Guido Conti: Lettura di «La vita parallela»

Giuseppe Pontiggia (Milano 1934-2003) [1] è uno scrittore necessario. La sua narrativa è un modello dove ogni virgola, ogni spazio, ogni paragrafo è costruito con la sapienza dell’orafo che plasma la materia per farne un gioiello. I 18 racconti(/capitoli?/microromanzi?) che formano il volume Vite di uomini non illustri (Milano, Mondadori,1993) aiutano a capire il suo modo di lavorare e di scrivere: una lettura attenta di uno di essi può diventare uno straordinario laboratorio per chi volesse imparare a scrivere da un grande autore [2].
In Pontiggia tutto è significativo, non solo per quello che scrive ma soprattutto per quello che tace. La sua scrittura limpida ed enigmatica somiglia alla punta di un iceberg, per rubare una espressione di Hemingway [3], dove ciò che è scritto nasconde un abisso vertiginoso di suggestioni, domande e idee. Proviamo dunque a leggere uno di questi racconti/microromanzi, intitolato La vita parallela, con ovvio riferimento alle Vite parallele di Plutarco. Invece di mettere due destini a confronto, Pontiggia ci propone quello di «Giacchero Elisa» che vorrebbe diventare una scrittrice, mentre le sue decisioni, gli incontri, tra timidezze e paure, la portano a vivere un’altra vita molto diversa da quella sognata, anche in amore. Una vita parallela, insomma.
Pontiggia è uno scrittore in cui la parola crea continui riverberi letterari, crea onde come un sasso buttato in uno stagno. Partiamo dalla citazione dell’esergo, una frase del poeta maledetto Dino Campana, tratta da La notte, un testo di impressioni in prosa che apre i Canti Orfici. Non è una citazione casuale se riletta alla luce del racconto, visto che, come si scopre, anche l’amico della protagonista Marco Tieri fa la tesi di laurea proprio sui Canti Orfici; e che la vita parallela della protagonista si rivelerà, per citare lo stesso Campana, una «lunga notte piena degli inganni delle varie immagini». La citazione è infatti una chiave di lettura come accade con tutti gli esergo degli altri 18 microromanzi. Ogni esergo porta all’interno della biblioteca di Pontiggia, tra aforismi, frasi, citazioni letterarie, poesie, testi teatrali… una chiave di lettura tra rimandi e riferimenti colti. Pontiggia è un maestro anche per come usa le citazioni e gli esergo, e andrebbe scritto un saggio solo su questo: non è mai banale, è sempre preciso e la citazione apre orizzonti continui di senso.

Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull'infinito, che tutto ci appare ombra di eternità?
D. Campana, La notte (Canti orfici)

 

GIACCHERO ELISA

Nata a Santa Margherita Ligure il 3 giugno 1934, assiste il 12 maggio 1946, lungo la stradina sopraelevata che dalla scuola scende al porto, alla esplosione di un siluro, residuato di guerra, nel mare oltre il molo, contro uno sfondo di nuvole grigie attraversate da un fascio di raggi.
Una colonna liquida sale fulminea per poi espandersi in alto come una palma bianca, che rimane a lungo sospesa prima di precipitare nella schiuma. Le barche dei pescatori si staccano dal molo e si dirigono al largo, inerpicandosi su ondate che da riva sembrano declivi d'acqua.
Al pomeriggio intitola questa descrizione, ricopiata su un foglio di protocollo, Il siluro e al termine scrive per la prima volta in diagonale Elisa Giacchero. Da allora firmerà così ogni sua pagina.
Mostra la mattina dopo il foglio a padre Ermini, nella sala professori che si affaccia su un mare scintillante al di là dei vetri. Il viso scarno e bianco, il naso affilato, lui lo legge vicino alla finestra, tenendolo sollevato con una mano, come volesse esaminarlo controluce. Alla fine alza lo sguardo al di sopra delle lenti:
«È bello» dice. «Come mai l'hai scritto?»
«Così» mormora lei confusa, titubante.

Ricorderà negli anni il suo sorriso sornione, l'aria indulgente e ironica con cui le chiede:
«Vorresti diventare una scrittrice, vero?»
E la sua risposta immediata:
«No!»
che sorprende lei stessa.
E quando, sette anni dopo, suo padre, nell'immenso studio panoramico Giacchero & Bertoglio, foderato di libri giuridici in marocchino rosso, le chiederà se ha in mente di scrivere, poiché sacrifica legge a lettere, di nuovo risponderà:
«No!»
senza esitare, aggiungendo che non vuole sognare a occhi aperti.
Le esitazioni la invadono poche ore dopo, nel buio del suo letto, quando la smania di scrivere e il panico di fallire la portano fino a quella angoscia che le dà il piacere e la svuota.

Questi sono i primi tre paragrafi della Vita parallela. Pontiggia non descrive l’infanzia della protagonista ma il primo evento traumatico, direi pirotecnico, della sua vita, che poi lei racconterà nel suo primo scritto. È il momento in cui la vita la pone di fronte alla scrittura, alla sua vocazione. Tutto il resto non conta, e infatti Pontiggia lo tace. Sondando quei silenzi, quegli spazi bianchi che lo scrittore pone tra un «frammento» e l’altro (ma si tratta piuttosto di caselle illuminate di una scacchiera), ci si chiede: qual è l’episodio o il fatto della vita che  pone di fronte al proprio destino? Quando si nasce davvero?
Da notare che l’autore va a capo con la risposta decisa di lei: «No»; si capisce che questo «no» nasconde un «sì». I dialoghi sono straordinari in Pontiggia, sempre concisi, poche battute che spesso dicono il contrario di ciò che viene enunciato. Inoltre l’andare a capo, rompendo una consuetudine tipografica, crea un «salto» che dà ancora più forza alla risposta: un insegnamento, questo, di ascendenza futurista. Pontiggia, gran lettore di poesia, usa continuamente procedimenti retorici della composizione poetica. Nella sua scrittura assimila procedimenti narrativi e stilistici novecenteschi. E questo è un altro grande insegnamento di tecnica della scrittura. Bisogna imparare ad andare a capo bene, quando serve, rompendo anche certe regole quando necessario.
Il piacere della scrittura, il panico di fallire, portano la giovane protagonista quasi a un orgasmo, e qui si può vedere l’ironia e l’erotismo che sottendono spesso le Vite di uomini non illustri. Leggiamo altri due paragrafi:

Conosce il 17 aprile 1954, nella luce che scende da una ogiva sulle scale sbrecciate dell'università, Mario Tieri, secondo anno di lettere moderne, d'ora innanzi indicato con la sigla M. T., che le raccoglie i libri scivolati sui gradini.
Vanno a bere un aperitivo al bar del Cannocchiale, siedono vicino a un vetro impolverato che rende grigio anche il mare. Dopo sei minuti le dice che sta lavorando a un saggio su Campana e a un romanzo non destinato al grande pubblico. «E tu?» le chiede. «Non scrivi?»
«No, aspetto» risponde lei. «Penso che prima devo farmi le basi.»
«No, bisogna buttarsi» dice lui. «Avere coraggio.»
Lei lo guarda per la prima volta con interesse. Scopre dopo quattro minuti che ha una storia complicata con una studentessa del terzo anno.

Si fidanza il 9 maggio 1957 con Filippo Schiappacasse, cognome terribile – aveva ammesso con angoscia sua madre – ma giovane cui è difficile dire di no: tre case di quattro piani, con mansarde e giardino, in località San Lorenzo e sette appartamenti, doppi servizi, sul lungomare; lo studio notarile del padre nel centro di Santa Margherita; e un garbo impeccabile nel baciamano austroungarico, con battito appena percettibile dei tacchi e lieve inchino irriso dai coetanei, ma ammirato dalle signore.
«Sono certa di amarlo» scrive nel suo diario in data 18 maggio 1957.
«Tu non puoi capire che cosa è l'amore» dice a M. T., che la accompagna sul lungomare e le parla di nuove complicazioni nel suo rapporto con l'altra.

Ogni frase, ogni aggettivo, andrebbe commentato. Quando scrive del nome dello studente «d’ora innanzi indicato con la sigla M. T.», Pontiggia si diverte a usare certo linguaggio accademico o quello burocratico dei contratti. Un modo per irridere quel personaggio. M. T. confessa che sta scrivendo un romanzo «non per il grande pubblico», e questo ci dice che è uno snob, un po’ stupidotto, e l’autore lo prende in giro.
Quando Pontiggia scrive «dopo sei minuti», «dopo quattro minuti», indica un tempo preciso come raramente fanno gli scrittori che scrivono «poi», «all’improvviso». Gioca con le forme e le consuetudini della narrativa. Così accade con il modello della biografia, foggiata su quelle enciclopediche o sulle «vite degli uomini illustri» della tradizione occidentale: Pontiggia coglie solo ciò che è importante, i momenti decisivi del quotidiano, quando parole sbagliate, titubanze, incertezze, falsi consigli di amici idioti, dialoghi fraintesi, umiliazioni, determinano il nostro destino che prende, in questo modo, strade diverse da quelle desiderate.
Quanti di noi vivono la vita veramente ambita? Cosa ci ha fatto deviare da questo cammino? Siamo sicuri che quello che viviamo è il nostro destino? Attraverso i 18 racconti Pontiggia interroga i lettori e li mette di fronte alla loro vita con ironia, divertimento, certo che ogni destino ha qualcosa di tragico e di comico insieme. Pontiggia si diverte anche con i nomi dei personaggi: quello di Filippo Schiappacasse rientra nel genere dell’umorismo al modo dell’Azzeccagarbugli manzoniano, definendo perfettamente un fantoccio ridicolo e ricchissimo, capace di salutare con il baciamano battendo i tacchi. Un «cognome orribile» commenta la madre della protagonista «con angoscia», ma disposta a lasciar correre per via del ricco patrimonio di lui: l’aggettivo «orribile» e il sostantivo «angoscia» bastano a tratteggiare il personaggio della madre. Pontiggia è capace di creare un personaggio con una sola battuta, una, due parole, come capita con questa madre. Usa più registri linguistici, e si capisce che gioca con il lettore, come per dire: «Mi segui?» «Capisci quello che ti sto raccontando?» «Lo vedi che gioco sto giocando?»
I richiami alla misura critica da parte del professore a cui Elisa chiede la tesi; il colpo di fulmine con un giovane a Firenze qualche settimana prima del matrimonio, «una congiura romantica» che la pone davvero di fronte all’amore vero; il rapporto di amicizia lungo una vita con M. T. (innamorato di lei) che le dà consigli sbagliati; il matrimonio, i figli; l’insegnamento e poi un altro incontro. Il destino, sembra dirci Pontiggia, è una serie di momenti, di flash dove si rivela l’essenziale e ciò che si tace è gran parte della nostra esistenza che non merita di essere salvata:

Il 7 novembre 1973 il supplente di matematica, un giovane architetto che si definisce amante della letteratura, fermatosi con lei al tavolo della sala professori, le posa improvvisamente la mano sulla sua. Lei arrossisce violentemente, ma non la ritrae.
«Sono certo che tu scrivi e scrivi cose bellissime» le dice.
«lo non scrivo» risponde lei.
«Non ti credo» prosegue lui impavido. «E io vorrei leggerle.»

«Se ti ho detto che non scrivo» risponde lei ventidue giorni dopo, uscendo gocciolante dalla vasca e avvolgendosi nell'accappatoio di spugna. Si pettina con la spazzola i capelli sciolti sulle spalle, davanti allo specchio appannato. «Ho in mente un romanzo da qualche anno, ma finora ho preso solo appunti.»
«Di che cosa tratta?» le chiede lui, sdraiato sul letto.
«Di una donna che vive una vita non sua.»
«Ma è la tua storia!»
«No, sei pazzo?» dice lei, affacciandosi sulla porta.

Quando confessa il tema del racconto al nuovo amante, incalzata lei risponde: «No, sei pazzo?», il tutto ambientato nella camera da letto dopo l’amore e la doccia. Ha bisogno di parole vere, ma la loro verità non la sopporta. Le sfugge, e sfugge a sé stessa di continuo. E poco dopo leggiamo:

Nell'aprile del 1976 pubblica su «Lo scoglio di Quarto», periodico dei Cantieri Oneglia, una prosa lirica intitolata Muri a secco.
«L'ho riscritta quattordici volte» confessa con timidezza orgogliosa.

Pontiggia toglie tutto ciò che non è necessario, taglia con l’accetta il superfluo, le descrizioni, i commenti, cogliendo gli attimi che definiscono una trama in apparenza frammentata eppure unitaria. La composizione, pur mantenendo un percorso cronologico, ha la struttura del collage.
La protagonista è consapevole di vivere una vita che non le appartiene, e l’unica volta che lo fa è da donna matura, quando si innamora di una ragazza che potrebbe essere sua figlia. Lascia per lei il marito, ma la ragazza se ne andrà poi con un’altra, ed Elisa finirà con il vivere da sola, in una vecchiaia divisa fra doposcuola e collaborazione alla conduzione della biblioteca locale.
Nell’umorismo di Pontiggia aleggia continuamente questa tragedia incombente, una satira mai calcata o cattiva, e forse per questo più tagliente. Anche quando dopo anni M. T. dialoga con la protagonista, le battute lasciano in sospeso mille riflessioni:

Lui la guarda con stupore: «Sei cambiata, sai?»
Lei sorride:
«Ti ringrazio di non avermi detto che sono cresciuta.»

Il salto, lo spazio bianco tra un episodio e l’altro, sembra dirci Pontiggia mettendo in crisi anche il romanzo contemporaneo, è un vuoto che non bisogna riempire di parole inutili. Un pieno di significati attende il lettore pronto a pensare, a confrontarsi con loro. Allora queste biografie sono racconti o romanzi in nuce? Leggiamo ancora un brano:

Tiene dal giugno 1980 una rubrica di recensioni letterarie sul mensile «Il molo», per un compenso definito simbolico dal direttore e uno spazio di settanta righe. Firma con uno pseudonimo, Corinna, per mantenere l'incognito, ma nessuno chiede di romperlo. Dal sesto numero firma Elisa Giacchero.
«Pare che piacciano» è la frase che usa invariabilmente, sorridendo con aria stupita, quando le lodano gli articoli. Anche il preside Gerace, scendendo le scale con lei un giorno che l'ascensore è fuori servizio, le dice di apprezzarli.

Quando la giovane amante l’abbandona, è un altro momento tragico:

Il 23 marzo 1985 inaugura con la sua amica, in via Ravecca, un piccolo laboratorio di legatoria. Rimane sola a gestirlo dopo che l'altra, nell'autunno del 1987, si trasferisce a Grenoble presso una coetanea, impiegata all'Istituto Italiano di Cultura.
L'11 dicembre 1990 scrive nel suo diario: «Non credo più nella immortalità. Credo nella mia morte.»
Aggiunge, a distanza di quattro righe:
«Fine del diario.»

«Fine del diario», fine delle «immagini» illusorie. Tralascio altri passaggi pure importanti, che andrebbero studiati con attenzione. Il racconto si chiude con tre sciabolate di infelicità: il corpo ingrassato, il vino liquoroso che dà alla testa, e il ritiro. La pubblicazione di versi e riflessioni e la commemorazione del sindaco dopo la morte lasciano l’amaro in bocca:

Ama bere lo Sciacchetrà durante i pasti e anche dopo. Ingrassa rapidamente e il suo respiro diventa affannoso. Non scende più a Genova. Il primogenito la viene a trovare una volta al mese e, a partire dal 1994, anche la figlia.

Pubblica in una edizione limitata a venti copie una raccolta di versi e di riflessioni. Si intitola Nuvole.

Muore il 6 luglio 1998. Il sindaco scrive una breve commemorazione sul periodico «Trasparenza»:
«Ci ha lasciato una cara signora che ha fatto molto per la nostra comunità. Non potremo dimenticarla. Soffriva di angina pectoris, ma il suo cuore era grande.»

Pontiggia è un maestro nella psicologia dei personaggi: un periodo breve, una parola, un gesto ne scandiscono ogni volta un aspetto sorprendente, come il colpo di scena rappresentato dall’innamoramento della protagonista per la ragazza: un amore vissuto in pienezza. Ci saremmo aspettati di tutto da Elisa Giacchero meno che un amore saffico, però la cosa è coerente con il personaggio che devia continuamente dal suo destino.
Alla fine del racconto, come per gli altri 17 delle Vite di uomini non illustri, ci si chiede: Che vita è stata quella di «Giacchero Elisa»? Fin dall’inizio l’inversione di cognome e nome come in una enciclopedia o in un modulo burocratico crea una distanza utile per affondare il bisturi della narrazione. Che vita si nasconde nelle vite altrui, magari illuminate dal successo o spente dall’insuccesso? Cosa c’insegna davvero Pontiggia con questi racconti di vite quotidiane, di persone che potrebbero essere nostri amici o vicini di casa, oppure parenti? Cosa c’è di essenziale nelle nostre vite? Quale destino traccia il nostro quotidiano? Davvero una parola sbagliata, in un momento sbagliato, il nostro carattere timido o impulsivo può segnare per sempre e far deragliare la nostra vita verso orizzonti sbagliati?


Guido Conti
(n. 2, febbraio 2023, anno XII)




NOTE

1. Per le opere di Giuseppe Pontiggia faccio riferimento a Giuseppe Pontiggia, Opere, a cura e con una introduzione di Daniela Marcheschi, Milano, “I Meridiani”, Mondadori, 2004.
2. Per approfondimenti si rimanda ai seguenti volumi: Le vie dorate, con Giuseppe Pontiggia, a cura di Daniela Marcheschi, postfazione di Guido Conti, Parma, Mup, 2009; Giuseppe Pontiggia, Dentro la sera, Milano, Belleville, 2016; Guido Conti, Imparare a scrivere con i grandi, 2016, Milano, Rizzoli, 2015; Con Giuseppe Pontiggia, Le voci della notte bianca, Milano, 21 giugno 2013,  Rimini, Guaraldi, 2013. Giuseppe Pontiggia, Fare letteratura insieme, a cura di Sara Calderoli, Milano, FuoriAsse, Officina della cultura, 2021.
3. Ernest Hemingway, Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare, a cura di George Plimpton, Prefazione di Ernesto Franco, Genova, Il nuovo Melangolo, 1996.