Kierkegaard “perennialista”. Il pensatore danese attraverso le lenti di Mircea Eliade

La filosofia perenne. Un sintetico approccio al tema

Mircea Eliade (Bucarest, 1907-Chicago, 1986) è stato, se non il primo, certamente fra i primi a scrivere di Kierkegaard nella Romania interbellica [1]. A partire dalla metà degli anni ’20, il giovane Eliade cominciò a leggere Kierkegaard in traduzioni italiane, e nel 1928 pubblicò su «Cuvântul» un articolo sull’uomo e l’opera, intitolato Sören Kierkegaard – Logodnic, pamfletar și eremit [S.K. – fidanzato, panflettista ed eremita]. A quel tempo, Eliade era la guida indiscussa della cosiddetta “giovane generazione” degli intellettuali romeni, i quali miravano ad ampliare l’orizzonte culturale del proprio paese aprendolo a universi spirituali che fino a quel momento erano rimasti fuori dalla loro portata [2].
In seguito, Eliade tornò a Kierkegaard durante il lutto per la perdita della moglie Nina Mareș, venuta a mancare nel 1944 dopo una lunga e dolorosa malattia. Eliade stava allora concludendo il suo mandato di addetto culturale presso la Legazione del Regno di Romania a Lisbona. Il suo Diario portoghese (da ora in poi, DP) è una fonte straordinaria, per chi voglia saperne di più sull’interesse mai sopito di Eliade per Kierkegaard. Nello stesso periodo, l’autore romeno stava preparando una delle sue opere più famose: Il mito dell’eterno ritorno [3]. In questo saggio, lo storico delle religioni si concentra sulla dimensione metafisica delle società premoderne. Se ci limitiamo a scorrere l’indice di Il mito dell’eterno ritorno (d’ora in poi, MER), alcuni temi di ascendenza kierkegaardiana catturano la nostra attenzione: la ripetizione, la disperazione e la fede.
L’opera di Eliade è stata dunque fortemente influenzata dalla lettura di Kierkegaard. In un’annotazione di DP, Eliade confessa la sua doppia attrazione tanto per la saggezza arcaica (che egli identifica in parte con la cosiddetta philosophia perennis) quanto per l’esperienzialismo:

Ciò che mi caratterizza: il desiderio di conciliare la philosophia perennis con l’«esperienzialismo» più esageratamente individualistico. Da qui deriva la mia passione bizzarra per il simbolo, la metafisica tradizionalista, l'occultismo e l'etnografia e, anche se non concomitante, alternativamente, la mia passione non meno significativa per tutti i miei «vissuti», per tutto ciò che è legato all’attimo, all'esperienza, al dramma folgorante (DP, 46) [4].

Gli studi comparati nel campo della storia delle religioni hanno consentito a Eliade di riconoscere alcune costanti alla base della religiosità arcaica. Eliade era del pari convinto che la struttura fondamentale dell'esperienza religiosa primordiale riaffiori nella coscienza moderna sotto varie forme. Proprio al centro della riflessione di Kierkegaard è possibile identificare alcuni aspetti della religiosità primitiva.
Sulla base di DP e MER, possiamo tracciare un breve elenco riassuntivo dei temi eliadiani affini, quando non ispirati, a Kierkegaard: a) L’individualità e la verità soggettiva b) Il sacrificio c) L’imitazione d) L'istante come pienezza del tempo e) La ripetizione.
Tutti questi temi sono reciprocamente interconnessi e, sotto certi aspetti, sembrano poter ricondurre Kierkegaard alle forme della religiosità arcaica. Per ciascuno di essi, richiamerò brevemente l'opinione di Eliade e poi mi volgerò a Kierkegaard. Così facendo, cercherò di evidenziare analogie e differenze tra la religione arcaica e la visione del cristianesimo di Kierkegaard.

1. Individualità e verità soggettiva In un’annotazione del DP, Mircea Eliade paragona la ricerca della verità di Kierkegaard come soggettività alla filosofia indiana, secondo la quale colui che trova il suo vero Sé (il suo ātman), trova anche il principio universale, il brahman [5]. In contrasto con il pensiero speculativo, per il quale la soggettività è semplicemente la non verità, Kierkegaard afferma che la verità è «appropriazione, interiorità, soggettività» e il compito consiste nell’«approfondirsi esistendo nella soggettività» (AE 362), nel rapportare, cioè, la verità eterna ed essenziale alla persona esistente, nell'interiorità dell'esistenza. La modalità per accedere alla verità diventando al contempo sempre più soggettivi è descritta dal danese ne La malattia per la morte (1849) come un processo di crescente auto-consapevolizzazione [6]. Sotto lo pseudonimo di Anti-Climacus, Kierkegaard sviluppa la sua personale e “anti-hegeliana” fenomenologia dello Spirito, iniziando col dare una definizione di cosa sia lo Spirito ed esaminandone le manifestazioni successive, a partire da quelle meno consapevoli a quelle via via più consapevoli [7]. All'inizio, Kierkegaard definisce lo Spirito come il Sé, e descrive il Sé come una sintesi di infinito e finito, temporale ed eterno, libertà e necessità. Per diventare propriamente un Sé, tuttavia, è indispensabile che il rapporto – che ogni Sé è per costituzione – si rapporti a se stesso e diventi autocosciente. Il processo di auto-consapevolezza culmina infine nel riconoscimento che il Sé umano è un rapporto derivato, «un rapporto che si rapporta a se stesso, e nel rapportarsi a se stesso si rapporta ad un Altro» (SD 15). Quest’Altro è Dio, colui che ha stabilito il rapporto e al quale il Sé deve da ultimo rapportarsi per sradicare la disperazione, la malattia per la morte dello Spirito [8]. Al livello più profondo dell'auto-realizzazione, il Sé riconosce Dio come la potenza che lo ha stabilito. Conoscere Dio è, quindi, tutt'uno con la conoscenza profonda di sé stessi, come affermava l'oracolo di Delfi.

2. Il sacrificio Eliade considerava il sacrificio di Abramo come un esempio degno di nota della differenza fondamentale tra la ripetizione tradizionale di un gesto archetipico e la fede, acquisita attraverso l'esperienza religiosa. Da un punto di vista morfologico, il sacrificio di Abramo non è altro che un sacrificio del primogenito, spesso considerato nel mondo paleo-semita come figlio di Dio; in un certo senso, Isacco era, di fatto, un figlio di Dio, «poiché era stato dato ad Abramo e a Sara quando ormai questa aveva da molto superato l'età per partorire. Ma Isacco fu dato per la loro fede; era figlio della promessa e della fede» (MER 126-127). Eliade ricorda la distinzione operata da Kierkegaard tra eroe tragico ed eroe biblico: «I loro sacrifici [cioè, sacrifici eseguiti nelle società tradizionali] appartenevano – per utilizzare la terminologia di Kierkegaard – al “generale”» (MER 127). Il cristianesimo professato da Kierkegaard era lontano da qualsiasi idea di religione intesa come un insieme di mezzi esteriori attraverso cui un gruppo umano può entrare in contatto con Dio. Secondo Kierkegaard, il rapporto con Dio è solo una questione di interiorità. Il primato della soggettività sull’oggettività consente al danese di affermare, addirittura, che se qualcuno prega il vero Dio, ma prega in falsità, sta adorando un idolo, mentre se qualcuno, in una terra idolatra, prega con tutta la passione dell’infinito un idolo, sta in verità pregando Dio [9]. Tuttavia, sebbene Kierkegaard rifiuti qualsiasi ritualismo come un falso culto, riconosce del pari il sacrificio al centro della vita cristiana. Essere cristiani non è però questione di compiere un sacrificio, ma di sacrificare se stessi. In un'annotazione del suo Diario datata 1854 e intitolata «Sacrificio», egli afferma: «Cristo è l'unico Sacrificio; nessun Sacrificio è più necessario. Il vero cristiano è colui che diventa sacrificio per testimoniare che Cristo è l'unico Sacrificio» (NB 29:109, 1854). L’unica forma di adorazione che Dio esige dal cristiano è in ultima analisi l'imitazione [Efterfølgelse].

3. L’imitazione Nelle culture tradizionali, qualunque cosa l'uomo faccia è già stata fatta prima, poiché gli atti ordinari dell'uomo arcaico rinnovano e ripetono atti primordiali, consacrati in illo tempore da dèi, antenati o eroi. Un atto è reale, ha identità e significato, nella misura in cui è precisamente la ripetizione di un prototipo mitico. «Tutto ciò che non ha un modello esemplare è “privo di senso”, cioè manca di realtà» (MER 49). Dopo aver esaminato un gran numero di testimonianze, provenienti dalle culture più disparate, Eliade non manca di sottolineare che l’imitatio dei è ben attestata anche nella tradizione cristiana. Gesù stesso ha invitato in più occasioni i suoi discepoli a ripetere il suo esempio, poiché «il messaggio del Salvatore è prima di tutto un esempio che chiede di essere imitato» (MER 37) [10]. L’imitazione è anche un motivo cruciale nella visione che Kierkegaard ha del cristianesimo e nella sua polemica contro la cristianità stabilita. L’idea di Kierkegaard di Cristo come modello [Forbillede] e della vita cristiana come imitazione [Efterfølgelse] del modello non differisce essenzialmente da ciò che significa vivere in una cultura tradizionale, vale a dire «vivere secondo modelli extraumani, in conformità agli archetipi» (MER 111). È in virtù dell’imitazione che i credenti possono acquisire quei poteri (scacciare i demoni, parlare nuove lingue, maneggiare i serpenti, ecc.) che il Salvatore ha promesso a coloro che lo seguono. In linea con questa concezione, in un paragrafo alquanto sarcastico de L’istante [11] Kierkegaard suggerisce che i sedicenti cristiani non sono in grado di compiere miracoli e segni semplicemente a causa della loro mancanza di imitazione. Riguardo all’imitazione, tuttavia, Kierkegaard raccomanda cautela, poiché, qualora si dimentichi l’interiorità, «si rischia il tragicomico del più profondo e del più spaventoso malinteso». L’imitazione non consiste nel compiere le stesse azioni esteriori che il modello ha rivelato per primo. Questo sarebbe appunto il caso di quell’«uomo abietto», menzionato in Timore e tremore (1843), che, dopo aver ascoltato la predica sul padre della fede, «ritorna a casa, desideroso di imitare Abramo» (FB 50) [12].

4. Il momento come pienezza del tempo La novità della religione giudaico-cristiana rispetto alle religioni tradizionali consiste nel fatto che mentre nelle società primitive ierofanie e teofanie avvenivano in un tempo mitico, «nell’istante extratemporale dell’inizio» (MER 122), la rivelazione monoteistica è un evento storico, in quanto avviene in un momento limitato, non più ripetibile. Ciò detto, Eliade osserva che con l’avvento della civiltà giudaico-cristiana la dottrina tradizionale della rigenerazione periodica della Creazione era ben lungi dall’essere totalmente eliminata. La tradizione evangelica implica che il Regno di Dio è già presente tra coloro che credono, accessibile a chiunque, in qualsiasi momento, attraverso una metanoia [13]. Il motivo della «rigenerazione del tempo» è presente nella meditazione di Kierkegaard. Nel Concetto dell’angoscia (1844), Vigilius Haufniensis sostiene che il tempo sia una successione infinita. Ciò che dà consistenza al tempo è il fatto di essere toccato dall’eternità, nell’istante [14]. Nell’istante, tempo ed eternità si intersecano reciprocamente, e «con ciò è posto il concetto della temporalità» (BA 156), rendendo possibile la distinzione tra passato, presente e futuro. Le culture premoderne concepivano il tempo come un mero passare. Non erano consapevoli dell’attimo, pertanto l’unica qualificazione del tempo ad essere rilevante per loro, era il passato. Per i Greci, l’eterno è accessibile solo all’indietro, attraverso un processo anamnestico. Gli Ebrei erano consapevoli dell’attimo, ma lo concepivano come un mero discrimen, quindi l’eterno diventa per loro il futuro, e questo ha reso l’Ebraismo la religione messianica per eccellenza. A pagani ed ebrei, Vigilius Haufniensis oppone «la pienezza dei tempi, nella quale tutto si rinnova» (BA 157). Se teologicamente «la pienezza del tempo» esprime il momento dell'Incarnazione, soggettivamente, essa corrisponde al momento decisivo in cui il soggetto ottiene sia l'eterno che il temporale, in virtù della fede. La fede consiste, infatti, in un duplice movimento: prima, la rinuncia al finito (il momento della rassegnazione infinita) fa sì che il soggetto conquisti l'eterno, e poi, in virtù dell'assurdo, il cavaliere della fede riacquista quello stesso finito, riottenendolo però con la certezza che esso sia per l'eternità.

5. La ripetizione La vita dell'uomo primitivo era «la ripetizione ininterrotta di gesti inaugurati da altri» (MER 17). Attraverso la ripetizione di gesti paradigmatici, il tempo e la durata profani venivano sospesi e l'uomo partecipava del tempo mitico, in cui gli archetipi venivano rivelati per la prima volta. Inquadrata dai miti della rigenerazione del tempo, la ripetizione corrisponde a una Nuova Creazione, poiché rappresenta il ritorno al momento mitico del passaggio dal caos al cosmo. La ripetizione è uno dei concetti più originali di Kierkegaard. Secondo Kierkegaard, la ripetizione risulta dalla collisione tra idealità e realtà, l'eterno e il temporale. La ripetizione è la nuova creazione in virtù dell'assurdo. Nella ripetizione, «tutta la vita e tutta l'esistenza comincia di nuovo, non attraverso una continuità immanente con lo stato precedente – il che sarebbe una contraddizione – ma mediante una trascendenza» (BA 116). La ripetizione arresta il tempo, come un mero passare, come una successione infinita, collegandolo all'eternità e riflettendo l'eternità nel tempo. Quando, nella ripetizione, tempo ed eternità si incontrano, il presente cessa di essere privo di contenuto e diventa significativo, poiché diventa pieno dell'eterno, che è il vero presente, come ciò che «non ha né passato né futuro» (BA 155) [15]. Sia nelle società arcaiche che nella visione di Kierkegaard, la ripetizione libera l'essere umano dalla disperazione di vivere in un tempo profano e privo di significato. Tuttavia, mentre nelle religioni primitive la ripetizione si ottiene eseguendo una serie di cerimonie, liturgie, rituali, che offrono agli esseri umani un modo oggettivo e tangibile per sfuggire all'angoscia, l'uomo moderno è posto di fronte alla scelta di disperare, ignorando l'eterno che risiede in lui, o di avere fede in Dio che ha posto il Sé e per il quale tutto è possibile.

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A mo’ di conclusione intendo puntualizzare ancora una volta le questioni principali che ho toccato nel presente articolo, concentrandomi sulle differenze tra la mentalità religiosa premoderna e la concezione cristiana di Kierkegaard. 1) Per trovare la verità essenziale, l'essere umano deve scavare profondamente dentro di sé, cercando se stesso. Trovare il vero Sé comporta inevitabilmente trovare anche Dio, come il fondamento su cui il Sé riposa in modo trasparente. Ciò richiama in realtà l'idea delle Upaniṣad dell'intima connessione tra ātman e brahman. Tuttavia, Kierkegaard mantiene ferma la differenza tra uomo e Dio e la sua visione del cristianesimo è estranea a qualsiasi misticismo. 2) Il sacrificio era il rituale fondamentale delle religioni primitive. Anche Kierkegaard ha posto il sacrificio al centro della sua visione del cristianesimo. Cristo è il sacrificio perfetto ed essere cristiani significa sacrificare se stessi, seguendo l’esempio del maestro. Tuttavia, per Kierkegaard, il sacrificio non è un rituale da compiere, come nelle religioni arcaiche, ma una forma di imitazione, che esige interiorità e il rapporto appassionato a Dio, per evitare tragicomici equivoci. 3) Nelle società premoderne, l'uomo si identificava pienamente con gli dèi, gli antenati, gli eroi, per dare un senso ai suoi atti. L'imitazione è un requisito fondamentale anche nella vita cristiana. Essere cristiani significa seguire Cristo. Tuttavia, secondo Kierkegaard, nessuno può assolvere a questo compito, poiché esiste un'infinita differenza qualitativa tra l'uomo e Dio. Nondimeno, prendendo coscienza dell’inanità dei suoi sforzi, l'uomo si rende conto di quanto sia grande la distanza che lo separa da Dio e di quanto sovrabbondante sia la grazia che gli è stata concessa. 4) L'istante come pienezza del tempo. Nelle religioni premoderne, l'uomo sospendeva il tempo attraverso rituali, cerimonie, sacrifici il cui scopo era l'abolizione della durata e del tempo profano. Kierkegaard presenta il cristianesimo come una religione storica, ma allo stesso tempo considera il cristianesimo, in opposizione al paganesimo e all'ebraismo, come la religione dell’istante, poiché solo il cristianesimo ha concepito l'idea di una intersezione tra il tempo e l'eterno. Nell'istante, che è la «pienezza del tempo», il tempo è sospeso e la sua infinita successione è tolta. 5) Per rigenerare il tempo, l'uomo arcaico ha eseguito la ripetizione rituale di eventi archetipici, inaugurati in illo tempore da esseri immortali. La ripetizione è per Kierkegaard ciò che era anche per l'umanità arcaica: un mezzo per rinnovare, ricreare la realtà, sradicare la disperazione e vivere in un presente pieno di senso. Detto questo, la ripetizione non avviene attraverso rituali, ma in virtù di un atto di fede declinato individualmente.
Una citazione illuminante dal Diario di Eliade può concludere degnamente questo breve contributo. All'inizio del 1945, in un periodo molto duro dopo la perdita della moglie, Eliade chiarì la differenza tra un atteggiamento religioso primitivo, che egli attribuiva a se stesso, e la religiosità di Kierkegaard:

[...] per favore, non mi si confonda con Kierkegaard! La stessa passione e ossessione, in tutti e due, per il reale vero e proprio, che è accanto a noi, per il concreto e l’evanescenza dei frammenti e delle finitudini. Ma, per me, il frammento può coincidere con il Tutto; e restando nel finito, l’uomo può tuttavia afferrare l’infinito; attraverso i riti e i miti arcaici, l’uomo sapeva restare nel mondo concreto e goderne, senza nondimeno «cadere» in esso. Tale convinzione, che ho acquisito negli ultimi otto o nove anni di ricerche etnografiche, Kierkegaard non l’aveva. Da qui la sua terribile disperazione, e non più che la mia melanconia (DP 199).

Nonostante la sensibilità mostrata da Kierkegaard ai temi della religione arcaica, il pensatore danese è considerato da Eliade, almeno alla fine degli anni '40, come un tipico esponente della mentalità moderna, la quale comporta: desacralizzazione, disconnessione dal Cosmo e identificazione con la storia e il progresso. L'abbandono di schemi rituali e archetipi mitici, il rifiuto della rigenerazione ciclica del tempo, conducono l'uomo moderno alla disperazione. Lo stesso accade, malgrado tutto, anche a Kierkegaard il quale, incapace di realizzare una vera ripetizione – come prova il fatto che egli non sia riuscito a vincere la propria malinconia e a sposare Regine Olsen – si condanna a una disperata alienazione da questo mondo.


Igor Tavilla
(n. 9, settembre 2024, anno XIV)




Riferimenti e abbreviazioni


Per citazioni e riferimenti agli scritti di Kierkegaard utilizzo l’edizione critica, Kierkegaard 1997-2013, nella versione elettronica SKS, Søren Kierkegaards Skrifter elektronisk version 1.8.1 ved Karsten Kynde. Le citazioni dalle opere di Kierkegaard sono espresse mediante le sigle sotto indicate, seguite dal numero di pagina e inserite tra parentesi tonde all’interno del testo. In particolare, per il diario, i quaderni e le carte (Journaler og Papirer), le sigle presenti nell'edizione critica di questi scritti sono in gran parte di Kierkegaard, che ha raccolto molte delle sue considerazioni in 10 quaderni contrassegnati con una doppia lettera (da AA a KK), e dal 1846 in altri 36 quaderni contrassegnati con NB (Nota) e una numerazione progressiva. Altre riflessioni e appunti di varia natura sono stati raccolti dai curatori in 15 quaderni (Not[esbøger]) e in carte (Papir[er], 1-596).

AE       Postilla conclusiva non scientifica alle briciole di filosofia in S. Kierkegaard, Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1975; 
BA       Il concetto dell’angoscia, in S. Kierkegaard, Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1975; 
FB        Timore e tremore, tr. it. di F. Fortini e K. Montanari Gulbrandsen, in S. Kierkegaard, Timore e tremore e La ripresa,Edizioni di Comunità, Milano 1971;
R          La ripresa, tr. it. di A. Zucconi, in S. Kierkegaard, Timore e tremore e La ripresa, Edizioni di Comunità, Milano 1971;
SD       La malattia per la morte, tr. it. di E. Rocca, Donzelli, Roma 2011;
Ø         L’istante, tr. it. di A. Gallas, Marietti, Genova 2001.

 

NOTE

[1] Florin Țurcanu ha contestato l’affermazione di Eliade di essere stato il primo a scrivere su Kierkegaard nella Romania tra le due guerre. Secondo Țurcanu, il primo articolo su Kierkegaard risale al 1927 ed è attribuibile al filosofo accademico e sociologo Mihail Ralea («Viața românească», n. 6-7, 1927). F. Țurcanu, Erudiție și journalism. Despre publicistica lui Mircea Eliade în anii 1926-1928, in «Sud-estul și contextul european», vol. 3, 1995, pp. 87-94. Cfr. anche: L. Stan, “Mircea Eliade: On Religion, Cosmos and Agony”. In J. Stewart (ed.), Kierkegaard’s Influence on the Social Sciences (Kierkegaard Research: Sources, Reception and Resources, vol. 13), Routledge, London 2011.
[2] Altri riferimenti a Kierkegaard si possono trovare in Oceanografia (1934), una selezione di articoli e saggi pubblicati sul quotidiano «Cuvântul» e sul settimanale «Vremea» nei due anni precedenti. Inoltre, si possono ricordare alcune annotazioni diaristiche, risalenti all’inizio degli anni Trenta sotto il titolo «Frammenti». Il settimo capitolo del primo volume delle sue Memorie, relativo agli anni 1927-1928, è intitolato «La lezione di Kierkegaard». Nel 1970 (sulla rivista «Prodromos», Germania), trent’anni dopo la morte di Nae Ionescu, Eliade riconobbe il ruolo del suo professore all’Università di Bucarest nell’introduzione di Kierkegaard nella cultura romena.
[3] M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizioni,tr. it. G. Cantoni, Lindau, Torino 2018. (Testo originale: Le Mythe de l’eternel retour: archétypes et répétition, Gallimard, Paris 1949).
[4] Quello di philosophia perennis è un concetto fondamentale nella corrente tradizionalista, la quale comprende intellettuali rinomati come René Guénon, Ananda Coomaraswamy e Julius Evola. Secondo i suoi esponenti, esiste una sapienza perenne, che consiste nella totalità delle verità metafisiche primordiali e universali alla base delle singole religioni. Nonostante alcune convergenze con la visione dei perennialisti, su cui non possiamo soffermarci in questa sede, Eliade ha adottato un approccio scientifico comparativo (di taglio fenomenologico) allo studio delle religioni, senza disgiungerlo dalla critica storico-filologica delle fonti.
[5] L’ātman indica "l'essenza ultima dell'universo" così come il "soffio vitale” negli esseri umani, il "supremo Sé" che non nasce né muore. Il brahman significa la realtà ultima, il principio universale, verità-coscienza-beatitudine. Le Upaniṣad esprimono due tesi distinte, in qualche modo divergenti, sulla relazione tra ātman e brahman. Alcune insegnano che il brahman è identico all’ātman, mentre altre insegnano chel’ātman è parte del brahman ma non coincide con esso. Durante questo antico dibattito, sono emerse nell'induismo varie teorie dualiste (dvaita) e non dualiste (advaita).
[6] La malattia per la morte può essere considerata, in effetti, come la reazione di Kierkegaard alla speculazione di Hegel. Nella “Prefazione”, possiamo leggere la seguente frase, che contrasta precisamente con il rifiuto hegeliano di ogni filosofia che sia edificante: «Cristianamente tutto, tutto, ha infatti il dovere di servire all’edificazione» (SD 5).
[7] La disperazione fa parte di questo sviluppo spirituale, nella misura in cui essa è il “negativo” dello Spirito che ogni volta deve essere superato e ogni volta ritorna in una forma più intensa. Quanto più lo Spirito è cosciente, infatti, tanto più profonda è la disperazione. Le forme di disperazione sono molteplici. In primo luogo, c'è la disperazione che ignora di essere disperazione. Questo tipo di disperazione colpisce coloro che ignorano di avere un Sé eterno; poi incontriamo la disperazione che è consapevole di essere disperazione, che colpisce coloro che riconoscono di avere un Sé, in cui si trova qualcosa di eterno. Una nuova intensificazione nella coscienza del Sé, e anche nella disperazione, è data dall'essere un Sé direttamente di fronte a Dio.
[8] Al termine de La malattia per la morte, Anti-Climacus afferma quanto segue: «nel rapportarsi a se stesso e nel voler essere se stesso, il sé si fonda in modo trasparente nella potenza che lo ha posto» (SD 132).
[9] Cfr. AE 367.
[10] Eliade produce alcune prove di quanto viene affermando, citando il Vangelo di Giovanni. «Dopo aver lavato i piedi degli apostoli Gesù disse loro: “Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Giovanni 13: 15)». Come sottolinea Eliade: «L’umiltà non è che una virtù; ma quella che si esercita secondo l’esempio del Salvatore è un atto religioso e un mezzo di salvezza». Poi passa a un altro versetto: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34; 15,12)», a cui fa seguito questa riga di commento: «Questo amore cristiano è consacrato dall’esempio di Gesù». Eliade sottolinea anche il potere demiurgico dell’imitazione. Riguardo all’amore cristiano afferma: «La sua pratica attuale annulla il peccato della condizione umana e divinizza l’uomo. Colui che crede in Gesù può fare ciò che egli ha fatto; i suoi limiti e le sue impotenze vengono aboliti». Poi, cita di nuovo dal Vangelo di Giovanni: «”Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio...” (Gv 14,12)» (MER 37).
[11] Cfr.: Del fatto che noi, la «cristianità», non possiamo affatto attribuirci le promesse di Cristo, perché noi, la «cristianità», non siamo là dove Cristo e il Nuovo Testamento richiedono che si debba essere per essere cristiani (Ø 187-189).
[12] Il termine danese per imitazione è Efterligning (da efter, “dopo”, e at ligne, “assomigliare, essere come”), ma Kierkegaard preferisce usare Efterfølgelse, che ha una sfumatura diversa (da at følge, “seguire”), nel senso che l’uomo di fede deve farsi strada seguendo l’esempio di Cristo piuttosto che rendersi simile a Lui ripetendone i gesti.
[13] «[…] la rigenerazione periodica del mondo si traduce nel cristianesimo in una rigenerazione della persona umana. Ma per colui che partecipa a quell’eterno nunc del regno di Dio, la “storia” cessa in maniera totale, come per l’uomo delle culture arcaiche che l’abolisce periodicamente. Di conseguenza, anche per il cristiano la storia può essere rigenerata da ogni credente in particolare e attraverso di lui, anche prima della seconda venuta del Salvatore, quando essa cesserà in modo assoluto per tutta la creazione» (MER 148).
[14] «Inteso così, l’“istante” in fondo non è l’atomo del tempo, ma l’atomo dell’eternità; è il primo riflesso dell’eternità nel tempo; è il suo primo tentativo, per così dire, di arrestare il tempo» (BA 155-156) [traduzione modificata].
[15] L’eterno è, infatti, «il presente come successione tolta (mentre il tempo era la successione che passa)» (BA 154). In questo senso, Kierkegaard può affermare che «l’eternità sia la vera ripetizione» (BA 190).