Echi di Dante nell’attività didattica e pubblicistica di Nae Ionescu

In occasione della ricorrenza del settimo centenario dalla morte di Dante Alighieri (1265-1321), vogliamo celebrare la fama di cui «il sommo poeta» ha goduto in terra di Romania, soffermandoci nello specifico sulla considerazione di cui è stato oggetto da parte di una personalità di assoluto rilievo dell’intellettualità romena, quale è stato Nae Ionescu (1890-1940), l’indiscusso maestro della giovane generazione interbellica.
Se ha ragione Dora Mezdrea di affermare che «la passione per la lingua e la cultura italiana lo avrebbe accompagnato per tutta la vita» [1], è fuor di dubbio che Dante, «padre della lingua italiana, cioè dell’Italia» [2], abbia rivestito per il filosofo esperienzialista romeno un’importanza affatto particolare, come i riferimenti presenti tanto nei corsi universitari quanto negli articoli di rivista e di giornale si incaricano di dimostrare.
Vale la pena ricordare, in aggiunta, che il filosofo brăileano figura tra i primi sessanta membri della Società Dante Alighieri presieduta tra il 1910 e il 1916 dal celebre filologo e linguista italiano Ramiro Ortiz (1879-1947), titolare della cattedra di Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Bucarest per oltre due decenni, direttore della rivista di cultura italiana «Roma» – alla quale Ionescu offrirà il proprio contributo in un paio di occasioni (un articolo dedicato al filosofo positivista Roberto Ardigò e il resoconto della conferenza Mistici italiani) –, nonché prefatore e curatore della prima traduzione integrale della Commedia – ad opera di George Coșbuc (1866-1918) –, pubblicata tra il 1925 e il 1932 [3].

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L’apprendimento sistematico della lingua italiana da parte di Nae Ionescu risale alla quinta classe del liceo (corrispondente al primo anno del ciclo secondario superiore), anche se Dora Mezdrea rammenta, a tale proposito, come il giovane allievo non fosse del tutto digiuno d’italiano, circostanza che ha indotto la biografa a ipotizzare la presenza di una governante madrelingua a servizio presso la famiglia Ionescu. Sempre la Mezdrea ci informa che il professore di lingua italiana al liceo «I.C. Massim» di Brăila era il triestino Emil Mayer e i libri di letture erano due: per le classi V, VI e VII (prima, seconda e terza del nostro ciclo superiore), il Compendio di letture italiane ad uso delle scuole rumene di Corneliu Th. Codrescu [4], cui veniva ad aggiungersi per la classe VIII il Libro di lettura in appendice al disegno storico della letteratura italiana di Raffaello Fornaciari [5].
Per agevolare l’apprendimento della lingua italiana, il Compendio di Codrescu si apre con alcuni testi brevi che si riferiscono a famosi episodi tratti dalla storia della Romania, segue una sezione di apologhi o piccoli racconti morali, un vocabolario minimo dei termini italiani di maggior uso, per chiudersi con una sezione di profili biografici di letterati italiani, da Dante a Francesco de Sanctis. Qui Ionescu ha potuto leggere oltre alle tribolate vicende di cui Dante è stato protagonista, una sintetica presentazione, in ordine cronologico, delle principali opere: la Vita Nuova,«il saggio che abbiamo di Dante come appartenente alla scuola dello stil novo. […] In essa il poeta narra in modo poetico la storia del suo amore per una fanciulla chiamata Beatrice: storia ricca di visioni, di simboli, di riscontri cabalistici» [6]; il trattato De Monarchia, che si conclude con la dimostrazione «che l’autorità del monarca non dipende che da Dio, e non, come si voleva, dal pontefice, al quale è solamente riservata la potestà spirituale» [7]; il libro «Della volgare eloquenza, vale a dire del parlare volgare, il quale doveva essere un trattato di rettorica molto particolareggiato, preceduto da uno studio dei volgari italiani» [8]; cenni a una «tesi di scienza geografica e geologica», alle Egloghe e alle Lettere, in lingua latina. Della Commedia, «in seguito chiamata divina, sia per il carattere sacro dell’argomento, sia per la perfezione che il poeta ha saputo conseguire» il manuale del Codrescu offre un’esposizione particolareggiata, descrivendo la struttura dei tre mondi e riassumendo il contenuto dei diversi canti. Codrescu svolge in conclusione alcune considerazioni sul significato allegorico del poema dantesco riconoscendo in esso il momento acmeico e il punto di sintesi della spiritualità medievale: «L’arte del poema consiste […] nella profondità colla quale Dante seppe fondere, per dir così, tutto lo spirito medieovale, colle sue passioni, colle sue aspirazioni, colla sua storia, colla sapienza sua. E l’argomento e la forma del poema (la visione) sono pure cavate dalle viscere del medioevo» [9].
Il Libro di lettura del Fornaciari, nella prima sezione dedicata ai secoli XIII-XIV, ospita l’ultimo paragrafo del capitolo XVIII e il capitolo XIX della Vita Nuova [10], dove Dante, con la canzone Donne, ch’avete intelletto d’amore, inaugura un nuovo modo di far poesia («nove rime»): la poesia «della lode», in cui la celebrazione della donna amata diventa atto gratuito e premio a se stesso, al di là di ogni riconoscimento o contraccambio amoroso da parte di lei; la legittimazione dell’Impero tratta dal Convivio (IV, 4), dove, citando a più riprese il Filosofo, cioè Aristotele, Dante afferma che: «Lo fondamento radicale della imperiale maestà, secondo il vero, è la necessità della umana civiltà che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice […] Per che manifestamente veder si può, che a perfezione dell’universale religione della umana spezie, conviene essere uno quasi nocchiere, che considerando le diverse condizioni del mondo, e li diversi e necessari uffici ordinando, abbia del tutto universale e irrepugnabile ufficio di comandare. E questo ufficio è per eccellenza imperio chiamato» [11] e infine il XVII Canto del Paradiso, in cui Cacciaguida predice a Dante l’esilio: «Qual si partì Ippolito d’Atene/ Per la spietate e perfida noverca,/ Tal di Fiorenza partir ti conviene» [12].

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Se la conoscenza, quantomeno sommaria, dell’opera dantesca risale agli anni del liceo, l’approfondimento della prospettiva filosofica e teologica di Dante è avvenuto, verosimilmente, durante gli anni di dottorato trascorsi dal filosofo prima a Gottinga e poi, a partire dal 1914, a Monaco di Baviera. Presso l’Università Ludwig Maxmillian di Monaco – al termine di un lungo periodo di prigionia trascorso nel campo di prigionia di Celle-Schloß (vicino ad Hannover), dove fu internato in seguito all’ingresso della Romania nella prima guerra mondiale – Ionescu discuterà nel 1919 la propria tesi di dottorato sotto la guida di Clemens Baeumker, autorevole esperto di patristica e filosofia medievale, il quale aveva pubblicato nel 1913, sulla rivista «Deutsche Literaturzeitung», lo studio Dantes philosophische Weltanschauung. Nell’articolo in esame, l’accademico tedesco, mostrando apprezzamento per il lavoro del grande filosofo e dantista Bruno Nardi, sottolinea come «non sia corretto definire Dante un tomista puro, che piuttosto aderisce per molti aspetti all’indirizzo neoplatonico, per altri all’agostinismo, con cui l’indirizzo neoplatonico appare così spesso ecletticamente connesso», e in particolare a quella «metafisica della luce» che Tommaso d’Aquino aveva invece ripudiato [13]. La lezione di un Dante uomo del Medioevo, a cui Ionescu presterà voce nell’ambito dei suoi corsi di metafisica all’Università di Bucarest trova dunque solida sponda nell’accurata disamina del suo mentore monachese, sebbene il filosofo romeno non dia prova di aver recepito la pluridimensionalità della Weltanschauung dantesca veicolata dal Baeumker.
Di ritorno dalla Germania, Ionescu collabora alla cattedra di psicologia e logica di Constantin Rădulescu-Motru, scrive sulle riviste «Studii filosofice» e «Ideea europeană» e contemporaneamente è impegnato in un’intesa attività di conferenziere in tutto il Paese. Tra i vari soggetti che Ionescu presenta al pubblico (la rinascita religiosa, la teoria della relatività, Galilei, Einstein, etc.) c’è anche Dante, a cui dedica una conferenza per conto della Società romena di filosofia, dal titolo La Filosofia di Dante,di cui purtroppo non è rimasta traccia. L’incontro ebbe luogo nell’aprile del 1922 a Caracal, nella regione storica dell’Oltenia, e andava ad arricchire il già brillante curriculum del giovane studioso.
Nel corso di metafisica (1925-1926) dedicato al Problema della salvezza nel Faust di Goethe, di cui Mircea Eliade ha fissato il ricordo nelle sue memorie, Ionescu considera la messa in scena del dramma di Goethe un evento epocale per la cultura romena, paragonandolo per importanza alla traduzione della Divina Commedia [14]. Entrambi questi avvenimenti testimoniano che «la cultura romena ha raggiunto un grado talmente elevato da poter assorbire, da poter assimilare i capolavori della letteratura universale […] 27 romanzi molto ben scritti valgono meno della traduzione della Divina Commedia e della rappresentazione della pièce Faust. Questo, tuttavia, a una sola condizione, vale a dire che questa traduzione della Divina Commedia e questa rappresentazione della pièce Faust esprimano un’esigenza del nostro grado di cultura» [15].
Un più ampio e cogente riferimento a Dante si trova all’interno del corso di metafisica dedicato alla Teoria della conoscenza metafisica. I. La conoscenza immediata (1928-1929), laddove Ionescu, traendo con ogni probabilità ispirazione dall’opera divulgativa Mysticism di Evelyn Underhill, illustra il primo dei tre “tipi” umani in cui la valorizzazione metafisica si incarna: il pellegrino, lo sposo, il santo. Secondo Ionescu, la letteratura del pellegrinaggio, nella sua duplice natura, materiale-geografica, o spirituale-metodica, esprime l’esigenza dell’uomo di evadere i limiti della realtà sensibile:
«Dal punto di vista spirituale, vi sono due generi di terre elette: vi sono letterature che parlano in un certo qual modo geograficamente di tali terre; vi sono altre letterature che parlano soltanto spiritualmente di una simile realtà. Nel primo caso rientra, ad esempio, tutta la letteratura del Graal – la quale sapete di cosa tratta: cos’è accaduto a Parsifal e cos’ha ottenuto Parsifal –; mentre nel secondo tipo, le terre spirituali di elezione, rientra tutta la letteratura che rappresenta, se non una specie di gradus ad Parnassum, almeno una sorta di scala verso il cielo, verso il cielo spirituale. La Divina Commedia di Dante, è una continua ricerca di evasione: Virgilio con Dante, i quali attraversano il Purgatorio e giungono all’Empireo. Nei viaggi di Dante è racchiusa la migrazione dello spirito umano per diversi gradi di perfezione, fino a giungere a Dio. Soltanto che, evidentemente, la Divina Commedia è piuttosto una sorta di indicazione metodica, oltre che l’espressione simbolica di una realtà; non è, allo stesso modo, indicazione metodica, come sarebbe, ad esempio, il trattato di San Giovanni Climaco, il quale è un trattato di iniziazione mistica; dunque, non soltanto indicazione formale, bensì anche conoscenza della realtà. Secondo me, il passaggio di Dante nell’Inferno, attraverso il Purgatorio e fino a giungere in Paradiso rappresenta – oltre al cammino che lo spirito deve seguire per giungere a Dio – anche la realtà dei nostri stadi spirituali. Non la realtà ontologica, bensì la realtà dei nostri stadi spirituali, nella loro successione, così come si devono gerarchizzare nel procedere verso Dio; perché, dopo tutto, il fine è sempre Dio, cioè l’essere supremo» [16].
Il nome di Dante risuona anche nell’ambito del corso di storia della logica (1929-1930). Nella terza lezione Ionescu si sofferma sulla contrapposizione tra il «vecchio» e il «nuovo» mondo, cioè tra l’Evo medio, caratterizzato da una concezione fondamentalmente teocentrica, e l’Evo moderno, segnato dalla riscoperta e dalla celebrazione dell’essere umano – fenomeno a cui si assiste tanto nella letteratura, dove si afferma la memorialistica, quanto nell’arte pittorica, dove invece si impone il ritratto. Per Ionescu Dante non sarebbe stato affatto il primo dei moderni o il precursore della modernità – «semmai Boccaccio, ma Dante no». Per sottolineare l’estraneità di Dante alla mentalità moderna Ionescu menziona il De Monarchia e la Divina Commedia:
«La Divina Commedia è la Summa teologica di Tommaso d’Aquino, oltre la quale non si spinge nemmeno di un passo. Come egli abbia iniziato a dare forma alla lingua, questa è una questione di storia della letteratura; ma dal punto di vista dell’evoluzione spirituale, delle forme spirituali dell’umanità, Dante non fa parte del Rinascimento, Dante non è un precursore del Rinascimento, bensì è l’espressione più perfetta dell’Evo medio. Che abbia scritto in volgare, anziché scrivere nella lingua degli uomini colti, è un’altra faccenda. Questo significa che lo spirito del tempo iniziava a manifestarsi ma non nel pensiero di Dante» [17].
Come si vede, se da una parte Ionescu mostra di avere approfondito la dimensione speculativa dell’opera dantesca, esplorandone il retroterra filosofico e intravedendone le finalità mistico-anagogiche, dall’altra egli continua a pensare Dante come un «tomista» integrale, non raccogliendo, almeno in sede didattica, la suggestione di Clemens Baeumker, il quale, come è già stato ricordato, aveva evidenziato la permeabilità del poeta a correnti neoplatoniche e agostiniane.

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Anche l’attività pubblicistica di Nae Ionesu reca traccia della passione per Dante. Nel suo repertorio di citazioni estemporanee e preziosismi letterari rientrano alcuni celebri passi della Commedia,come ad esempio Inferno III, 51: «non ragionar [sic] di lor ma guarda e passa», di cui l’allora giovane collaboratore di «Ideea europeană» si serve per sottolineare la qualità dei contributi raccolti negli «Arhiva pentru știintă și reformă socială» nr. 1-3, organo dell’Istituto Sociale Romeno, segnalati sulla rivista diretta da Rădulescu-Motru, nessuno dei quali meriterebbe, a suo giudizio, l’oblio che Virgilio raccomanda per coloro – gli ignavi – «che visser sanza ’nfamia e sanza lodo» [18].
Di tema squisitamente dantesco è invece la recensione al secondo numero della rivista «Connaissance» (luglio-agosto 1921), in cui si offre:
«il commento a uno studio dell’esperto spagnolo Asín Palacios sulle origini musulmane della Divina Commedia, mostrandoci il contributo della cultura araba nell’ispirazione di Dante, gettando nuova luce sull’evoluzione religiosa del Corano, in rapporto con la cultura araba e con l’espansione politica dell’Asia minore sull’Europa. Un solo verso del Corano – opera troppo materiale per offrirci visioni poetiche più ampie del mondo dell’aldilà – è il punto di partenza dell’immaginazione orientale, il quale, sviluppato in hadith e commentari, offre descrizioni di incantevole poesia del Paradiso e dell’Inferno.
Queste visioni infernali e paradisiache presentano, con la Commedia dantesca, stando alle prove rigorose e altrettanto ingegnose di Asín Palacios, innumerevoli somiglianze. La compenetrazione di quelle due civiltà non è affatto un mistero, poiché Dante parla spesso di arabi, menzionando anche Avicenna, Al Gazali, Averroè. Egli parla anche della religione islamica come di una setta cristiana, collocando nello stesso inferno i loro peccatori con quelli cristiani e assegnando Avicenna e Averroè allo stesso empireo [sic] insieme a Socrate, Platone, Orfeo, etc.
Se l’islamismo, nato dal giudeo-cristianesimo, sprovvisto di un apporto metafisico e morale che gli appartenga, presenta tuttavia il carattere di una sintesi propria e la capacità di un potente motore attivo, il fatto è da attribuirsi a personalità che hanno operato la fusione delle idee attraverso uno slancio di genialità, come sono quelle di Maometto o quelle dei sufi (mistici che hanno personalizzato i concetti freddi, assumendoli nella vita, nell’azione). E, come i profeti e i santi rinvigoriscono un dogma, dando vita a una religione viva, la personalità poetica dà uno spirito nuovo a una leggenda, trasformando la nozione in un’intuizione poetica.
Dante, prendendo dall’Islam i modelli generali, li ha fatti passare attraverso il prisma della sua intuizione, riferendoli al proprio essere, interiorizzandoli. Il viaggio all’Inferno diventa una viaggio dello spirito umano, approfondito attraverso le infinite possibilità di simbolizzazione della parola. Città dolente [in italiano nel testo] è Firenze senza Beatrice, è il mondo senza luce, il mondo del male, è l’inferno ed è lo spirito del poeta senza luce…» [19].

Anche le colonne di «Cuvântul» – il quotidiano indipendente di orientamento neo-conservatore a cui Ionescu iniziò a collaborare nel maggio del 1926, e di cui sarebbe diventato in seguito direttore e proprietario – ospitano riferimenti a Dante. Nell’articolo «L’oroscopo delle religioni», un pezzo polemico in cui l’autore assimila l’approccio positivista alla religione allora di moda ai tentativi compiuti dall’astrologia di tracciare l’oroscopo di Cristo, Ionescu cita il Convivio (IV, V, 7), nel quale Dante, che pure aderisce senza riserve al dogma della Chiesa, afferma che i matematici, in virtù della loro arte, possono arrivare a stabilire quale fosse la migliore disposizione del cielo e della terra, la congiunzione favorevole cioè, sotto la quale nacque il Figlio di Dio-Padre [20].
La citazione dantesca di Inferno III, 16: «Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto/ Che tu vedrai le genti dolorose/ C’hanno perduto ’l ben dell’intelletto» è l’incipit sarcastico dell’articolo intitolato: «Perché non è buono lo sciovinismo», in cui Ionescu polemizza con il quotidiano nazionalista ungherese «Nemzeti Újság», il quale protestava contro la «consegna» della Transilvania da parte delle democrazie europee alla Romania, considerata dai magiari una potenza «orientale» [21].
Un ultimo riferimento al «ghibellin fuggiasco», ricorre nel contributo dal titolo «Lotta contro la pornografia». Ricordiamo che verso la fine dell’anno accademico 1936-1937 Mircea Eliade, allora assistente onorifico di Nae Ionescu, veniva incolpato di essere l’autore di alcuni scritti pornografici. L’accusa non avrebbe avuto probabilmente alcun seguito, se non fosse stata approvata nell’aprile 1937 una legge che di fatto proibiva che i corsi, gli esami e altri oneri accessori all’insegnamento universitario fossero svolti da altri membri del corpo docente di grado inferiore, o da membri del personale scientifico ausiliario. Senza fare alcun riferimento alla vicenda, Ionescu svolge una serie di riflessioni dalle quali traspare però, abbastanza chiaramente, un giudizio «assolutorio» e la volontà implicita di riabilitare il proprio assistente. Ionescu comincia col distinguere erotismo e pornografia, sottolineando il valore metafisico dell’eros [22] («Ci sono regioni ed epoche intere in cui il problema della salvezza si risolve in termini di erotica»): condannare l’erotica perciò non è possibile, equivalendo a censurare determinate forme storiche, determinati popoli e culture. La pornografia consiste, al contrario, nell’esercizio della sessualità fine a se stessa e nel puro gusto per l’abiezione. Come tale, non può che essere oggetto di condanna, ma aggiunge Ionescu, non è il semplice uso di alcune parole a conferire alla frase un carattere pornografico, di questo passo infatti «persino Dante (come ci faceva osservare il professor Marcu) sarebbe un pornografo» bensì il loro utilizzo per determinati scopi [23]. Non è chiaro a cosa Ionescu si riferisca con precisione, potrebbe trattarsi forse di un’allusione al celebre episodio delle «fiche» di Vanni Fucci (Inferno XXV, vv. 1-3), che Alexandru Marcu chiosava come «gesto osceno» nella nota in calce alla sua traduzione in prosa del poema dantesco.

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Il riferimento a Dante accompagna costantemente l’attività didattica e pubblicistica di Nae Ionescu dai primi anni Venti fino alla fine degli anni Trenta. Ionescu mostra di possedere una conoscenza approfondita e diretta del poeta fiorentino, non circoscritta alla sola Commedia, ma comprendente anche La Vita Nova, il De Monarchia e il Convivio – forse anche il De Vulgari eloquentia, sebbene quest’ultima opera non sia mai citata expressis verbis. Oltre che una fonte alla quale attingere occasionalmente per dare sfoggio di erudizione, Dante è stato per Ionescu soprattutto un «filosofo», un uomo del Medioevo, il campione di una mentalità metafisica e teocentrica, e la Commedia un poema religioso, la rappresentazione simbolica del pellegrinaggio spirituale al termine del quale l’uomo giunge a conoscere Dio.






Igor Tavilla
(n. 4, aprile 2021, anno XI)





NOTE

[1] Dora Mezdrea, Biografia, voll. I-II, EMLR, București 2015, vol. I, p. 123.
[2] Ignazio Baldelli, Dante e la lingua italiana, Accademia della Crusca, Firenze, 1996, p. 28.
[3] Dante Alighieri, Divina Comedie, traducere de G. Coșbuc, ediție îngrijită și comentată de Ramiro Ortiz, I-III, București, [1925]-1932.
[4] Corneliu Th. Codrescu, Compendio di letture italiane ad uso delle scuole rumene, Malvano, Nizza 1807.
[5] Raffaello Fornaciari, Libro di lettura in appendice al Disegno storico della letteratura italiana, Sansoni, Firenze, 1884.
[6] Corneliu Th. Codrescu, op. cit., p. 82.
[7] Ivi, p. 83.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, p. 91.
[10] Raffaello Fornaciari, op. cit., pp. 29-33. 
[11] Ivi, pp. 33-35.
[12] Ivi, pp. 35-39.
[13] Clemens Baeumker, Dantes philosophische Weltanschauung, in «Deutsche Literaturzeitung», n. 34, 1913, pp. 2760-2761, p. 2760b.
[14] La prima del Faust, basata sulla traduzione di I.U. Soricu e per la regia di Soare Z. Soare,andò in scena presso il Teatro Nazionale di Bucarest la sera del 18 settembre 1925. Faust era interpretato da George Vraca, Mefistofele da Romald Bulfinski e Margareta da Aura Buzescu.
[15] Nae Ionescu, Conoscenza metafisica ed esperienza religiosa, Roma, Stamen, 2020, pp. 318-319. In verità, Ionescu scrisse su «Ideea europeană» una recensione-stroncatura della rappresentazione portata in scena al Teatro Nazionale, definendola una «‘evasione’ culturale», e accusando la direzione di aver fatto «il passo più lungo della gamba». Cfr. [S.n.], Reprezentarea lui “Faust”, o “escapadă” culturală, in «Ideea  europeană», n. 175, 1 ottobre 1925, ora in Opere, a cura di M. Diaconu e D. Mezdrea, EMLR, București, vol. VII, p. 124, e in Nae Ionescu, Conoscenza metafisica, cit., pp. 317-318. 
[16] Opere, vol. II, p. 130.
[17] Opere, vol. IV, p. 29.
[18] “Arhiva pentru știință și reformă socială” Nr. 1-3, 1920, in«Ideea europeană», n. 50, 26 settembre - 3 ottobre 1920, ora in Opere, vol. VI, p. 314.
[19] “Divina Comedie” sub influenţa culturei arabe, in «Ideea europeană», n. 75, 11-18 settembre 1921, ora in Opere, vol. VI, p. 369.
[20] Horoscopul religilor, in «Cuvântul», n. 594, 25 ottobre 1926, ora in Opere, vol. VII, p. 360.
[21] De ce nu e bun șovinismul, in «Cuvântul», n. 1765, 21 marzo 1930,ora in Opere, vol. XII, p. 167.
[22] La prolusione inaugurale tenuta da Ionescu in apertura all’anno accademico 1919-1920 si intitolava La funzione epistemologica dell’amore, e consisteva in una riflessione sul valore gnoseologico dell’amore inteso come forza motrice del processo conoscitivo finalizzato a realizzare l’unione con l’essere supremo. Cfr. Opere, vol. I, pp. 23-35, ora in Nae Ionescu, Conoscenza metafisica..., cit., pp. 409-434.
[23] Lupta împotriva pornografiei, in «Cuvântul», n. 3167, 9 marzo 1938, ora in Opere vol. XV, p. 419. Celebre italianista e dantista, Alexandru Marcu (1894-1955) curò una nuova traduzione in prosa della Divina Commedia (Scrisul Românesc, Craiova 1932-1934).