamo considerare dunque l’esperienzialismo ioneschiano come un “tipo” di realismo, in cui il sostanzialismo metafisico proprio della filosofia scolastica viene consapevolmente recepito sotto forma di una teoria generale dell’intenzionalità. Il carattere intenzionale della conoscenza, riportato in auge da Bolzano prima e da Husserl poi, appartiene essenzialmente alla teoria della conoscenza aquiniana.

«Quando usate una parola qualsiasi – afferma la scolastica –, questa parola ha tre significati: il primo è un significato grammaticale, di essere semplicemente una parola; secondo, si rapporta a, veicola un concetto, esprime un concetto; e terzo, mostra un oggetto. La parola stessa ha una funzione in un certo senso dall’interno all’esterno, la parola intenziona, si rapporta, indica in direzione di un oggetto che esiste al di fuori di essa; in altri termini, semplicemente, non esiste in se stessa, bensì si rapporta a qualcosa di esterno» (IV 154-155).

La funzione logica del concetto si risolve, nella logica scolastica, nell’atto di «mostrare un oggetto». Il concetto non si limita genericamente a rapportarsi a un certo oggetto, il concetto indica una cosa fuori di sé. Ionescu coglie l’importanza assiale della teoria aquiniana dell’intenzionalità nell’elaborazione del paradigma epistemologico realista e nella definizione del sostanzialismo metafisico del “vecchio mondo”.
Tutta la speculazione del filosofo romeno è poi pervasa da una costante polemica anti-idealista, anti-cartesiana e anti-kantiana che, pur nelle profonde differenze d’impostazione che la caratterizzano, riecheggia quella portata avanti da coevi esponenti della filosofia neo-scolastica e neo-tomista francese, quali Jacques Maritain ed Étienne Gilson. Non a caso, la posizione realista di Ionescu viene esplicitata nell’ambito del corso di metafisica 1928-1929, laddove il filosofo romeno pone a confronto, come farà anche Gilson, Agostino e Cartesio, segnatamente in merito alla questione dell’esistenza dell’io – il primo ordine di realtà con cui il soggetto abbia a che fare.
La questione è quella del “cogito”, anticipata nei Soliloquia agostiniani (II, 1): «Tu qui vis te nosse, scis esse te?» domanda la Ragione ad Agostino.

«Scio»
«Unde scis?»
«Nescio»
«Simplicem te sentins, anne multiplicem?»
«Nescio»
«Moveri te scis?»
«Nescio»
«Cogitare te scis?»
«Scio».

Ionescu rileva la differenza fondamentale tra il realista Agostino e Cartesio, primo degli idealisti.

È una differenza fondamentale: con St. Agostino siamo nel dominio dell’evidenza oggettiva, con Descartes siamo nel dominio dell’evidenza soggettiva. Nel primo caso, l’esistenza si impone a me, al soggetto, come qualcosa che esiste al di fuori di me; nel secondo caso, l’esistenza si impone a me in virtù di una percezione interna, quella dell’atto del pensare. L’evidenza oggettiva è più legittima, perché dal pensiero non si può dedurre, logicamente, l’esistenza e appunto ciò pretende Descartes con il suo argomento, di dedurre l’esistenza logicamente dalla percezione soggettiva del pensare (II, 75) [8].

È di un certo interesse notare, poi, come la fenomenologia ioneschiana della religione riposi su una doppia premessa realista: la realtà dell’esperienza religiosa, e insieme la realtà dell’oggetto che di questa esperienza è il termine di riferimento. Il realismo ioneschiano trova pieno riscontro nella tesi della indimostrabilità logica dell’esistenza di Dio. L’unica “prova” cogente dell’esistenza di Dio è l’esperienza che la coscienza umana ne fa nell’ambito dell’atto religioso. Da qui la preferenza accordata alla prova ontologica di Anselmo d’Aosta rispetto alla dimostrazione cartesiana. Anselmo fonda infatti il proprio argomento sull’«esperienza vissuta [trăirea] di Dio nell’atto religioso» (I, 79), ovvero la conoscenza di Dio ne presuppone l’esistenza. Mentre Cartesio opera attraverso un concetto di Dio, che è un contenuto della coscienza, Anselmo opera attraverso un’intuizione diretta, vale a dire con un oggetto. «L’esistenza di Dio si dà a noi attraverso un’intuizione, non attraverso una conoscenza elaborata. È il solo modo attraverso il quale noi conosciamo Dio e, aggiungerei, l’unica realtà di Dio in rapporto a noi stessi. Voglio dire, Dio è comunque una realtà nella misura in cui noi ne facciamo esperienza» (I, 125-126). Mentre l’intuizione ci pone di fronte a un oggetto, la conoscenza concettuale della realtà ha a che fare sempre e solo con un contenuto coscienziale, con un’idea – per dirla con Cartesio. E il passaggio dall’idea alla realtà risulta alquanto problematico (basti pensare alla questione dell’esistenza di idee immaginarie, come il cavallo alato) se non addirittura impossibile in assenza di un’esperienza, come lo stesso Kant si è incaricato di dimostrare. Perciò Anselmo aveva ragione nel dire: «sperimento in me Dio stesso, dunque Dio esiste» (I, 126). In Anselmo Dio corrisponde a un “fatto” di cui egli ha coscienza. L’idea di Dio in Anselmo non fa altro che riflettere una realtà oggettiva trascendente.
In conclusione, l’esistenza di Dio non si può dimostrare bensì solo sperimentare [9]. Che poi, una volta sperimentata, la sua dimostrazione divenga affatto secondaria, per non dire del tutto superflua, è cosa altrettanto manifesta.


Igor Tavilla
(n. 4, aprile 2023, anno XII)




* Nel corpo del testo, i riferimenti alle Opere di Nae Ionescu (voll. I-XVI, a cura di Marin Diaconu e Dora Mezdrea, EMLR, București 2016-2020), sono abbreviati riportando tra parentesi tonde l’indicazione del volume (in numeri romani) e della pagina (in numeri arabi).


NOTE

[1] «La prima conseguenza di questa concezione è – in opposizione al mondo greco-indiano – la primordialità dell’amore nel processo conoscitivo». Questa tesi non corrisponde invero all’impostazione tomista del problema della conoscenza. Per l’Aquinate infatti l’atto di volontà, a cui l’amore viene ricondotto, è sempre preceduto da un atto razionale. Ionescu sembra aver qui presenti altri riferimenti: Duns Scoto e i filosofi post-scotisti, e soprattutto, tra i padri della chiesa, Agostino. Mentre, infatti, il volontarismo “scotista” conduce a esiti nominalistici, e attraverso Ockham, finanche alla tesi luterana dell’assoluta arbitrarietà dell’azione divina (non: Dio vuole il bene, ma: bene è tutto ciò che Dio vuole), in Agostino l’elemento volontaristico è contemperato da quello intellettualistico, cioè a dire che l’atto conoscitivo può verificarsi solo a condizione che il soggetto provi “simpatia” nei confronti dell’oggetto della propria rappresentazione. La conoscenza e l’amore per l’oggetto corrispondente concrescono perciò in misura proporzionale. Quanto più si ama, tanto più si conosce.
[2] «Nae Ionescu considerava san Paolo il più importante pensatore cristiano – non perché avesse avuto più genio filosofico ad esempio, di sant’Agostino, Origene o san Tommaso, ma perché aveva mostrato in che senso si potesse pensare filosoficamente, in modo creativo, dopo l’Incarnazione». Con queste parole Mircea Eliade testimonia l’interesse del suo mentore per il “vero inventore” del cristianesimo, come Nietzsche ebbe a definire Paolo di Tarso. Dalle memorie di Eliade apprendiamo della volontà di Ionescu di scrivere un Commento alle epistole di San Paolo, il cui piano di lavoro veniva discusso nell’inverno del 1940, assieme ad alcuni dei suoi ex allievi, tra cui Mircea Vulcănescu, Constantin Noica e lo stesso Eliade, durante gli incontri settimanali che il Professore, posto agli arresti domiciliari sotto stretta sorveglianza della Siguranță, teneva presso la villa di Băneasa, a nord di Bucarest. M. Eliade, Le messi del solstizio. Memorie 2 (1937-1960), a cura di Roberto Scagno, Jaca Book, Milano 1996, p. 33.
[3] Origene, Omelie sul Cantico dei Cantici, a cura di M.I. Danieli, Città Nuova Editrice, Roma 1995, p. 80. A questo riguardo, cf. anche Origene, Omelie sui Numeri, a cura di M.I. Danieli, Città Nuova Editrice, Roma 1988, pp. 152-153.
[4] A differenza dell’arianesimo e del nestorianesimo, il pelagianesimo non andava a intaccare il dogma rivelato. Se è stato avversato, ciò è avvenuto per ragioni puramente “amministrative”, perché minacciava di perturbare l’unità di una Chiesa incapace, ai suoi esordi, di assorbire l’urto dell’eresia e di inglobarlo in sé, come sarebbe accaduto invece in seguito con altri movimenti di riforma religiosa (benedettini, francescani e domenicani), non meno eterodossi e pericolosi per l’unità della Chiesa ma manifestatisi in epoche in cui il potere ecclesiastico si era consolidato al punto da poter trarre alimento da esperienze tanto diverse. Ionescu attribuisce a Pelagio una condotta di vita ascetica e arriva ad assimilare il pelagianesimo a una forma di misticismo.
[5] Nei suoi esiti radicali, raggiunti probabilmente da Celestio, il pelagianesimo conduce a una supervalutazione delle opere di carità, posizione questa virtualmente conforme alla dottrina cattolica delle “buone opere”, se non fosse che l’esaltazione del merito individuale finisce per degenerare nella pretesa di autogiustificazione e auto-salvazione che rende di fatto superfluo ogni intervento da parte di Dio.
[6] J.P. Migne, Patrologiae Cursus Completus. Series Graeca, vol. XIV, tomo IV, p. 631.
[7] Dionigi distingue le sostanze angeliche in tre ternari: il primo ternario è rappresentato da Troni, Cherubini e Serafini; la prima gerarchia si trova perennemente e immediatamente presso Dio “secondo una vicinanza che supera ogni altra”.  La seconda gerarchia è formata da: Potestà, Dominazioni e Virtù. La terza comprende Angeli, Arcangeli e Principati. La conoscenza che il primo ternario ha di Dio è per partecipazione diretta, “senza mezzo alcuno”. Pseudo Dionigi-Areopagita, La gerarchia celeste, in Corpus Dionysiacum, a cura di E. Turolla, La Vita Felice, Milano 2014, p. 88.
[8] Il riferimento è ai Soliloquia agostiniani (II, 1) probabilmente citati da Ionescu in via indiretta, avendo egli presente l’opera di Léon Blanchet, Les antécédentes historiques du “Je pense, donc je suis”, Félix Alcan, Paris 1920.
[9] Nell’ambito dei suoi corsi di logica Ionescu sembra manifestare tuttavia un diverso orientamento, accomunando l’esperienza di Anselmo a quella di Cartesio e di altri filosofi moderni che hanno frainteso la differenza tra ens e genus, deducendo l’esistenza a partire dal concetto (III 298; IV, 244, 259).