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Unamuno e Pirandello: affinità ideologiche tra romanzo e dramma
Le diverse affinità ideologiche tra Pirandello e Unamuno non sono da considerare delle semplici coincidenze tematiche, ma rimandano a qualcosa di decisamente più importante: entrambi gli scrittori, infatti, pongono sotto una lente di ingrandimento le paure, le aspettative e le contraddizioni tipiche del XX secolo in cui l'Italia si trovava a fronteggiare lo straordinario sviluppo industriale e i numerosi contrasti di natura sociale che ne derivavano: se da una parte si profilava l'illusione che il Paese potesse diventare una grande potenza europea, creando miti nazionalisti, dall'altra l'opinione pubblica era coinvolta nella difficile scelta tra interventismo e neutralità agli albori del primo conflitto mondiale [1].
D'altro canto la Spagna attraversò, dal 1874 al 1890, una fase di grande entusiasmo, soprattutto di natura economica, grazie all'accelerazione dello sviluppo industriale. Ma questo ottimismo e questa fiducia incondizionata nel progresso subirono una battuta d'arresto in seguito ai contrasti sorti con gli Stati Uniti per il possesso delle colonie spagnole. Il conflitto che ne scaturì, la sconfitta della Spagna e la crisi causata dal disastro militare di Cuba nel 1898, sancirono la fine del mito imperialista causando una forte crisi di identità tra gli intellettuali spagnoli.
Il trauma del '98, infatti, provocò reazioni animate da un forte sdegno contro i politici, giudicati responsabili dei mali della Patria, e soprattutto una accesa volontà di «rigenerazione». Da una parte c'era risentimento nei confronti dell'Europa che era rimasta indifferente al disastro coloniale della Spagna, dall'altra il processo di «europeizzazione» era visto come unica soluzione alla situazione morale, politica e sociale del Paese [2].
La logica del profitto aveva inaridito gli animi e le relazioni sociali, determinando alienazione, paura, incertezze. Esisteva un solo varco, una sola via di fuga, almeno apparente: la parola, grazie alla quale l'inquietudine rappresentata dagli intellettuali diveniva motivo di fratellanza comune, in cui rispecchiarsi [3]. All'inizio del XX secolo la consapevolezza della crisi che attraversava la Spagna diede inizio a una fase di dibattito critico che focalizzava l'attenzione pubblica sul ritardo culturale del Paese; gli intellettuali, pertanto, auspicando una svolta ideologica decisiva e sviscerando la questione dell'identità nazionale come obiettivo, elaborarono un programma che tendeva a far convergere gli interessi del popolo con quelli dell'élite intellettuale [4].
In questo clima di paure e incertezze maturarono le riflessioni di Unamuno e Pirandello, animati dal desiderio di comprendere lo smarrimento senza fine e il senso di forte alienazione dell'uomo moderno. Pertanto le affinità ideologiche che legano l'autore spagnolo e il drammaturgo siciliano non devono essere necessariamente ascritte a una conoscenza approfondita tra i due, né a un'influenza reciproca nella realizzazione delle loro opere, ma piuttosto a due atteggiamenti simili di fronte a fenomeni socioculturali analoghi. Essi rappresentano la stessa tendenza ideologica e perciò sono portavoce di una stessa preoccupazione umana: sono i cronisti di un'epoca, i testimoni di un'atmosfera comune all'Italia e alla Spagna e di uno stesso stato d'animo, vacillante.
L’eterno conflitto tra reale e fittizio o «fare della propria esistenza un’opera d’arte»
Per l'uomo che non può aspirare all'eternità e che non può incontrare la verità, l'unica soluzione è fare della propria esistenza un'opera d'arte in cui studiare l'eterno conflitto tra reale e fittizio [5]; mentre Pirandello rompe con il Verismo e il Naturalismo [6], Unamuno si separa dalla letteratura realista per elaborare una letteratura in cui il fittizio e il reale si mescolano con la realtà stessa [7].
Come ha messo in luce De Tomasso, non trattandosi di semplici coincidenze tematiche, tanto Unamuno, quanto Pirandello attraverso la loro opera tendono a distruggere la struttura razionale su cui si basa la coscienza dell'uomo contemporaneo, benché sia differente il modo in cui cercano di perseguire questo obiettivo. Se, infatti, la tecnica utilizzata da Pirandello può risultare «fredda e implacabile», Unamuno trasmette «un'appassionata partecipazione umana», per cui il primo sostituisce alla ragione un'anti-ragione, il secondo, invece, contrappone la ragione al sentimento, la realtà al sogno [8].
A ciò è connessa anche una frattura nella salda tradizione dei linguaggi artistico-letterari per cui si inverte la funzione dell'arte: non si continuano a creare «buone forme» nella tradizionale ritualità, in cui c'è partecipazione di autore e lettore, «allo stesso sottosuolo di senso», ma si ha una sorta di iato tra quanto frutto della pratica dell'autore e l'esperienza del lettore. L'attività artistica diventa critica, referenziale e autoreferenziale: ci si interroga sul modo in cui un testo comunica oltre che su ciò che comunica [9].
Come ha chiaramente messo in luce Lottini, entrambi gli autori partono dalla concezione dell'esistenza umana caratterizzata da un costante rapporto dialettico tra realtà sociale e realtà interiore. All'uomo che vive tra fenomeni, le cose si mostrano non come sono, ma come non sono, come pure apparenze. Al di là di queste realtà ne esistono altre che possono essere raggiunte se l'uomo si sforza di farlo, attraverso una lettura più attenta e meno superficiale di ciò che lo circonda.
Il romanzo e il dramma sono considerati da Unamuno e Pirandello gli strumenti attraverso i quali affrontare questa problematica in quanto oggetti ideali della letteratura, che «si lasciano penetrare dal pensiero e mostrano il loro essere senza alcuna resistenza», non avendo nessuna concretezza: sono enti di finzione, persone immaginarie. La fantasia creatrice dell'autore e l'intuizione immaginativa del lettore consentono di «realizzarne» le essenze.
Il romanzo come mezzo per scavare nella realtà dell’uomo: Niebla
Il romanzo e il teatro pertanto consentono ai due letterati di scavare nella realtà vera dell'uomo conseguendo la maggiore nudità e autenticità possibili, ma anche di raccontare il dramma umano attraverso la mediazione dei personaggi di finzione protagonisti delle loro opere.
L'uomo è circondato da apparenze fenomeniche dalle quali riceve segnali caotici e spesso contraddittori che rinviano all'essere ma in modo equivoco; la ricerca della realtà è perciò una «dolorosa ermeneutica» nel corso della quale l'uomo prende coscienza dell'assenza di tracce dirette che rimandino all'autenticità e alla verità delle cose e delle persone [10]. L'uomo è perciò costretto a orientarsi tra apparenze e maschere per riuscire a cogliere l'essenza delle cose: questa non è qualcosa di dato, ma un risultato cui si arriva gradualmente. Ciò che è dentro gli oggetti, dentro gli uomini non si lascia penetrare facilmente, ma richiede un notevole sforzo interpretativo. Il rapporto dialettico tra realtà e finzione, inteso come gioco dell'essere e dell'apparire relativamente a Unamuno trova chiara esplicitazione nei capitoli XXX e XXXI del romanzo Niebla: Augusto nel momento in cui incontra l'amico Victor è fortemente deluso per il fatto di essere stato beffato, di essere stato coperto di ridicolo; pertanto, sopraffatto dalla disperazione prende la decisione di suicidarsi, di porre fine a quell'esistenza reale cui è arrivato attraverso l'esperienza dolorosa e conflittuale con Eugenia: per anni lo stesso Augusto dichiara di aver vagato come un fantasma, come un pupazzo di nebbia, senza nemmeno credere di esistere. Prima di mettere in atto il suo proposito Augusto decide di consultarsi con l'autore del romanzo: nel capitolo XXXI dell'opera, infatti, Unamuno anticipa la sua «creatura» cui rivela l'impossibilità di suicidarsi, la cui condizione necessaria è l'essere vivo [11], Unamuno, autore onnisciente, nel dissuadere l'uomo dal suo proposito, sottolinea come l'uomo sia solo un prodotto della fantasia dell'autore e dei lettori, un personaggio [12]. Ovviamente ciò scatena la ribellione del personaggio e la reazione dell'autore: è in gioco il potere di creare. Augusto cerca di trovare sostegno alle sue argomentazioni nelle idee «reali» che l'autore ha esposto nei suoi scritti, sottolineando che l'uomo in carne e ossa [13] e l'ente di finzione sono la stessa cosa, sono uguali: entrambe sono opere create, portatrici di un'autentica seppur diversa realtà. Entrambi hanno una vita, una storia, una biografia che possono essere raccontate. La letteratura permette di rivelare qualcosa che avviene nel tempo e risponde a un impulso conoscitivo tipicamente umano; il linguaggio, invece, permette di attribuire realtà perché conoscenza poetica.
Augusto cerca di mettere in discussione la funzione-autore di Unamuno, la sua effettiva realtà: anche l'autore è subordinato all'ente di finzione e non esiste al di fuori dei suoi personaggi. L'autore stesso, cui viene negata l'esistenza autonoma è considerato solo un attributo delle sue creature, e rimane schiacciato in un desolante anonimato al di fuori di esse.
A ciò il protagonista del romanzo aggiunge anche un'altra considerazione: «(…) anche le cosiddette entità immaginarie hanno la loro logica interna» [14] nel tentativo di affermare la sua libertà finalizzata al progetto di uccidere l'autore, per potersi sostituire a lui e acquisire così il più grande dei poteri concessi all'uomo: creare.
Secondo Lottini, in questo romanzo Unamuno mira a rappresentare, rispetto ai personaggi, il ruolo che Dio ha verso gli uomini per due ragioni: per conoscere la realtà dell'uomo e per porsi attraverso l'arte letteraria al di sopra della morte, in quanto solo attraverso l'arte letteraria l'uomo riesce a disporre della vita altrui.
L'ente di finzione in quanto fictum come racconto o sogno è reale, cioè vita ed esistenza temporale, simile a quella dell'uomo, ma in quanto risultato del fingere, del sogno dell'autore, appare come ente privo di fondamento che non sostiene la propria esistenza e cade nel vuoto. Guardata dal punto di vista di Dio si delinea una sorta di gerarchia ontologica: Dio, l'uomo, l'ente di finzione, tre gradi dell'essere; il reale del personaggio è fittizio, se si guarda dal punto di vista dell'uomo, ma, a sua volta, anche l'uomo è fittizio, se è guardato dal punto di vista di Dio [15].
Il dramma come mezzo per scavare nella realtà dell’uomo: Sei personaggi in cerca d’autore
Anche in Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello i personaggi sono vivi, seppur non completi giacché il loro autore non riesce a terminare la commedia che aveva ideato per loro. Da qui il dramma e la frustrazione, lo smarrimento e la perplessità nel momento in cui prendono atto della «mancata realizzazione» del dramma doloroso che vivono. Si rappresenta solo la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che questa ha di tragico per il conseguente rifiuto. I personaggi pirandelliani, diversamente da Augusto, non sono uomini concreti, cosa di cui sono perfettamente consapevoli e orgogliosi: considerano i «personaggi» superiori all'uomo, in quanto presentano una visibilità più nitida di quella che hanno nella comune esistenza umana.
A ciò si aggiunge un ulteriore elemento: un personaggio, dopo l'atto della «creazione» da parte dell'autore, acquista subito una sorta di indipendenza anche dallo stesso autore, così che può essere immaginato in tante situazioni differenti e acquisire delle sfumature, delle «sembianze» che mai l'autore gli avrebbe conferito.
Può sembrare che questi sei personaggi, figure poetiche che pensano di andare in cerca di un autore, in realtà cerchino solo un palcoscenico su cui esibirsi: «essi vivono del loro ruolo e questo consiste nella continua ripetizione di uno stesso comportamento: la loro realtà è immutabile, sono idee incarnate in maschere» [16]. L'autore siciliano, infatti, scruta le sue creature, scava nella coscienza dei personaggi in quanto tali, nati non per vivere nel mondo reale, ma sulla scena, incarnando l'eterno teatrale. Non è vera la loro vita, ma il loro dramma.
Il personaggio pirandelliano mira a indossare i panni del personaggio teatrale, dell'attore per poter vivere e in questa rappresentazione della vita si rivela strumento di intuizione non della materialità, ma della forma della vita, di cui è la totalità fittizia. Sul palcoscenico il personaggio in quanto immagine artistica ripropone continuamente quello che è il suo dramma personale, la sofferenza: è già delimitato come personaggio di finzione, ma sicuramente si presenta più reale e più vero delle persone empiriche. La realtà umana cambia, muta, si evolve nel tempo, mentre quella dei personaggi è identica a se stessa; gli enti di finzione dunque sono realtà radicali, autentiche e immediate, gli altri quindi, attori, spettatori, sono realtà derivate e secondarie, apparenze e fantasmi, sono personaggi che non dispongono di sé, ma rappresentano il loro ruolo, statico, uguale per sempre; sono idee disincarnate che si muovono in modo incerto.
I personaggi pirandelliani, però, a differenza del protagonista di Niebla non identificano la loro personalità con il ruolo, e neppure si considerano astrazioni; sono esseri liberi e il loro dramma non è definito anticipatamente, per stessa ammissione del loro creatore: «ciascun d'essi, esprime come sua viva passione e suo tormento quelli che per tanti anni sono stati i travagli del mio spirito: l'inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d'ognuno secondo tutte le possibilità d'essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma fissa, immutabile» [17].
Come rilevato da Lottini, mentre Pirandello accentua la coscienza generica del personaggio, cioè la riflessione su di sé in quanto tale, e quindi essere di finzione, Unamuno accentua la coscienza personale. Alla base di entrambe le riflessioni vi è la percezione comune della vita come «realtà limitata da ogni lato e in tutte le direzioni»; la presa di coscienza della finitudine della vita induce i protagonisti di entrambe le opere a comprendere che non tutto ciò che desiderano può essere raggiunto, ma solamente alcune cose. Ciò porta chiaramente gli stessi a ipotizzare un'altra realtà in cui potersi impossessare di tutto; ne consegue che volendo essi essere Altro e poter raggiungere tutto ciò che desiderano devono aggrapparsi al «gioco del doppio»: l'unico modo per un ente di essere Altro è concepirsi «essere come», un «quasi essere».
Nella scoperta di questa limitatezza tra ciò che può essere e ciò che vuole essere, tra ciò che è e ciò che appare, l'uomo si relaziona con la dinamica dello sdoppiamento della personalità e della maschera come strumento interpretativo della vita e della realtà [18].
In questo rapporto dialettico tra realtà e finzione ha origine il presupposto di base delle opere in esame: dal momento che è difficile stabilire dove finisce l'una e dove inizia l'altra, la ricerca della verità assoluta è praticamente impossibile. La nostra esistenza è reale unicamente quando abbiamo coscienza della stessa: proprio in questo consiste il nostro vivere quotidiano, nella continua riflessione e presa di coscienza della nostra vita. Solo partendo da questi presupposti è possibile scoprire la verità. Ciò che però l'uomo riesce a raggiungere è solamente una verità relativa che si scontra costantemente con la pratica della vita. Il risultato cui l'uomo giunge è diverso nei due autori: mentre Pirandello elabora un sistema di relativismo a oltranza che porta l'individuo a una condizione di isolazionismo, Unamuno, invece, elabora un sistema vitalista di autorealizzazione umana basato sulla necessità di eternità che conduce comunque a una condizione negativa quale l'angustia esistenziale [19]. Se nel primo non c'è traccia alcuna di solidarietà umana e neppure di un naturale abbandono ad Altro che possa sostenere l'uomo in questa condizione di travaglio interiore, nel secondo, invece, l'uomo è pronto per guardare la morte in faccia e, sparito il terrore, si sente quasi immortale.
Il protagonista pirandelliano non guarisce dalla sua naturale ansia di ricerca della verità e rimane comunque in una «cronica convalescenza», mentre quello unamuniano lotta e si dibatte come se fosse consolato da un «chirurgo più ottimista» [20].
L’Io «intimo e soggettivo» vs l’Io «superficiale»
Nella dicotomia essere-apparire è coinvolto l'uomo stesso: la sua personalità è soggetta a uno sdoppiamento che vede contrapporsi nell'individuo personalità differenti: a un io «intimo e soggettivo» si contrappongono una serie di «io superficiali» determinati dall'altrui percezione di noi stessi. Qui è il dramma umano. Ciascuno è costretto a recitare una parte, quella che gli è stata attribuita dagli altri. Tutte queste prospettive mirano ad avere una valenza assoluta, ma il netto contrasto tra ciò che si è per se stessi e ciò che si è per gli altri non fa altro che dare origine all'assurdità della condizione umana.
In una problematica tanto complessa quale appunto quella del rapporto tra apparire ed essere, tra enti di finzione e persone reali neppure il linguaggio è uno strumento cui l'uomo può aggrapparsi per sanare questa dicotomia. Anzi è proprio nelle parole stesse l'origine, la causa di tutti i fraintendimenti alla base delle relazioni umane [21].
La parola stessa risulta foriera di dolore, di alienazione, in quanto prodotto sociale che non conduce l'uomo a disbrigarsi nella molteplicità delle sue forme, perciò «inaridisce ogni tentativo di comunicazione autentica» e priva di doppiezze [22]. Le stesse relazioni umane sono soggette al relativismo: non c'è la possibilità di affermare una verità assoluta, ma molteplici verità, anche in relazione a noi stessi. Questa posizione è confermata anche dal protagonista del romanzo unamuniano, in cui Augusto afferma che la parola è un prodotto sociale concepita per mentire, mentre l'unica verità riconosciuta dallo stesso è quella del corpo, che non parla [23] e quindi non mente. Il cane Orfeo, ormai unico confidente e fedele «rifugio» dei lunghi monologhi di Augusto rappresenta l'unica consolazione del protagonista, anche dopo la sua morte: in un'orazione finale a mo' di epilogo lo stesso cane afferma l'assurdità della creatura umana che utilizza la lingua, la parola solo per mentire, per confondersi: il linguaggio l'ha reso ipocrita [24].
È evidente che sia Unamuno sia Pirandello davanti alla stessa civiltà fatta di convenzioni, di gesti grotteschi, parole senza senso, concordano nell'accettazione di una verità relativa e non assoluta, varia esattamente come la stessa natura umana, e nella critica di una tendenza assolutamente artificiale di voler «canalizzare l'umanità verso la ricerca di uno scopo collettivo a cui tutti dovrebbero uniformarsi» [25].
Da questo radicale relativismo conoscitivo per cui non si dà una verità oggettiva, fissata a priori, ma ognuno ha la sua che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose, deriva un'inevitabile incomunicabilità tra gli uomini, destinati a non intendersi. Ciò acuisce il senso di solitudine di ogni uomo e contribuisce a svelare il carattere fittizio e convenzionale dei rapporti sociali [26].
Tra i temi che accomunano Pirandello e Unamuno, quello relativo all'autonomia dei personaggi ha affascinato maggiormente la critica che a tal proposito ha a lungo dibattuto. Come messo in luce da De Tomasso (…) fra i due scrittori esistono affinità davvero sconcertanti: la più evidente di esse, quella che sin dall'inizio ha attirato su di sé l'attenzione di studiosi e di lettori, è rappresentata da quella che potremmo definire «la rivolta dei personaggi» che trova la sua espressione soprattutto in Niebla per Don Miguel e in Sei personaggi in cerca d'autore per il drammaturgo siciliano [27].
Unamuno e Pirandello sotto la lente d’ingrandimento della critica letteraria
Il primo ad aver accostato i due autori in relazione ai procedimenti tecnici e al tema comune dell'autonomia del personaggio è Tilgher che nel 1923 affermava l'esistenza di «un motivo analogo nel capitolo XXXI del romanzo Niebla di Miguel de Unamuno, anteriore, bensì, ai Sei personaggi ma posteriore alla novella La tragedia di un personaggio» [28]. E ancora in occasione della prima dei Sei personaggi a Madrid, nel 1923, il redattore del settimanale «España» annotava che Dario Niccodemi, nella sua breve conferenza iniziale, preparò il pubblico sottolineando la relativa coincidenza tematica tra la commedia di Pirandello e l'opera di Unamuno Vida de Don Quijote y Sancho. In entrambe, infatti, i personaggi cercano di realizzare un'esistenza propria, indipendente dall'autore [29]. L'anno successivo lo studioso Americo Castro in un suo saggio segnalava non solo l'analogia tematica tra i due autori, ma individuava in Cervantes il modello per entrambi [30].
Ben presto la critica, infatti, oltre a segnalare questa coincidenza tematica, ha cercato anche di stabilire non solo chi tra i due autori abbia affrontato per primo il motivo dell'autonomia dei personaggi, ma anche se sia stata un'innovazione o piuttosto un elemento mutuato dalla tradizione letteraria e declinato dai letterati in modo diverso in relazione alle influenze filosofiche caratterizzanti la formazione degli stessi.
Sin dall'inizio del fiorire della questione relativa alla «paternità» del motivo che vede i protagonisti delle opere di Unamuno e Pirandello opporsi al loro stesso creatore, José Balseiro, nel 1925, affermava che la rivolta dei personaggi non è un'innovazione da attribuirsi all'autore siciliano, bensì a Unamuno; lo studioso trovava riscontro nel fatto che la pubblicazione del romanzo Niebla è anteriore a quella della commedia pirandelliana [31].
Questa presunta origine spagnola del tema è sostenuta anche da Meola che, nel suo studio, considera inesatto qualsiasi dubbio sull'originalità di Unamuno rispetto alla relazione tra autore e personaggio, idea peraltro esposta dall'autore già in un'altra opera, Amore e Pedagogia [32].
Putnam evidenzia come il «pavoroso» problema della personalità presente nelle opere di Unamuno è stato affrontato con grande intensità da diversi autori latini. Lo studioso attribuisce questa analogia, e quindi anche quella con Pirandello, alla influenza esercitata sugli stessi autori da comuni studi filosofici e psicologici di contemporanei quali appunto Bergson, Poincaré, Gentile, Baruzi, Janet, Durkheim [33].
Importante risulta il contributo di Leal, pubblicato nel 1952, il quale oltre a individuare le analogie tematiche tra Unamuno e Pirandello, pone in evidenza le differenze tra i due autori. Partendo dal presupposto che non è necessario postulare l'influenza di uno scrittore sull'altro, Leal afferma che «las mismas fuentes filosóficas» formarono il pensiero e quindi la poetica dei due autori. Ciò non implica, però, una totale identità tra le opere e le personalità che a esse hanno dato origine: mentre l'opera di Unamuno viene definita «trágica y sombría», dai toni cupi in quanto termina solitamente con una tragedia, quella di Pirandello, in cui si ride del pubblico, è caratterizzata da una forte connotazione umoristica; inoltre il primo non è fondamentalmente un drammaturgo, ma utilizza raramente il teatro come mezzo espressivo della sua analisi psicologica delle passioni.
Lo studioso conclude sottolineando però che se si considera il clima culturale, politico sociale in cui entrambi gli autori operarono, le coincidenze o analogie tematiche sono molto più facilmente comprensibili, perché frutto di una stessa matrice epocale [34]. Anche parte della critica moderna focalizza l'attenzione sul clima culturale che entrambi gli autori respirarono: Foresta, nel suo saggio del 1973, afferma che per quanto riguarda i punti di contatti tra Unamuno e Pirandello la causa è da ricercarsi proprio nell'epoca che vide operare i due autori, che subirono sicuramente il fascino e l'influenza di due grandi esponenti del teatro borghese quali Ibsen e Shaw [35].
Lo stesso Cantoro fa risalire l'origine del pensiero di Pirandello da una parte all'idealismo romantico, al pessimismo schopenhaueriano, all'attualismo gentiliano, dall'altra al misticismo negativo di Pascal e di Kierkegaard; ma soprattutto, è il risultato del decadentismo di fine secolo e del disagio morale e materiale generato dalla prima guerra mondiale [36].
Chicharro de León parte dall'esame di due opere di Pérez Galdós [37], ovvero Realidad e El amigo Manso e una di Jacinto Grau [38], El señor Pigmalión, per affermare che l'intuizione geniale dell'autonomia del personaggio di finzione in epoca moderna è da attribuirsi proprio a Galdós e che Unamuno si sarebbe ispirato a Pirandello per la trattazione degli esseri di finzione.
Realidad [39]narra di Federico Viera, giovane don Giovanni in erba, che ha una relazione con la moglie di Tomás Orozco, protettore del ragazzino scapestrato. Federico si compiace dello stile di vita che conduce, ma presto inizia ad avere dei forti sensi di colpa per la relazione peccaminosa che ha con Augusta, moglie di Tomás Orozco. A questo punto il giovane in un momento di grande disperazione si uccide in presenza della stessa sposa infedele. Orozco, in realtà, sospetta della verità ma pronto a perdonare e dimenticare, spera in una confessione spontanea della moglie, la quale, al contrario nega la relazione con il giovane. I due coniugi, secondo lo studioso, incarnano la contrapposizione tra la materia, la realtà della vita e la verità, la perfezione morale; il giovane, poi, si suicida perché vittima del tormento interiore che scaturisce da «la sombra» di Orozco, non dalla sua persona reale.
La differenza tra Pirandello e Galdós, secondo Chicharro de León, consiste nel fatto che mentre il primo introduce nelle proprie opere «el sentimiento de la fatalidad» che induce i personaggi ad agire «como lo hace», il secondo, pur non superando i confini nazionali e prescindendo da tutte le elucubrazioni filosofiche e dialettiche pirandelliane, presenta nelle opere personaggi vivi, che agiscono in modo equilibrato. L'umorismo pirandelliano, secondo lo studioso, avrebbe origine proprio nel contrasto dei personaggi di Galdós che dicono una cosa e ne fanno un'altra [40].
L'altra opera presa in esame dallo studioso e considerata un chiaro antecedente del romanzo Niebla è El amigo Manso [41]. In quest'ultimo romanzo trovano posto la contrapposizione tra l'insegnamento religioso arretrato, contemporaneo all'autore, e un insegnamento laico. Il protagonista, il professor Máximo Manso, deve guidare il pensiero dell'alunno Manuel Peña, che sposerà la donna amata dal Professore. Questi dovrà riuscire a coinvolgere l'alunno, senza opprimerlo, ma adattandosi alle sue predisposizioni. Di fronte all'unione tra il giovane e Irene, il Professore dichiara di essere semplicemente un essere di finzione, un ombra, e che pertanto non può assolutamente contrastare l'unione dei giovani [42].
Il critico, quindi, sottolinea che il contrasto tra finzione e realtà è già presente nelle opere dell'autore delle Canarie, anzi che l'idea stessa di credersi altro è già presente in Galdós che quindi ha anticipato Pirandello con questa intuizione geniale.
D'altro canto Chicharro de León esamina l'opera di Jacinto Grau, El señor Pigmalión: dopo un prologo espositivo che ha la funzione di presentare al pubblico il protagonista Pigmalione, creatore di pupazzi, vengono presentati i vari fantocci che sono l'incarnazione di «tipi» letterari spagnoli. Dopo una serie di peripezie il creatore di questi geniali pupazzi sarà la loro vittima: questi, infatti, si vendicheranno e si libereranno di lui. In questo dramma viene presentato il tema del «teatro nel teatro»: i pupazzi si comportano come se fossero esseri vivi, reali, sono delle figure grottesche. Lo studioso non ha alcun dubbio nell'affermare l'originalità di Grau rispetto a Pirandello, che però ha esercitato la sua influenza sull'autore spagnolo proprio per la tecnica meta-teatrale [43].
Sedwick insiste sulle analogie tematiche rintracciabili tra Unamuno e Pirandello, ma spiega le stesse alla luce della formazione che i due autori ebbero, e quindi delle letture di Hegel per Pirandello, quelle di Kierkegaard, Pascal, sant' Agostino, Lutero per Unamuno. Entrambi sono accomunati da un interrogativo costante: quanto noi sappiamo di noi stessi?, qual è la concezione del nostro Io e quella che di noi hanno gli altri? Questo problema della personalità è alla base delle opere dei due autori che seppur attraverso percorsi diversi arrivano ad analizzare la natura dell'essere: Pirandello ridicolizza la vanità dell'uomo, è scettico; Unamuno, invece, consola l'uomo per l'essere nato, penetra nel suo animo. Presumibilmente sono mossi anche dalla diffusione del pensiero di due grandi filosofi quali Sigmund Freud e Carl Jung che partono dallo studio del subconscio per arrivare alla scoperta della personalità, soprattutto attraverso l'indagine della sfera emotiva [44].
Nel suo contributo Gillet conferma quello che già nel 1953 Carlos Clavería, che invoca una relazione tra il romanzo Niebla e l'opera di Carlyle, aveva sostenuto relativamente a Unamuno [45]. Anche Gillet fa risalire la nascita del personaggio autonomo a Cervantes [46], che per primo ha contrapposto due mondi separati, quello della realtà e della finzione, che per primo si rivolge ai personaggi i quali, a loro volta, criticano l'operato dell'autore temendo che questi possa non capirli.
Ma questo iniziale distacco dell'autore dai personaggi, dalle sue «creature», era già presente nell'opera Libro de Alexandre, poema anonimo del XIII secolo, e nei Cancioneros, di epoca medievale. E ancora verso la fine del Medioevo questa tendenza divenne sempre più diffusa: nell'opera di Diego de San Pedro, Arnalte y Lucenda, infatti, non solo l'autore introduceva l'eroe alle donne della corte, ma l'eroe stesso si rivolgeva all'autore cui leggeva una lettera d'amore per Lucenda.
Alcuni anni più tardi, nel 1524, in Retrato de la lozana andaluza, di Francisco Delicado, si incontrano diversi personaggi che confermano il loro desiderio di autonomia rispetto allo scrittore. Poste queste premesse, è solo a partire da Cervantes, però, che il motivo accennato e presentato nella precedente letteratura spagnola, si caratterizza di tratti umoristici e fantastici.
Un evidente antecedente di Unamuno che alla fine del romanzo rimprovera Augusto, è da rintracciare per Gillet nell'opera di Thomas Carlyle [47], History of the French Revolution, in cui l'autore si rivolge ai personaggi, li incoraggia e li rimprovera; questa influenza che Carlyle potrebbe aver esercitato sul suo traduttore Unamuno, sarebbe nutrita, secondo lo studioso, anche della conoscenza che Unamuno stesso aveva di Kierkegaard. Confermato il percorso intrapreso da Unamuno sulla base dei precedenti Galdós e Grau, Gillet sottolinea però che Pirandello conferma l'autonomia rivendicata dai personaggi che si sentono addirittura superiori al loro creatore, auspicando una sorta di subordinazione dell'autore alle sue stesse creature.
Questo atteggiamento dei personaggi sarebbe il risultato di ciò che viene definita dal critico la «bankruptcy of reason», conseguenza graduale della critica del razionalismo cartesiano e dell'ascendente esercitato dal pensiero di Schopenhauer e Nietzsche da una parte, di Freud e Jung dall'altra; la dicotomia verità-invenzione, personaggio-autore non si può considerare però solo il risultato di un'astrazione filosofica, ma l'esito di una serie di esperienze integrate, per cui da ciò che inizialmente è solamente un «fortunate accident» si arriva a un espediente tecnico, cui gli autori presi in esame ricorrono [48].
La perdita di controllo degli autori sui personaggi che cercano di riscattarsi dal loro «padre spirituale» per Chantraine de Van Praag trova origine nell'assunto cartesiano, secondo cui c'è omogeneità, uniformità tra sonno e stato di veglia, che in ambito letterario si traduce in uniformità tra finzione e realtà. Per la prima volta ne abbiamo conferma nell'opera del 1635 di Calderón de la Barca, La vida es sueño [49] in cui il principe Sigismondo non distingue lo stato del sonno da quello della veglia, confondendo realtà e finzione.
Lo studioso precisa inoltre che Pirandello conosceva la letteratura spagnola e l'opera di Unamuno, Vida de Don Quijote y Sancho [50], ma questo non è sufficiente per spiegare la presenza in entrambi di personaggi «ribelli» che confondono la vita reale con il loro ruolo letterario. Chantraine de Van Praag aggiunge, infatti, che gli autori considerati anche se «bebieron en las mismas fuentes psicológicas, especialmente las de Bergson y de William James» [51], tuttavia sviluppano in modo autonomo e differente questa tematica. Pirandello, condannato a vivere accanto alla moglie affetta da schizofrenia, vive questo tormento della dissociazione della coscienza limitandolo, secondo lo studioso, «entre el nacimiento y la muerte» [52], mentre Unamuno, in virtù della sua formazione, ricollega il dualismo realtà-finzione all'ambito metafisico. Inoltre se Pirandello, che rappresenta un unicum nella letteratura italiana per questo tema, ottenne dal 1921 tanto successo in Spagna, si deve al fatto che «el terreno estaba bien preparado para recibirlas» [53].
Questa ascendenza spagnola del tema è sostenuta anche da Lottini che apertamente afferma la non invenzione ex nihilo da parte di Pirandello e Unamuno. Secondo lo studioso alla loro radice vi è «il gesto profondo e creativo di Cervantes», il quale dà origine all'episteme moderna della cultura occidentale, per cui viene meno la similitudine tra i segni e le cose e l'alfabeto «diventa doppio»; in questo modo il linguaggio assume un alto valore rappresentativo. Prima di Cervantes il sapere si fondava sulla convinzione che tutte le cose che hanno a che vedere tra di loro, in qualunque modo, le une con le altre, sono la stessa cosa. Per cui, il nome di una cosa ha a che vedere con essa; la cosa sarà identica al suo nome o, detto in altri termini, il nome della cosa sarebbe la cosa allo stesso modo della cosa stessa [54].
Con Cervantes le parole non contrassegnano più le cose e, vagando all'avventura, producono identità e differenze, in primo luogo tra di loro e la realtà. Il linguaggio si allontana dalla sua natura definitoria e rimane puro segno, come rappresentazione del reale, come suo doppio, fantasma, maschera [55]. Contrariamente a quanto appena esposto, Illiano, nella sua tesi dottorale, fa risalire l'idea della autonomia dei personaggi al saggio di Pirandello L'umorismo [56], osservando che egli lo aveva meditato come materia di insegnamento per diversi anni, prima della sua pubblicazione nel 1908. Il contrasto tra vita e forma, costitutivo dell'arte pirandelliana, è messo in luce attraverso la poetica dell'umorismo che sottolinea ironicamente il modo in cui la forma reprime la vita e rivela gli autoinganni con cui l'uomo si difende dalla forza sconvolgente dei bisogni vitali. Essendo costretto a vivere nella forma, l'uomo non è più una persona integra, coerente, ma si riduce a un personaggio che recita la parte che la società esige che reciti e che egli stesso si impone attraverso i propri ideali morali. Nel caso in cui il soggetto diventi consapevole delle contraddizioni, delle ipocrisie cui è sottoposto, allora sceglierà di vivere la vita, seppur amaramente, ma con autoironia di fronte alla scissione tra vita e forma.
La genesi dell'idea, però, è presente, per lo studioso, già nel romanzo Il fu Mattia Pascal [57] e in una lettera del 1904 a Luigi Natale, che si trova nella Biblioteca Comunale di Palermo, in cui si legge: (…) Se le cure materiali e gli impegni sociali non mi distraessero, credo che resterei dalla mattina alla sera qua nel mio scrittoio, al servizio dei personaggi delle mie narrazioni, che i fan ressa intorno. Ciascuno vorrebbe assumere vita prima dell'altro. Hanno tutti una particolare miseria da far conoscere [58].
Múñiz, constatato che crux di molti studiosi risulta essere la precedenza cronologica nell'individuare la formula dell'autonomia del personaggio, che alcuni fanno risalire a Unamuno, altri a Pirandello, pur riconducendo entrambi gli autori alla comune fonte di Cervantes, Calderón e alle correnti filosofiche contemporanee, afferma che sia più opportuno comprendere il ruolo che le varie interpretazioni di Cervantes giocarono nella ricezione ispanica dell'opera di Pirandello. In occasione del terzo centenario della pubblicazione del Quijote, nel 1905, apparve il commento al Chisciotte di Miguel de Unamuno, Vida de Don Quijote y Sancho, che sin dal titolo rivendicava la vita autonoma del personaggio. In realtà il centenario fu il pretesto per un dibattito sul contrasto tra ideale e realtà: Ortega y Gasset [59] infatti esponeva la propria filosofia, tutta incentrata sul rapporto vita-ragione nell'opera Meditaciones del Quijote, prospettando poi la soluzione di questo tema nell'opera La deshumanización del arte, ispirato al dramma pirandelliano Sei personaggi in cerca d'autore. Si aggiungono a ciò l'attenzione rivolta a Cervantes e Pirandello da parte di Ramiro de Maeztu [60] e anche il dilagare del chisciottismo unamuniano già presente in Italia tra letterati e studiosi di Cervantes [61], nonché l'interpretazione particolare del romanzo spagnolo che Pirandello dava in quegli anni nel saggio L'umorismo [62].
Unamuno vedeva nel personaggio creato da Cervantes una sorta di alter ego che rispecchiava il suo «sentimento tragico della vita», sentimento che diede vita a un saggio omonimo dove Don Chisciotte veniva definito «un disperato della vita» la cui anima è il «campo di battaglia» dilaniato dal contrasto tra la ragione e il desiderio di essere immortale» [63]. Pertanto nella visione di Unamuno la superiore verità della creatura letteraria è possibile in ragione della inverosimiglianza, follia e irrealtà del personaggio stesso [64].
L'eroe di Cervantes è vero due volte: la prima perché credendo ai propri sogni li rende veri, la seconda perché questa stessa coerenza e perseveranza nella follia lo immortalerà nel ricordo dei lettori, i quali daranno nuova vita alle imprese chisciottesche replicandone all'infinito la fede con cui vennero compiute. Secondo la studiosa relativamente alla comicità del personaggio e alla compresenza in esso di ridicolo e tragico Unamuno fa pendere l'ago della bilancia dal lato dell'ammirazione per una figura grande nonostante la sua comicità. Ben altra cosa è il «sentimento del contrario» [65] pirandelliano che talora si colora di pietà, per cui anche l'ammirazione nei confronti del cavaliere si tinge di una «infinita tenerezza» nel subentrare allo spietato riso.
L'interpretazione di Ortega y Gasset si oppone a quella unamuniana, in quanto il primo, «predisposto favorevolmente dalla propria filosofia prospettivistica a cogliere il nesso tra relativismo e metateatro nei Sei personaggi» [66] riduce l'opera ai presupposti estetici che l'avevano resa possibile, per cui Don Chisciotte non è più un eroe che include il reale nell'orbita superiore dell'ideale, come per Unamuno, ma «un’immagine oscillante tra due ambiti includentisi a vicenda: l'illusione nella realtà, la realtà nell'illusione» [67].
Nel saggio La deshumanización del arte Ortega individuava nel dramma di Pirandello una nuova estetica, secondo la quale le idee sono rappresentate come esse sono, con la loro sagoma spigolosa, scheletrica, ma trasparente e pura. Questa interpretazione è una forzatura per la studiosa che nell'ambito della ricezione critica dell'opera pirandelliana sottolinea come la cultura spagnola sembrò schierarsi in due opposte tendenze: quella che sottolineava il tema dell'autonomia del personaggio in nome dell'ideale cervantiano, e quella che si atteneva alle implicazioni meta letterarie del nuovo teatro al fine di prendere distanza dai miti nazionali.
Ben due studi ha dedicato Rosales alla vexata quaestio della derivazione del tema della rivolta dei personaggi. Nel primo contributo lo studioso afferma che non vi è dubbio alcuno sul fatto che l'eroe di Cervantes sia stato la fonte cui entrambi gli scrittori hanno attinto, ma afferma inoltre che ciò non lede l'originalità degli stessi.
Don Chisciotte rappresenta un unicum nel panorama della letteratura, in quanto per la prima volta un personaggio rimprovera, corregge il proprio autore, non rientrando più in uno schema fisso e tradizionale, ma rivendica autonomia e nello stesso tempo realtà anche come essere di finzione. In quanto tale riflette su se stesso sia come immagine letteraria, sia come immagine reale. Rosales afferma poi che la scoperta della coscienza del personaggio letterario costituisce lo strumento attraverso cui Cervantes risolve il problema dell'autonomia dell'arte e l'indipendenza della creazione artistica [68].
Dopo aver constatato l'analogia tematica tra Cervantes, Unamuno e Pirandello e la comune fonte cui hanno attinto, Rosales studia come gli autori hanno sviluppato la tematica in oggetto, pertanto distingue tre aspetti: la coscienza generica del personaggio considerato nella sua funzione di personaggio, la riflessione individuale del personaggio sul suo ruolo particolare e infine la coscienza del personaggio sulla sua realtà.
Secondo il critico spagnolo Pirandello accentua il primo aspetto: i personaggi pirandelliani, infatti, sono esseri vivi, rispondono a una legge ma soprattutto alla fantasia creatrice dell'autore. Essi sono enti di finzione, essenze pure, prive di vita personale, ma caratterizzate solo da vita «apparente». Dal momento che Pirandello focalizza l'attenzione sulla coscienza che i personaggi hanno di sé in quanto tali, essi possono tornare a vivere ogni qualvolta lo desiderino: attraverso la rappresentazione drammatica possono riproporre costantemente e per sempre la situazione che costituisce il loro dramma personale [69].
Il secondo aspetto, relativo alla riflessione individuale del personaggio sul suo ruolo particolare, è invece accentuato da Unamuno. Per Rosales ciò che caratterizza il romanzo Niebla è l'analogia tra il problema dell'identità del personaggio letterario e quello della verità dell'esistenza umana: Augusto non identifica la sua personalità con il suo ruolo all'interno del romanzo, non si considera un'astrazione. Egli è un essere libero, una persona che vive il suo dramma che non è già predisposto e deciso dall'autore, in quanto c'è spazio per l'iniziativa personale, non è creato una volta per tutte. Augusto ha coscienza personale, libertà di scelta: non si considera astratto, né identifica la sua personalità con il suo ruolo. Il suo dramma è quello di ogni essere umano: consiste semplicemente nel vivere [70].
Una nuova figura o il labile confine tra personaggio e uomo
Ciò che accomuna Unamuno e Pirandello è il fatto che i protagonisti delle rispettive opere sono coscienti della loro realtà. Essi acquisiscono identità: da personaggi inventati hanno preso coscienza di sé e hanno scoperto la loro autonomia. Questa coincidenza non può essere fortuita secondo Rosales, ma risponde a una influenza diretta o indiretta dalla fonte comune che è Cervantes, che trova però uno sviluppo indipendente negli autori presi in esame [71].
A questa invenzione artistica di Unamuno e Pirandello Rosales dedica un secondo saggio in cui sostiene che per la prima volta nella cultura universale entrambi hanno creato una nuova figura artistica: il personaggio di finzione che rappresenta un personaggio e non un uomo. Alla creazione di questo personaggio gli autori citati non arrivano attraverso lo sdoppiamento dei protagonisti delle loro opere in due immagini rappresentanti ciascuno una realtà diversa, ma attraverso la contrapposizione tra la realtà di alcune figure che rappresentano personaggi e quella di altre figure che rappresentano uomini [72].
La questione è del tutto aperta e rimane difficile stabilire chi tra Unamuno e Pirandello abbia creato per primo dei personaggi che lottano e si ribellano per essere altro, e che vogliono veder riconosciuta la loro autonomia rispetto all'autore. Attraverso la schematicità dei personaggi proposti, la scoperta della loro limitatezza e della loro incongruenza tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere, tra ciò che sono e ciò che appaiono, tanto Unamuno quanto Pirandello offrono una concezione della maschera come interpretazione della vita e della realtà. Lo sforzo continuo di arrivare a comprendere il mistero della personalità si traduce, per entrambi gli autori, in rassegnazione, giacché bisogna «rinunciare a lottare contro il destino e accettare l'idea che la vita è solo una scintilla che presto si spegne, mentre la forza che l'ha prodotta continua imperturbabile» [73].
Pur essendo difficile attribuire a Unamuno o a Pirandello la creazione di personaggi «nuovi», coscienti del loro ruolo, risulta affascinante come i due grandi letterati, focalizzando la propria attenzione sulla coscienza personale, approdino alle stesse conclusioni. Nel tentativo di strappare la maschera prestabilita per arrivare alla verità, entrambi gli autori evidenziano l'incertezza comune a tutti noi sul nostro destino e sulla nostra origine. Il dramma di Augusto e dei sei Personaggi, l'immanente rapporto dialettico tra reale e apparente che caratterizza le loro vite, non sono poi tanto lontani dal dolore inespresso e dal senso di alienazione che talvolta vive ciascuno di noi nel prendere coscienza di quanto l'apparenza sia più significativa della realtà. Risulta evidente che un approccio razionalistico non ci aiuta nel tentativo di comprendere la realtà, anzi accresce i nostri dubbi e il senso di impotenza che deriva dal prendere atto della «falsità» della realtà. Brancolando nel mare delle apparenze fenomeniche che ci circondano e dalle quali riceviamo segnali spesso contraddittori, siamo continuamente costretti a orientarci tra maschere. Pertanto riusciamo davvero a cogliere l'essenza delle cose e a percepire la realtà di ciò che è dentro e fuori di noi? E gli altri, riescono a cogliere la veridicità di quello che siamo e di quello che sentiamo? Seppur con amarezza, lucidamente dobbiamo accettare di essere vittime di noi stessi e della nostra smania, del tutto illusoria, di essere compresi dagli altri nella nostra essenza.
Giuliana Di Lembo
(n. 5, maggio 2021, anno XI)
NOTE
1. M. Di Gennaro, Unamuno, Svevo, Pirandello e la tragedia dell'uomo contemporaneo in AA.VV. Las conversaciones de la víspera, Viareggio, 1999-2000, p. 257.
2. C. Vian, Storia della letteratura spagnola, Cisalpino, 1979, p. 243.
3. M. Di Gennaro, Unamuno, Svevo, Pirandello e la tragedia dell'uomo contemporaneo in op. cit., pp. 257-258.
4. C. Samonà, Profilo di letteratura spagnola, Ed. Theoria, Roma-Napoli, 1985, pp. 11-12.
5. A. Rodríguez Celada, Afinidades entre Pirandello y Unamuno, ARBOR, 108, 1981 pp. 43-44.
6. Il Naturalismo, che si afferma in Francia negli anni Settanta dell'Ottocento, si propone di fare del romanzo uno strumento di analisi scientifica della realtà. Il presupposto ideologico di questo atteggiamento è dato dal Positivismo e soprattutto dal pensiero del filosofo Hippolyte Taine, secondo cui lo scrittore deve indagare la natura umana con rigore scientifico, basandosi sulla convinzione che i fenomeni spirituali siano un risultato della fisiologia dell'uomo e dell'ambiente in cui vive. Emile Zola è lo scrittore che dà una sistemazione compiuta alle teorie naturaliste. I presupposti teorici della sua narrativa sono esposti nel saggio Il romanzo sperimentale: il romanzo deve fare proprio il metodo sperimentale delle scienze, applicando al campo della psicologia umana, intesa come prodotto di fattori ereditari e ambientali. In Italia si deve a Luigi Capuana la rielaborazione teorica del Naturalismo, di cui viene rifiutata la concezione della letteratura come mezzo per dimostrare tesi scientifiche. La scientificità si deve mantenere solo nella scelta dei mezzi espressivi, ispirati al principio dell'impersonalità della narrazione. Questa teoria trova piena concretizzazione nelle opere di Giovanni Verga la cui poetica è caratterizzata dall'«eclissi» dell'autore il quale non deve esprimere giudizi, ma tracciare solo il profilo dei personaggi e presentare gli antefatti. In questo modo il narratore si mimetizza nell'ambiente rappresentato, condividendone linguaggio e mentalità. Quindi la letteratura assume per Verga un compito puramente conoscitivo, contrariamente a Zola, poiché in un’ottica assolutamente pessimistica i rapporti sociali sono regolati dall'ineluttabile legge del più forte.
7. V. González Martín, La cultura italiana …, cit., p. 252.
8. V. De Tomasso, Il pensiero e l'opera di Miguel De Unamuno, Cappelli editore, 1967, p. 297.
9. O. Lottini, La realtà della finzione. Unamuno e Pirandello all'orizzonte di Cervantes, in P. CARRIGLIO, G. STREHLER (a cura di) Teatro italiano, vol. 1, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 312-313.
10. O. Lottini, La realtà della finzione…, cit., pp. 308-312.
11. M. De Unamuno, Nebbia …, cit., p. 205.
12. Ibidem.
13. M. De Unamuno, Obras completas, a cura di García Blanco M., Madrid, Escélicer, 1966, vol. III, p. 253.
14. M. De Unamuno, Nebbia …, cit., p. 207.
15. O. Lottini, La realtà della finzione…, cit., pp. 314-317. A questa gerarchia ontologica fa riferimento anche MARTÍN in La cultura italiana …, cit., p. 254.
16. O. Lottini, La realtà della finzione, cit., p. 318.
17. L. Pirandello, Sei personaggi…, cit., pp. 7-8.
18. O. Lottini, La realtà della finzione…, cit., pp. 323-324.
19. A. Rodríguez Celada, Afinidades entre…, cit., pp. 52-53.
20. F. Sedwick, Unamuno and Pirandello revisited, ITALICA 33, 1956, pp. 45-46.
21. Ivi p. 38.
22. M. Di Gennaro, Unamuno, Svevo, Pirandello…, cit., pp. 268-269.
23. Al contrario Cicerone sostiene l'importanza del corpo, della gestualità durante la performance di un oratore. Nel dialogo platonico De oratore, dopo aver esaminato la parti costitutive di un'orazione, inventio, dispositivo, elocutio, memoria e actio, Cicerone sottolinea che l'oratore nel pronunciare il suo discorso debba mettere in atto tutte quelle strategie e abilità che gli permettono di essere più credibile agli occhi del pubblico: la posizione del corpo, i gesti, le espressioni del volto. Anche in ciò infatti, si misura la capacità dell'oratore di conseguire gli obiettivi fondamentali del genere oratorio: docere, delectare, movere.
24. M. De Unamuno, Nebbia …, cit., p. 227.
25. A. Kelly, I rapporti tra Unamuno e Pirandello nella…, cit., p. 16.
26. L'incomunicabilità come condizione esistenziale, che deriva dalla mancanza di un'autentica conoscenza di se stessi e degli altri, porta a una condizione di isolamento e solitudine. Già il filosofo sofista Gorgia da Lentini nel IV secolo a. C. connetteva l'incomunicabilità alla difficoltà di trasmettere ad altri ciò di cui si parla. Seguendo i dettami della retorica sofistica che si proponeva di affascinare l'interlocutore, tutti i sofisti fecero del linguaggio uno strumento per dimostrare tutto e il contrario di tutto. In epoca medievale l'uomo in quanto creato da Dio come corpo e anima, viveva nell'universo un rapporto armonioso con tutto il creato e quindi con Dio: pertanto non si poneva il problema della incomunicabilità esistenziale. In seguito alla diffusione della filosofia cartesiana e all'affermazione del principio cogito ergo sum, si pone la questione di una soggettività fondata in modo autonomo sulla ragione del singolo individuo. L'accentuazione sempre maggiore di questa dimensione soggettiva a opera della filosofia idealista porta all'incomunicabilità intesa come incapacità di comunicare e solitudine esistenziale. Questa tematica è stata affrontata da molti esponenti della letteratura tra Ottocento e Novecento. Dal momento che la filosofia e la scienza mettono in discussione le certezze positiviste e la realtà non appare più come un dato sicuro che la ragione può interamente dominare, l'individuo, di fronte ai suoi limiti, vive un profondo disagio, una condizione personale di smarrimento, di inadeguatezza, di incapacità di relazionarsi col mondo. Questo senso di profonda solitudine caratterizza già i protagonisti delle opere di Verga. Essi presentano delle caratteristiche che sono determinate dagli eventi e dalle condizioni sociali, pertanto indipendenti dalla volontà dell'individuo che le subisce senza ribellarsi per non cadere in una condizione sociale peggiore di quella in cui vive. Verga nel presentare il mondo «capovolto» dei vinti non interviene per ristabilire i giusti rapporti all'interno della società, ma si limita a prenderne atto e a constatarne il carattere implacabile. La dimensione «oggettiva» e assoluta dei personaggi non è propria invece dei protagonisti delle opere pirandelliane, ma è comune la condizione di alienazione derivante dalla non accettazione della realtà in cui vivono. Anche Franz Kafka sottolinea la grande difficoltà, anzi l'impossibilità di comunicare fra gli individui e tra questi e le entità che li sovrastano, come nel romanzo Il processo. Dai toni decisamente autobiografici è la Lettera al padre in cui emerge con maggiore pathos, nel rapporto padre-figlio, uno degli aspetti più dolorosi dell'incomunicabilità. Pascoli, poi, sperimentando questa angoscia di vivere, rinuncia, come la maggior parte degli artisti decadenti, al ruolo sociale dell'opera d'arte: la poesia è fine a se stessa, e diventa tutt'al più consolazione personale dinanzi ai drammi della vita. All'interno del Decadentismo le avanguardie assumono un provocatorio tono antiborghese: l'istinto, l'irrazionale e la pura vitalità si contrappongono al meccanico razionalismo della società moderna. I poeti «maledetti», ad esempio, si pongono in un atteggiamento di sfida alla società borghese, della quale non condividono i valori. Anche Italo Svevo affronta il disagio interiore dell'individuo, rappresentato metaforicamente dall'inettitudine, intesa come malattia della psiche e soprattutto infermità della volontà. I suoi personaggi sono privi di coerenza interiore, sono artefici del proprio fallimento, al contrario di quanto era accaduto in passato, quando bastava collocare un individuo in un certo contesto sociale per determinarne l'esito esistenziale, come aveva teorizzato il naturalista Hippolyte Taine.
27. V. De Tomasso, Il pensiero e l'opera…, cit., p. 296.
28. A. Tilgher, Studi sul teatro…, cit., p. 207.
29. España, Teatros, Madrid, 29 dicembre 1923, p. 10.
30. A. Castro, Cervantes y Pirandello, Taurus, Madrid 1960, p. 222.
31. J.A. Balseiro, Unamuno, Pirandello, Conrad y una teoría de Bernard Shaw, in El Vigía, Mundo Latino, Madrid, 1925, pp. 77-85.
32. R. Meola, Unamuno e l'Italia, Columbia University, New York, 1952, p. 313.
33. S. Putnam, Unamuno y el problema de la personalidad, «Revista Hispanica Moderna», 2, gennaio, 1935, pp. 103-104.
34. L. Leal, Unamuno y Pirandello, «Italica», 29, 3,1952, pp. 197-198.
35. G. Foresta, Pirandello e Unamuno. Analogie e revisione critica, «Nuovi Quaderni del Meridione», gennaio-marzo, 1973, pp. 15-16.
Al principio del Novecento inizia il processo di dissoluzione del teatro «classico» che obbediva a delle leggi ben precise: 1) un dramma presentava dei «caratteri» ovvero dei personaggi con natura fissa e immutabile, 2) elementi fondamentali erano il dialogo e l'azione, 3) c'era stretta aderenza dello spettatore allo spettacolo teatrale che rappresentava la vita (principio della catarsi aristotelica), 4) il luogo degli spettatori e il luogo dell'azione scenica erano distinti e questa divisione era accentuata dal sipario che si alzava quando iniziava la rappresentazione. In realtà questa dissoluzione della forma drammatica classica si trova già in Ibsen i cui personaggi sono dominati dal loro passato, per cui i temi dei drammi non derivano da un'azione drammatica che si svolge sotto gli occhi degli spettatori. Tutto è il risultato di un ricordo interiore, che continua ad agire nell'eroe, isolandolo dal presente e da coloro che lo circondano.
Con Shaw questa dissoluzione del dramma classico è accentuata: per il drammaturgo inglese, infatti, il teatro è un veicolo di idee, una guida per la coscienza, non una fotografia della natura, ma la rappresentazione del conflitto tra volontà dell'uomo e ambiente. Attraverso la scelta della satira, del paradosso Shaw lancia pesanti invettive contro i pregiudizi e le storture della società borghese del tempo.
36. U. Cantoro, Luigi Pirandello e il problema della personalità, Nicola Ugo Gallo, Bologna 1954, p. 192.
37. Benito Pérez Galdós (1843-1920), scrittore e drammaturgo spagnolo, dopo gli studi liceali si trasferì a Madrid dove si iscrisse alla facoltà di legge. Le frequentazioni del periodo universitario gli permisero di diventare un grande conoscitore della vita sociale e politica della capitale spagnola. I numerosi viaggi in Europa che lo stesso ebbe modo di compiere gli permisero di sviluppare una forte aspirazione al rinnovamento politico, culturale e artistico del proprio paese.
38. Jacinto Grau (1877-1958), esule in America Latina a partire dal 1936, dopo un esordio come romanziere, si dedicò alla produzione teatrale prediligendo temi e situazioni drammatiche, personaggi tragici e passioni violente.
39. B. P. Galdós, Realidad, Losada, Buenos-Aires, 1944.
40. J. Chicarro De León, Pirandelismos en la literatura española, «Quaderni Ibero-Americani», 15, 1954, pp. 406-409.
41. B. P. Galdós, El amigo Manso, Losada, Buenos-Aires, 1944.
42. «¡Que vivan, que gocen! Yo me voy!»
43. J. Chicarro De León, Pirandelismos en la literatura española, «Quaderni Ibero-Americani», 15, 1954, pp. 412-414.
44. F. Sedwick, Unamuno and Pirandello revisited, «Italica», Chicago, 33, 1956, pp. 44-45.
45. «Y luego, todo el ‘pirandellismo’ avant la lettre», C. Clavería, Unamuno y Carlyle in Temas de Unamuno, Gredos, Madrid, 1953, p. 43.
46. Questa «origine» del tema è confermata anche da J. M. Monner Y Sans che nel contributo Unamuno, Pirandello y el personaje autonomo, La Torre, 35-36, 1961 Puerto Rico.
47. Thomas Carlyle (1795-1881), storico, saggista e filosofo scozzese, fu di umili origini. Si interessò molto alla letteratura tedesca ed entrò nel 1827 in rapporti epistolari con Goethe. Nell'opera History of the French Revolution(1837) la rivoluzione è concepita come giustizia di Dio, e al nesso storico tra gli eventi sono sostituite prospettive mistiche. All'intellettualismo imperante contrappose una concezione romantica della vita come perenne creazione spirituale; alla morale utilitaria predominante un'austera morale individualistica.
48. J. E. Gillet, The autonomous character in Spanish and European literature, «Hispanic Review», 3, 1956, pp. 180 e ss.
49. Dramma filosofico-teologico in tre atti e in versi, è stato definito da P. SZONDI, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino, 1996, la versione cristiana dell'«Edipo re»: al posto dell'incesto tra Edipo e Giocasta vi è la morte della madre del protagonista Sigismondo, durante il parto, mentre all'assassinio del padre Laio si sostituisce una sconfitta in battaglia.
50. Dell'opera fu edita una traduzione italiana nel 1913 curata da G. Beccari.
51. J. Chantraine De Von Praag, España, tierra de elección del pirandellismo, «Quaderni Ibero Americani», 28, 1962, p. 222.
52. Ibidem.
53. J. Chantraine De Von Praag, España, tierra de elección del pirandellismo, cit., p. 222.
54. J. Ortega Y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, trad. it., Guida, Napoli 1986, p. 190.
55. O. Lottini, La realtà della finzione: Unamuno e Pirandello…, cit., p. 320.
56. L. Pirandello, L'umorismo, Carabba, Lanciano, 1908.
Il termine deriva probabilmente dal latino medievale masca, che significa «strega» e per derivazione «fantasma» e «travestimento». Nell'ambito delle società arcaiche la maschera, come oggetto, svolge importanti funzioni sociali in quanto dotata di valore magico e capace di veicolare un rapporto con le forze soprannaturali ed è utilizzata in molte pratiche rituali. In Africa e nel Mediterraneo orientale le maschere sono legate a riti di iniziazione e hanno valore apotropaico. Con il teatro greco l'uso della maschera diventa costante e fondamentale per due ordini di motivi: perché gli attori sono esclusivamente uomini e quindi essa è indispensabile per l'interpretazione di ruoli femminili, ma soprattutto perché è determinante per la caratterizzazione dei personaggi e per l'amplificazione della voce. Un momento di svolta per l'evoluzione della maschera è l'epoca medievale: durante il carnevale, sorto come deformazione della realtà, il mascheramento diventa occasione per l'inversione dei ruoli, lo scambio delle identità e la proiezione nell'immaginario di desideri non realizzabili. In età moderna, poi, la «maschera» diventa il mezzo attraverso cui simulare, mostrare sentimenti e intenzioni non corrispondenti al vero. Tra Ottocento e Novecento la critica allo stile di vita borghese, incentrato sull'apparenza e sulla rispettabilità, accusa i borghesi di essere falsi, proprio per la loro tendenza a «mascherarsi», a nascondere dietro perbenismi comportamenti riprovevoli nell'ottica tradizionale. Proprio in questo senso la concezione pirandelliana della maschera esprime un approccio assolutamente soggettivo alla realtà.
57. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Treves, Milano 1910. In realtà il romanzo fu pubblicato dapprima a puntate sulla rivista quindicinale «Nuova Antologia» di Roma dal 16 aprile 1904 al 16 giugno 1904.
58. A. Illiano, Pirandello e la critica, University of California, Berkeley, 1966, p. 380.
59. José Ortega y Gasset (Madrid 1883-ivi 1955) laureatosi in filosofia presso l'ateneo di Madrid, compie lunghi soggiorni di studio in Germania, ottenendo la cattedra di metafisica presso l'università madrilena. Fondatore e direttore di importanti giornali quali «El Sol», «Revista de Occidente», si mostra sensibile alla causa repubblicana, allontanandosene poi in seguito a contrasti e delusioni. Allo scoppio della guerra civile abbandona la Spagna, vivendo prima a Parigi e poi in Argentina, per poi tornare in patria nel 1948.
60. R. De Maeztu, Don Quijote, Don Juany la Celestina, Madrid, Calpe, 1926 e ID. Las letras y la vida en la España de entreguerras, Madrid Editora Nacional 1958, pp. 101-121, in cui si raccolgono articoli di critica pirandelliana apparsi su diversi giornali iberoamericani nei primi due mesi del 1924.
Ramiro de Maeztu (Vitoria 1874-Madrid 1936) giornalista e corrispondente europeo fino al 1920, quando rimpatriò per diventare redattore de EL SOL. Aderì alla dittatura di Prima de Rivera e accentuò il suo destrismo all'epoca della Repubblica, sempre con indiscutibile integrità morale. Morì fucilato dai repubblicani all'inizio della guerra civile.
61. Massimo artefice fu in Italia Giovanni Papini che, definendosi «un Unamuno mancato», non solo fece pubblicare la traduzione della Vida nella collana su Carabba, «Cultura dell'anima», da lui diretta, ma fu il primo a recensire il libro in occasione sia dell'edizione spagnola, sia di quella italiana, mentre altri si affiancavano all'impresa di divulgazione, tra questi: Giovanni Amendola, Ugo Della Seta, Giovanni Boine.
62. L. Pirandello, L'umorismo, Carabba, Lanciano 1908.
63. N. Múñiz Múñiz, La linea Cervantes-Pirandello, «Allegoria» 19, 1995, p. 11.
64. M. De Unamuno, Obras completas, a cura di M. García Blanco, Madrid, Escélicer, 1966, vol. III, p. 253.
65. Nel saggio L'umorismo Pirandello spiega la differenza tra avvertimento del contrario e sentimento del contrario, che corrisponde poi alla differenza tra il comico e l'umoristico:
«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, Ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario».
66. N. Múñiz Múñiz, La linea…, cit., p. 17.
67. Ivi p. 18.
68. L. Rosales, La comedia de la personalidad, «Cuadernos Hispano-Americanos», 118, 1959, p. 260.
69. L. Rosales, La comedia…, cit., pp. 262-264.
70. L. Rosales, La comedia…, cit., pp. 266-270.
71. Ivi p. 283.
72. L. Rosales, La comedia de la felicidad, «Cuadernos Hispano-Americanos», 119, 1959, pp. 48-49.
73. A. Kelly, I rapporti tra…, cit., p. 27.
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