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L’ostinata passione di resistere del «migliore amico» di Cioran: Benjamin Fondane
«Da alcuni anni sapevo di essere in cammino per le strade di Ninive. Sulle rive della Senna, pensavo al tramonto del mondo greco-romano e anticipavo con piacevole disincanto l’addensarsi delle inevitabili ombre sulla Città. Le città, come gli uomini, alla fine rendono l’anima.
Parigi era il luogo predestinato per il logorarsi dello spirito. Dopo aver viaggiato attraverso paesi resi folli dalle luci dell’alba, tu potevi sostare qui cercando per le vecchie vie e sui volti della noia alcune provviste per la vacanza dell’anima.
Provviste di cibo fatale. Da alcuni anni, la città era deserta, da alcuni anni era come la tua anima…
Sentivo questo attraverso ciò che è vecchio in me. E questo valeva per tutti. Tutti la amavamo attraverso le nostre impossibili aderenze.
La dolce attrazione per la mancanza di speranza non la percepivo in nessun altro angolo del mondo. E neanche la nobiltà del fallimento. Parigi c’incoronava con un nembo di superfluità, con un prestigio di vanità e offriva alle nostre incertezze la sostanza della sua lenta agonia. Ci s’inabissava insieme ad essa. E quando restavo, ore e ore del giorno e della notte, sopra i suoi ponti sognanti, mi consolavo di non aver vissuto la disfatta dell’antica Roma. I palazzi ti condannavano alla poesia e alla nebbia sottile, come un fragile paradosso della natura, ferivano la tua identità e volgevano le radici del tuo essere verso un’essenza di vaga insensatezza.
I tedeschi non hanno fatto altro che affrettare il suo destino. Sarebbe un grave errore credere che loro siano stati la causa di un così decisivo scacco. Parigi è caduta perché era destinata a cadere. Si è offerta all’occupazione. Senza i tedeschi, sarebbe crollata da sé. Perché è vissuta troppo a lungo, è esistita troppo. Nessun altro aggregato umano ha emanato tanta sostanza. Una città che ha meritato il suo tramonto come una condanna per l’eccesso, come un’espiazione per troppa fecondità. Perfino i suoi muri, anneriti dal fumo, sono stati affaticati dal tormento della prosperità. Tanti palazzi sembrano ormai volersi inginocchiare, erosi dalla sazietà, dal tempo, dal flagello della creazione.
I francesi sono stati il centro del divenire. Tutto è passato in loro in un paio di secoli. Lo stesso spazio sembrava essere francese. Ma loro si sono impauriti per la noia. E la noia è penetrata spaventosamente nei loro cuori – Parigi non vuole neppure che essi battano.
I tedeschi l’hanno conquistata per consacrare uno stato di fatto. Parigi aveva iniziato a perdere anni fa il suo respiro. Ciò che rappresenta un momento universale della storia l’ho avvertito solo alla vigilia della loro ingresso.
In pieno giorno, dall’Arco di Trionfo e fino all’Opera, non ho incontrato anima viva. Ero solo insieme alla città di Parigi. Quasi tutti erano andati via e quelli che erano rimasti attendevano a casa loro, da qualche parte, in silenzio. Sui boulevard, nessuno. Il giorno dopo, sarebbero dovuti entrare. Non dimenticherò mai quel brivido: vedevo la storia, la città vuota rendeva visibile alla mente un momento universale. Con malinconica oggettività condividevo il deserto della Francia e il balzo teutonico». [1]
«Antecedente»: la Francia di Cioran, tra solitudine, noia e dor
Quest’articolo pubblicato su «Vremea» l’8 dicembre del 1940, quando Cioran aveva ventisette anni, sembra già annunciare il piccolo libro del 1941 scritto a matita dal titolo Despre Franţa, opera di svolta nello stile personale di Cioran, che costituisce il segreto anello di congiunzione con le opere giovanili romene. Il trionfalismo nazionalistico ed esasperato di Schimbarea la faţă a României si è ormai spento in Cioran. Il lirismo contraddittorio dell’esule ne ha preso definitivamente il posto con la scrittura di questo opuscolo Sulla Francia, il quale è anche ilfrutto delle peregrinazioni in bicicletta di Cioran in lungo e in largo per l’esagono, che hanno contribuito in maniera determinante alla scomparsa della sua insonnia che lo aveva accompagnato durante gli anni incandescenti del suo passato trascorso in Romania e poi in Germania. Nel ritratto di Cioran sulla Francia, dove predomina lo scetticismo più radicale, viene indicata fin dall’inizio la sua particolare predilezione per la noia: «Non credo che avrei a cuore i francesi se non si fossero così annoiati nel corso della loro storia». [2] Cioran abbraccia ormai le «vedute» poetiche di Fondane e di Bacovia, fatte di noia profonda e di cafard intrinsecamente moldavi, e dipinge un quadro della Francia, e delle sue province più nascoste, dai colori crepuscolari in cui trionfano la caducità, la melanconia, il desiderio nostalgico di tutta una civiltà in declino e in preda alla disgregazione.
Rispetto alla Trasfigurazione della Romania, Sulla Francia testimonia, dal punto di vista soggettivo, non solo la particolare solitudine di Cioran a Parigi dove si sente «esiliato»dal luogo natio, ma attesta soprattutto quella profonda nostalgia tipica di chi è fondamentalmente «sradicato». Questa peculiare nostalgia in romeno si dice dor. Essa non esprime solo una tensione desiderante, o un’aspirazione, verso la lontananza – come la parola Sehnsucht intende esprimere nella lingua tedesca – ma significa «oltrepassare la lontananza nel luogo in cui ci si sente ovunque troppo lontani» [3]. La nostalgia cioraniana è un dor, è un sentirsi eternamente lontani da casa. È un desiderio di ritorno verso il finito, verso l’immediato, verso la conquista di quello che si aveva prima di essere soli. È un appello terrestre e materno, una diserzione del lontano. È come se l’anima dello scrittore in esilio a Parigi non si sentisse più consustanziale al mondo, e allora sogna tutto ciò che ha perduto:
«Noialtri, incatenati nei nostri destini approssimativi, lo proviamo nell’attimo della nostra prima riflessione, nasciamo con esso e lo sviluppiamo col passare del tempo, ne subiamo le esperienze e le alienazioni, come certi poveri ebrei non ingannati da tentazioni messianiche. Tutti i paesi falliti hanno un qualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile incompiutezza. Come se non fossimo nati nel nostro elemento, la “patria” è un simbolo di interminabili dubbi, un punto interrogativo che non trova alcuna risposta né etnica né sentimentale e neanche geografica». [4]
Il dor viene accostato qui da Cioran alla tragica equivocità del destino giudaico di matrice fondaniana. Infatti, nel Cioran della Trasfigurazione della Romania, il particolare interesse del «messianismo ebraico» per l’idea di «giustizia sociale», era la qualità «reale» che assicurava la superiorità degli ebrei nei confronti dei romeni. A proposito del messianismo degli ebrei in senso politico, Cioran dichiarava che essi sono «il più intelligente, il più talentuoso» dei popoli. Il problema, tuttavia, era un altro. In linea con gli stereotipi antisemiti del tempo, diffusi negli ambienti del nazionalismo reazionario e conservatore, Cioran affermava che gli ebrei si erano opposti in Romania a tutti i tentativi di consolidamento nazionale e politico [5]. Ma a Parigi Cioran cambia radicalmente idea. Ai suoi familiari l’esule Cioran scrive questa lettera, datata 17 luglio 1946:
«Da molti punti di vista ho avuto fortuna con un amico ebreo romeno che sta a Parigi dal 1940. Già in Romania lo conoscevo da tempo. Benché sia molto più grande di me (ha 58 anni) lui è stato molto più generoso e degno di tutti quegli amici “cristiani” messi insieme. Non è passata settimana che non mi invitasse a mangiare copiosamente a casa sua; in ogni situazione posso contare sul suo appoggio. In fondo tutte le idee sono assurde e false: gli uomini non restano che quelli che sono indipendentemente dalla loro origine e dalla loro fede. In questo senso sono molto cambiato. Credo che mai più abbraccerò un’ideologia». [6]
Infatti, come si legge in un’altra lettera di Cioran spedita a Marin Mincu nel 1988, il pensatore di Sibiu prenderà una definitiva distanza dal suo libro del 1936; e Despre Franţa rappresenta proprio il luogo e il momento in cui si manifesta in presa diretta questo irreversibile stacco soggettivo operato già nel 1941:
«Ciò che mi rincresce è che [La Trasfigurazione della Romania] contiene troppe affermazioni inutilmente ciniche, insolenze gratuite, idiozie che avevano libero corso all’epoca. Io ne rinnego completamente una grandissima parte che riflette i pregiudizi di allora, ritengo come inammissibili alcune considerazioni sugli ebrei. Le farò una confessione: il capitolo Un popolo di solitari contenuto nella Tentazione di esistere è una risposta ad alcune pagine della Trasfigurazione. Ho sempre ammirato gli ebrei ma allo stesso tempo li invidiavo per avere un destino, cioè nel senso positivo, mentre il fatto di nascere è sinonimo di fallimento». [7]
L'incontro con Fondane (e il grande «salto» nella lingua francese)
In questo volume Sulla Francia è presente anche un altro aspetto degno di rilievo. Nel 1941, Cioran è ormai pronto per fare il grande «salto» – «salto storico» che nel suo appassionato e scandaloso libro del 1936 aveva desiderato non per sé, ma per la «sua» odiata e insieme amata Romania – nella lingua francese. Tutto il valore di Despre Franţa sta nell’après-coup storico e testuale. Con questo libro di Cioran, il cui destino era quello kafkiano della distruzione, emergerà un «nuovo» soggetto che trasformerà il delirio e il «non senso» di Schimbarea la faţă a României in «senso», e il caos nazionalista in nuovo ordine universale-singolare. Da questo punto di vista Despre Franţa, frutto della contingenza storica – nel momento in cui Cioran si trovava a Parigi durante il periodo dell’Occupazione nazista – avrà lo statuto di evento, e questo evento apparirà allora come retroattivamente necessario.
Cioran, identificandosi ormai nella Francia («Capisco bene la Francia attraverso tutto ciò che c’è di marcio in me»), cerca di indicare inconsciamente a sé stesso un luogo ove possa trovare un possibile spazio di espressione nella lingua francese, prima di maturare il definitivo strappo dalla lingua romena e da tutte le sue precedenti convinzioni ideologiche. Ecco il brano: «La Francia attende un Paul Valéry patetico e cinico, un artista assoluto del vuoto e della lucidità. Lui, che di tutti i francesi di questo secolo si è meno ingannato – simbolo, attraverso la sua perfezione, dell’inaridirsi di una civiltà – non è la massima espressione della decadenza, poiché gli manca una vaga sfumatura profetica e il fiero coraggio nell’irreparabile». [8]
Questa «vaga sfumatura profetica e il fiero coraggio nell’irreparabile» Cioran li troverà nel silenzio aurorale e nell’incanto crepuscolare della lingua francese, in modo tale che il «vuoto» e la «lucidità» permetteranno lo schiudersi di una «nuova» parola che consenta il transito tra il vivente e il mortale, non soffocata nella sua pietrificazione immobile e desertificata del cafard, ma contenendo in sé stessa la possibilità di dissolvere l’oggetto nostalgico della «patria» e della madrelingua nel suo dileguare erratico e sognante.
Ancora più decisivo, in questa direzione, sarà per Cioran il vero e proprio incontro con Fondane nel 1942 in una Parigi occupata dai nazisti. Fondane, con la forza della sua parola appassionata, porterà Cioran a fare i conti con gli abbagli ideologici della propria giovinezza e, più o meno implicitamente, gli offrirà una sorta di antidoto contro il delirio ideologico attraverso l’esemplarità straordinaria del suo percorso tormentato, prima di venire orrendamente ucciso, insieme alla sorella Lina, nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau nel 1944, all’età di 46 anni. Inutilmente Cioran aveva provato, presso le autorità francesi, a sottrarlo a questo terribile destino di morte. Leon Volovici, uno dei maggiori studiosi dell’antisemitismo e nazionalismo romeni, riporta in un suo articolo intitolato Epilogul unei prietenii (L’epilogo di un’amicizia), alcune informazioni relative all’amicizia che ha fatalmente legato Cioran a Fondane, e all’inutile tentativo da parte di Cioran, insieme al filosofo Stéphane Lupasco e Jean Paulhan di aiutarlo, di farlo scampare al destino fatale che lo condurrà orribilmente ad Auschwitz. «Cioran conosceva tutti i dettagli dell’arresto di Fondane, avvenuto il 7 marzo 1944. Insieme a due altri amici del poeta, Stéphane Lupasco e Jean Paulhan, Cioran aveva compiuto diverse iniziative presso le autorità francesi. I tre uomini erano riusciti a ottenere la sua liberazione, ma non quello della sorella del poeta Lina Pascal […], per cui Fondane preferì condividere la sorte di quest’ultima ed entrambi furono deportati ad Auschwitz il 30 maggio, nel penultimo convoglio spedito in direzione di questo campo». [9]
In varie interviste rilasciate nel tempo, Cioran ricorda Fondane come poeta e scrittore. Afferma che si trattava di un uomo affascinato soprattutto dal linguaggio: «Il suo temperamento era così esplosivo che avrebbe voluto far scoppiare le limitazioni del linguaggio, avrebbe voluto far esplodere le parole... ma, allo stesso tempo, era uomo della parola». [10] Fondane era «portato a voler dire tutto» [11]; acceso da una così grande curiosità intellettuale, «aveva una presenza imponente», e quando lo si sentiva parlare, dice Cioran, «tutto si animava intorno a lui». Il suo cuore «attratto dall’enigma» si nutriva «di contraddizioni»; sperimentava nella poesia il «reale» e coltivava «l’attesa di questo stupore» non come semplice illusione, ma come cifra etica del suo desiderio che veniva a incarnarsi nell’ostinata passione di resistere di fronte a tutto ciò che avversamente si accaniva contro di lui.
«La filosofia non fu un caso nella sua vita», dice Cioran: «La sua fu un’iniziazione alla filosofia, una scoperta». [12] Fondane era un intellettuale che lottava contro tutte le evidenze di una ragione miope, succube della mera realtà dei fatti. Cioran afferma che il suo amico «detestava qualunque risposta, l’essenziale era la domanda; per lui era necessario sfuggire alle risposte, evitando di dire “ho trovato la soluzione”. La sua visione del mondo gli appariva in forma di interrogazione» [13], e questo era il vero segno di un’autentica vocazione filosofica: «La passione profonda di un vero filosofo è quella di interrogare se stesso». [14]
Fondane era un pensatore tragico, forse più profondo e sensibile di Nietzsche e di Kierkegaard, con cui aveva molti «punti in comune, persino sul lato morboso». [15] Come Fondane, questi ultimi non erano pensatori che dichiaravano «di aver trovato una risposta», ma erano «menti tormentate», «uomini che non hanno trovato nulla, ma che continuano a porsi domande, a interrogarsi sulla sofferenza». [16]
Il «tormento» di Fondane
Per Fondane, ciò che veramente contava «era il tormento». [17] Il tormento costituiva il senso stesso della sua esistenza. Durante la sua vita, Cioran entrò in contatto con molti uomini segnati dal tormento, primo fra tutti in Romania il suo maestro, Nae Ionescu, del quale scriveva, in un articolo del 1937, queste parole: «Difficilmente troverei un altro uomo che si sia posto il problema del proprio destino molto più di lui. Non tanto la tortura della soggettività, quanto il pathos esistenziale, il tormento monumentale del proprio essere hanno spinto i suoi interessi fino all’ossessione. […] Da lui ho appreso che l’esistenza è una caduta e non c’è nessuno che mi potrebbe fermare nel trarre la conclusione che lo scopo della vita sia il tormento, l’autotortura, la voluttà satanica. Ma è anche vero, comunque, che non tutti sono stati menati verso una così bella e appassionante autodistruzione». [18]
È vero che Nae Ionescu, ad un certo momento della biografia intellettuale di Cioran, ha saputo accogliere, come un padre, il messaggio d’amore di un figlio torturato dalla disperazione, però lo stesso maestro ha restituito, in cambio, la risposta nefasta della frenesia e del delirio ideologico, lo spirito politico della crociata. Fatale questo paradosso, gravido di conseguenze nefaste per il giovane Cioran. L’identificazione immaginaria col maestro, luogo del riconoscimento del desiderio, diventa un riconoscimento fittizio rispetto alla verità tormentata del desiderio del soggetto. Tutte le immagini speculari che il maestro gli aveva offerto sulla base di un nazionalismo perversamente salvifico e di un «antisemitismo metafisico» non possono essere altro che un inganno. Bisognerà attendere che questa domanda abissale, incisa come una ferita aperta nel soggetto, venga riflessa da un nuovo specchio, come quello di Benjamin Fondane durante l’Occupazione nazista di Parigi. [19]
«Era un uomo nobile che viveva in un’epoca buia. Pensare a lui, è come pensare a una persona nobile, è quasi un sentimento che implica l’esclusione. Tuttavia, Fondane era questo: non un uomo distinto, ma nobile… nella maniera più profonda. Si potrebbe dire che non era né credente né non-credente, ma entrambe le cose. Questo è ciò che è straordinario in lui. Era distaccato dalla religione, ma, allo stesso tempo, era uno spirito religioso – nel senso che, per lui, essere religioso era un modo per oltrepassare questo mondo». [20]
Nello specchio profondamente «nobile e distinto» di Fondane, a Parigi, Cioran non incontrerà il fantasma del «padre autoritario» (nel riflesso dello «spirito religioso» di Nae Ionescu, in cui si era chiamati a perdersi in lui, in quel suo «nulla» che era pur «qualcosa»), ma troverà un «fratello maggiore» che saprà porre la vita sradicata di Cioran davanti alla dura sporgenza del reale catastrofico della Storia, di fronte a quel suo limite invalicabile, in cui lo stesso Fondane «credente / non-credente» si situerà di fronte ad esso angosciosamente come davanti all’Ineluttabile.
Così Cioran racconta la sua straordinaria esperienza al cospetto di Fondane: «Nella misura in cui uno è un individuo tormentato, il dramma psicologico è molto importante; quando si è coinvolti in una conversazione con Fondane, anche se si è in disaccordo con lui, si appartiene a questi spiriti nati per vivere nel tormento. Per questo motivo, è qualcuno a cui è possibile dire ciò che preme sul cuore, avendo fatto esperienza delle sue stesse crisi. Condividere il suo tormento è già tanto. Riuscire ad essere così intimi con qualcuno che è stato una figura tragica, è straordinariamente importante. Non si è discepoli, ma si appartiene alla stessa famiglia di idee. Questo è molto importante, e si può avere l’impressione di aver trovato qualcosa. Nella vita, ciò non accade molto spesso». [21]
Sempre in un’intervista, Cioran rivela la cifra non solo morale, ma soprattutto etica di Fondane: «Fondane era un uomo superiore, nobile, fuori dall’ordinario. Egli rifiutò di abbandonare Lina e di accettare la propria liberazione». [22] Cioran indica la forza movente dell’illusione, della speranza, della resistenza di Fondane che, secondo lui, si basava su un’errata percezione delle cose:
«Inizialmente, aveva un’idea sbagliata dell’intera situazione. Forse credeva di riuscire a fuggire e salvare Lina. Anche se era una persona tormentata, prima del suo arresto, Fondane era pieno di illusioni riguardo la situazione politica di quegli anni. Mi diceva sempre: “Io non esisto più… nessuno mi conosce, non posso essere in pericolo; nessuno legge più i miei libri…”. Questo non era vero e io, spesso, lo incoraggiavo a nascondersi e a non circolare liberamente per le strade di Parigi. Viveva in rue Rollin, una piccola via fuorimano, che gli dava l’impressione di essere ben protetto. Nonostante ciò, Fondane raramente restava a casa; passeggiava ovunque. I suoi amici volevano nasconderlo e, per un po’ di tempo, egli andò ad abitare da un amico romeno che aveva un grande appartamento – un amico che era in buoni rapporti con i tedeschi. Victoria Ocampo, che ammirava Fondane, voleva condurlo in Sud America, ma i suoi sforzi furono vani, e anche sua moglie lo pregava di nascondersi, senza successo… In un certo senso, Fondane aveva accettato la morte». [23]
Un’etica semplice e rivoluzionaria
Accettare la morte non significa banalmente rassegnarsi in maniera passiva al proprio destino ineluttabile. Nel caso di Fondane, non si trattava di un fatalistico atteggiamento di abbandono all’inesorabilità della morte. L’etica di Fondane è al tempo stesso semplice e rivoluzionaria. Egli, in una Francia occupata dai nazisti e dagli odiosi collaborazionisti, si opponeva, con tutte le sue forze, al buio del suo tempo, cioè incarnava attraverso il suo straordinario modello (come per esempio quello di andare in giro per Parigi, vestito in maniera eccentrica, «come un fantastico clochard» [24], senza indossare la stella gialla) una legge morale indipendente da qualsiasi nozione di «bene prestabilito» e, paradossalmente, viveva libero da qualsiasi inclinazione umana che tende al mero «istinto» di sopravvivenza. Cioran ricorda ancora il panico che provava alla vista di Fondane quando lo incontrava per le vie di Parigi: «Ogni volta che lo vedevo per strada, vestito come gli altri (senza la stella di David), mi chiedevo cosa avrei potuto fare». [25]
Fondane anche se «era decisamente un uomo tormentato, troppo lucido e pieno di sofferenza» [26], «aveva superato la condizione umana» [27], «faceva parte di questa categoria di uomini che superano se stessi». [28] Cioran definisce così il fondamento inquietante dell’etica del reale di Fondane il quale non accettava alcun tipo di compromesso che potesse minimamente intaccare il suo assoluto desiderio di libertà. Tuttavia, l’ustionante incontro con il reale non è venuto a coincidere con lo stupore della persistenza spinoziana dell’essere, ma con l’orrenda contingenza storica degli eventi, cioè a seguito dell’ignobile delazione di un vicino di casa. Secondo Cioran, il suo amico «sarebbe stato denunciato» proprio «dal suo portinaio!». [29]
Negli Esercizi di ammirazione Cioran dedica a Fondane questo toccante ritratto, l’unico ad aver consegnato in maniera indelebile alla scrittura: «Il volto più solcato, più scavato che ci si possa immaginare, un volto dalle rughe millenarie ma in nessun modo irrigidite perché animate dal tormento più contagioso ed esplosivo. Non mi saziavo di contemplarle. Mai avevo veduti prima un tale accordo tra l’apparire e il dire tra la fisionomia e la parola. Mi è impossibile pensare alla minima frase di Fondane senza percepire immediatamente la presenza imperiosa dei suoi tratti.
Andavo spesso a trovarlo (lo conobbi durante l’Occupazione), sempre con l’idea di restare da lui solo un’ora e vi trascorrevo il pomeriggio, per colpa mia beninteso, ma anche sua: adorava parlare e io non avevo il coraggio e ancora meno il desiderio di interrompere un monologo che mi lasciava esausto e rapito. Fui tuttavia io ad essere inesauribile quando gli feci la mia prima visita, con l’intenzione di porgli alcune domande su Šestov. […] Non è forse inutile segnalare qui che Šestov era molto conosciuto in Romania fra le due guerre e i suoi libri vi erano letti con più fervore che altrove. Fondane non vi aveva avuto nessuna parte e fu molto sorpreso quando seppe che, nel paese da cui proveniva, noi avevamo seguito il suo stesso percorso... Non vi era, in questo, qualcosa di sconcertante e molto più che una semplice coincidenza? Più d’uno dei lettori del suo Baudelaire è stato colpito dal capitolo sulla noia. Per quanto mi riguarda, ho sempre messo in rapporto la sua predilezione per questo tema e le sue origini moldave. Paradiso della nevrastenia, la Moldavia è una provincia di un fascino desolato letteralmente insostenibile. […] Fondane citava volentieri versi di Bacovia, il poeta della noia moldava, noia meno raffinata ma assai più corrosiva dello “spleen”. È per me un enigma che tanti riescano a non morirne. L’esperienza del “baratro” ha, lo si vede, origini lontane». [30]
Espressione della noia e dell’assurdo dell’esistenza, anche nei termini della denuncia della crudeltà provocata dagli aberranti programmi sociali e politici a sfondo antisemita che durante la sua vita Fondane ha dovuto subire, L’expérience du gouffre, secondo Cioran, ha comunque «origini lontane», e queste origini non sono senza rapporto con la provincia moldava dal «fascino desolato», con l’«insostenibile» terra del cuore del poeta.
Fundoianu era figlio di Isaac Wechsler, commerciante e proprietario di una piccola fabbrica, il quale amministrava la tenuta agricola di Fundoaia, vicino a Herţa. Sulla base di questo toponimo, il giovane Benjamin Wechsler troverà il suo nom de plume: Fundoianu. [31]
La madre Adela, proveniente da una famiglia di intellettuali, era figlia di Benjamin Schwarzfeld, piccolo commerciante e poeta che faceva parte del movimento illuminista ebraico Haskala, il quale possedeva un’importante biblioteca che erediterà poi il nipote. Oltre ad Adela, Benjamin Schwarzfeld ebbe tre figli maschi che hanno rappresentato nel tempo l’élite culturale ebraica della Moldavia: Wilhem Schwarzfeld, filologo e storico; Moses Schwarzfeld, direttore di giornale, traduttore e studioso di folklore e Elias Schwarzfeld che, dopo aver pubblicato a Bucarest un volume dal titolo sulla Storia degli ebrei (1914), sarà esule politico in Francia morendo sul fronte nel 1915 durante la prima guerra mondiale.
Adela, donna molto colta, dopo la morte del marito avvenuta nel 1917 all’età di 52 anni, desiderò per il figlio Benjamin una carriera artistica e intellettuale nel mondo culturale che conta, e fece in modo che il figlio non si scostasse troppo dalla tradizione familiare. Dopo il liceo e avendo interrotto gli studi di Diritto all’Università di Iaşi, il giovane Wechsler si trasferisce a Bucarest, fondando nel 1922 il teatro di avanguardia Insula, insieme alla sorella attrice Lina, al marito attore e regista Armand Pascal, e a George Ciprian, attore e poi drammaturgo molto noto in Romania. Un anno dopo, Insula fallisce non solo per problemi di ordine finanziario, ma soprattutto per la progressiva diffusione nella capitale romena di un clima antisemita. Questo evento, però, non impedisce a Fundoianu di continuare a scrivere le sue poesie a Bucarest – come già aveva fatto a Iaşi, firmandosi con il nome Fundoianu al suo debutto letterario sulla rivista «Valuri» nel 1914 – e a collaborare con numerosissime riviste nazionali ed ebraiche. Ad ogni modo, lo scrittore abbandona la Romania a partire dagli anni venti «perché non voleva più vivere in una piccola colonia francese», ma preferiva direttamente «trasferirsi nella metropoli». Solo in seguito incontrò Šestov e diventò «suo amico e fondamentale interlocutore». [32]
Una volta stabilitosi a Parigi, Fundoianu continuerà a dialogare in patria con Ion Vinea e Marcel Iancu, amici e corrispondenti di Tzara, che dirigevano la rivista «Contimporanul», e spedirà molte lettere ad altri esponenti delle avanguardie, anche durante gli anni ’30, intervenendo con numerosi contributi pubblicati nelle riviste romene moderniste. Si incaricherà personalmente di far conoscere in Romania gli scrittori francesi più rappresentativi delle nuove tendenze dell’arte e della poesia, di esserne il «messaggero». [33]
Vedute, il congedo definitivo di Fondane dalla lingua romena
In tale contesto va inserita la decisione del poeta, maturata in Francia nel 1930, di consegnare alle stampe romene la raccolta di poesie, Privelişti (Vedute), i cui testi per la maggior parte «rielaborati», erano apparsi sulle varie riviste di Iaşi e di Bucarest tra il 1917 e il 1923. [34] Il volume segna il congedo definitivo dell’autore dalla lingua romena. La pubblicazione del libro, accompagnato da un suo ritratto fatto da Brâncuşi, è da intendersi come una sorta di après coup testuale in cui il poeta comunica ai suoi lettori di Romania non solo il suo «viraggio» intellettuale e poetologico nella direzione indicata da Rimbaud e Baudelaire, ma sembra voler anche denunciare pubblicamente, seppure in maniera allusiva, la pericolosa deriva ideologica totalitaria e liberticida che si stava progressivamente abbattendo sul paese, soprattutto nel campo specifico dell’arte. Significativi in questo senso sono i due testi introduttivi che accompagnano questa raccolta di versi. Il primo è la dedica rivolta a Ion Minulescu, importante poeta di ispirazione simbolista, figura fondamentale per l’autore che l’aveva sostenuto nella sua vocazione poetica sin dagli esordi. In questa breve testimonianza, Fundoianu manifesta tutta la sua riconoscenza a Minulescu anche se nella formulazione della dedica, come ha acutamente notato Mircea Martin, l’autore sembra insinuare «una stranezza, uno stridore, una nota inaspettata ed equivoca» che ridimensiona «l’esclusività del suo apprezzamento» nei confronti nell’amico. [35] L’altro documento, ancora più interessante, è la prefazione a Privelişti dedicata a Claude Sernet, poeta avanguardista, amico e traduttore di Tzara, dal titolo polemico Parole selvagge. Qui l’autore delinea chiaramente il contesto dei suoi poemi: «Questa poesia è nata nel 1917, al tempo della guerra, in una Moldavia piccola quanto una noce, in una crescita febbrile di distruzione. Niente di ciò che costituisce la materia prima di questo lirismo c’è più nella realtà. Il poeta guardava scorrere dai vetri le armate grigie e i tamburi battenti la morte; egli immaginava un universo pacifico in cui creava, inventava, oggi vedute di campi arati, domani l’esaltazione mistica della morte nel pane. La sua poesia descrittiva si giustifica soprattutto per il fatto che questa descrizione non aveva un modello reale, ma nasceva dalle tenebre della mente, come un’intima protesta contro il paesaggio meccanico dei proiettili, del filo spinato, dei carri armati. La natura, nei suoi poemi, sembrava elevarsi alla più grande potenza». [36]
Poco prima, in questa prosa, Fundoianu aveva precisato l’adozione di un punto di vista «impersonale» e postumo,segnalato dal singolare uso della terza persona: «Il presente volume appartiene a un poeta morto nel 1923 all’età di 24 anni. Da allora la sua traccia si perde nel continente. Coloro che l’hanno visto da qualche parte, in uno “studio” cinematografico o nell’ufficio di assicurazioni, hanno incontrato un uomo freddo e insensibile all’attività che stava svolgendo e non mostrava alcuna lacrima nello sguardo in merito al suo passato e all’energia che aveva profuso per la ricerca di un significato». [37]
Più avanti, in questo stesso documento, si legge che «quel poeta» è definitivamente «morto» oppure è stato «assassinato secondo tutte le regole dell’arte», dopo aver attraversato «una lunga uremia mentale» in cui aveva osservato che la sua «volontà di realizzare e quella di essere» si erano impegnate in «una dura lotta» come «nei famosi combattimenti dei galli». [38] Il richiamo è qui allusivo, e si riferisce non solo a Rimbaud [39] di cui si sta appassionatamente occupando, ma anche ai personaggi inumani di Urmuz che nelle Pagine bizzarre [40] lottano crudelmente e assurdamente per un riconoscimento di puro prestigio. Fondane afferma: «Sono sopravvissuto a colui che è caduto con la bocca per terra. Non è ancora venuto il momento di decidere se sono il morto o l’assassino». [41]
Molto verosimilmente, l’autore di queste Parole selvagge – che a Parigi sta scrivendo la sua monografia Rimbaud le voyou et l’expérience poétique (che vedrà la luce editoriale nel 1933) – sottolinea, attraverso il duplice riferimento criptico a Urmuz e a Rimbaud, che è impossibile abolire le antinomie della vita e del pensiero a partire dalla dialettica hegeliana. Non si tratta di levare tutte le contraddizioni e di risolverle attraverso una «negazione della negazione», perché è proprio l’esistenza del mondo sociale che si pone ad ostacolo di questo «miracolo». Pertanto il reale assurdo è il solo reale, e si tratta fondamentalmente della fine del mondo sociale che avanza. «Se il mondo è dato nella contraddizione, è dalla contraddizione sola che attenderà la soluzione dell’enigma». [42]
Viene così a crollare, polemicamente, l’idea secondo cui la poesia sia la tradizionale depositaria del «Vero»; proprio nel preciso momento storico in cui le pulsioni xenofobe e antisemite si stanno facendo sempre più sentire nel corpo sociale del suo paese d’origine, e la stessa poesia – praticata da alcune élites intellettuali emergenti – sembra veicolare un falso ed inquietante ideale estetico a valenza per lo più mitica e nazionale, che va contro qualsiasi istanza di «Progresso» e di «Civiltà» universalmente condivisa. Ecco la testimonianza sconvolgente di Fondane:
«Poesia! Quanta speranza ho riposto in te! Quanta cieca certezza, quanto messianismo! Ho creduto veramente che tu potessi liberare e rispondere là dove la metafisica e la morale avevano da lungo tempo serrato i battenti. Ti credevo il solo e valido metodo di conoscenza, l’unica ragione per l’essere di perdurare nell’essere. Con una lente d’ingrandimento negli occhi osservavo attentamente nel poema le mille rivoluzioni, le mille aberrazioni stellari. Solamente nel poema, il mondo irreale, che attraversiamo come fantasmi, sembrava prendere forma, divenire materia viva. Solamente nel poema, frutto di prolungati calcoli e di azzardo, il caso si riassorbiva come un filo in una piaga. L’uomo si spogliava del caso, del capriccio, della generazione spontanea e proiettava fuori di sé un mondo visto sub specie aeterni. Il paradiso terrestre era nell’idea. L’idea era il centro e il nocciolo del poema. A quel tempo ero nudo e non lo sapevo. […] Ho mangiato il frutto dell’albero proibito e immediatamente ho visto che ero nudo, che il Bello non era meno menzognero del Vero, del Bene, del Progresso e della Civiltà. Le parole all’improvviso mi hanno abbandonato, nella notte ho iniziato a urlare senza parole. Ero divenuto cieco con una lanterna in mano. Bruscamente ho capito che il mio paradiso terrestre con buoi, abbondanza, sterco era una menzogna; e menzogna il poema ovunque si fosse trovato. Menzogna Hugo, Goethe! Menzogna serafica Eminescu! Solo con Baudelaire e Rimbaud iniziava un barlume di verità. Di fronte a certe leggi che fin dalla nascita ci circoncidono, di fronte all’Evidenza con gli occhi bendati, di fronte al destino, il poema consegnava solo un alibi». [43]
Il «messaggio» di Fondane, che può apparire a prima vista severamente critico nei confronti delle sue stesse Vedute, è in realtà cifrato e conserva il segreto, l’ambiguità, la provocazione dell’enigma. Infatti, anche Cioran rivela nel suo portrait questo dettaglio significativo a proposito dell’autore di Privelişti: «In verità, [Fondane] non si interessava tanto a ciò che un autore dice quanto a ciò che avrebbe potuto dire, a ciò che nasconde». [44]
Per Fondane – come lo sarà ancor più radicalmente per Paul Celan il quale probabilmente mediterà a lungo le Parole selvagge in occasione della tormentata composizione del suo Der Meridian – il poema, sin dall’«origine», è solidale con la verità perché si rivolge all’altro, all’altrove. Il solo «alibi»(inteso etimologicamente con il significato di «altrove») che il poema reca con sé e in sé, va, secondo Fondane, contro qualsiasi forma di «sotterfugio», di «doppio gioco», il quale è stato unicamente imposto dalla «menzogna» di una certa arte dominante ancorata alla «preistoria» del mito nazionale e a tutte le sue aberrazioni identitarie. Quel «filo» fondaniano riassorbito «in una piaga» non desidera più piegarsi, secondo Celan, dinnanzi ai cavalli «di parata della storia», ma a quel «filo» deve necessariamente corrispondere «un atto di libertà». È «un passo» di senso nell’assurdo del non senso, che il poema afferma di fronte a sé stesso alla soglia di sé stesso, nominando «un’origine e una destinazione». Il poema «solitario e in cammino» conduce «dentro il mistero dell’incontro», e diventa «colloquio» con l’Altro, «spesso disperato», nello «spazio aperto e vuoto» di un altrove che Fondane aveva già indicato nel 1930, in modo più o meno criptico e cifrato, nelle Parole selvagge. [45]
Le parole di Fondane si sono come incise nella memoria di Celan e hanno sfolgorato, dopo l’eccidio del popolo ebraico, in uno splendore di cenere. [46] Da questo punto di vista il volume Privelişti di Fundoianu-Fondane è uno sguardo che si dà a vedere, è un pensiero poetante da ascoltare con la massima attenzione, benevolenza e concentrazione. Non è una semplice descrizione poetico-paesaggistica di un personale «paradiso terrestre con buoi, abbondanza, sterco» o una visione collegata alla dimensione del possesso e dell’idealizzazione narcisistica determinata dalla mitica «Caduta» nelle «tenebre della mente». Ma si tratta di ben altro, come ha saputo indicare Cioran.
Cioran sulla comunanza tra Celan e Fondane
Infatti, Cioran è stato il primo a riconoscere che Celan e Fondane avevano «qualcosa in comune. Provenivano quasi dalla stessa area geografica della Romania: la Bucovina e la Moldavia sono province confinanti. Entrambi erano poeti ebrei ed entrambi avevano una curiosità intellettuale che non è assolutamente usuale in un poeta». [47] Tuttavia, aggiunge Cioran, «come uomini, erano molto diversi. Fondane aveva una presenza imponente, tutto si animava intorno a lui; eravamo molto lieti nel sentirlo parlare. Con Celan si avvertiva un certo disagio». [48] Celan «era così suscettibile, così vulnerabile: ogni cosa lo feriva […]. Era un uomo ferito, nel senso metafisico e psicologico della parola». [49] Per Cioran, essere poeta significa essere legato indissolubilmente alla propria lingua di origine, e ciò riguarda soprattutto la poesia, «perché è impossibile – come dichiara radicalmente Cioran – scrivere una vera poesia in una lingua che non sia quella materna. Essere poeta non è affatto una scelta, la poesia si fa soltanto con parole innate, inconsce. Una seconda lingua resterà sempre una lingua conscia, qualcosa di esteriore. Ma la poesia è sempre sotterranea». [50] In tal senso per Cioran, Fundoianu è realmente poeta solo nella lingua romena. Fondane «non è un poeta francese. Non è considerato un poeta francese dai Francesi, e non lo è». [51]
Da questo punto di vista, quando Cioran affermava nella Trasfigurazione della Romania che il popolo ebraico è il «solo popolo che non si senta legato al paesaggio» ciò sta a indicare retroattivamente che il giovane filosofo era uno dei pochi e attenti lettori in Romania che si era reso realmente conto della «novità» del volume di Fundoianu nell’ambito della tradizione nazionale della poesia romena di tipo paesaggistico. Infatti, nel volume Vedute, il discorso poetico di Fundoianu va in direzione opposta a quello del tradizionalismo paesaggistico di tipo nazionale, come quello di Coşbuc, Goga o dello stesso Blaga, che Cioran conosceva bene. La poesia di Fondane è insensibile, per esempio rispetto alla poesia di Blaga, all’influsso metafisico che affiora dalla cornice rurale o dalla matrice mitica di uno «Spazio mioritico», espressione di un orizzonte spaziale inconscio con accenti spirituali specifici dell’arte e della poesia popolare romena. [52] Le Vedute di Fundoianu sono solo all’apparenza agresti o bucoliche, ma non sono legate al paesaggio moldavo o romeno in senso realistico e descrittivo. In questo senso Cioran con la sua boutade sul popolo ebraico in Schimbarea la faţă coglie un aspetto molto singolare della poesia di Fundoianu. Infatti, le Privelişti fanno emergere, per lo più, uno stato di angoscia senza nome, di calamità, di desolazione, di noia e tristezza profonda, che poco si coniuga con l’identificazione al paesaggio «ondulato» di tipo rurale, «armonioso» che si esaurisce nella «solennità» o nella «bellezza» tradizionalmente salvaguardate dall’impronta mitica e dal sigillo naturale del genius loci della Romania. Se ne I poemi della luce «Blaga irrompe con una “visione dinamica”, costruita attentamente con l’imposizione di un vitalismo astratto, essendo questa visione conseguente all’emanazione volontaristica di un Io dilatato in modo arbitrario e ampliato a dimensioni cosmiche» [53], Fondane si oppone all’«imperativo categorico» del manifestarsi di un io poetico nietzschianamente dionisiaco o panteistico. In Privelişti non si assiste come in Blaga all’«esplosione primigenia di un io dittatoriale, che comanda tutto e si impone come fattore determinante nel rapporto stabilito col cosmo». [54] L’io poetico di Fundoianu non si impone, ma si espone come in una preghiera che richiede attenzione, meditazione e concentrazione. Il poeta canta biblicamente la solitudine e lo spaesamento all’interno della cornice di un paesaggio romeno fatto di terra nera, boschi, bisonti o bufali moldavi e luci al crepuscolo. La voce «ebraica» di Fundoianu è un richiamo alla memoria e alla devozione per un paesaggio completamente interiorizzato. Non è lo spazio ondulato percettivamente riconoscibile della Romania. Queste Vedute esprimono fondamentalmente la solitudine, la devastazione, la catastrofe imminente e cercano di convertire il sentire dell’io alle proprie radici e origini culturali dell’ebraismo chassidico.
Privelişti è uno sguardo etico che si dà a vedere, cioè una veduta del tutto singolare, uno scorcio di paesaggio, che entra in dialogo con la parola e si lascia da sempre ascoltare. [55] Le Vedute di Fundoianu si lasciano guardare ed ascoltare a partire da certe tonalità emotive fondamentali, proprio a partire dal corpo pulsionale e simbolico della parola. Per cui, mentre il modello tradizionalista si limitava a descrivere la natura del paesaggio, Fundoianu interpreta la stessa inventandola, creandola nuovamente, ossia ri-scrivendola a partire da certi frammenti di rappresentazione che possono essere ri-simbolizzati per meglio riannodare l’immaginario con il reale insostenibile. Come scrive Spinoza nell’Etica: «Nella Natura non vi è nulla di contingente, ma tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina Natura ad esistere e a operare». [56]
In tal senso, per riguadagnare poeticamente l’incanto e l’antico stupore proveniente dalla Natura naturans, si è trattato per Fundoianu di liberare l’orizzonte del paesaggio natio a partire dal quale ciò che è stato distrutto nel disastro contingente della guerra possa infine apparire nella sua originale e primigenia grandezza. Imparare a leggere nel paesaggio i segni lasciati dalla noia profonda, dalla tristezza moldava, e anche dall’eros derivato dalla frequentazione assidua del Cantico dei Cantici,significa per il poeta liberare l’originalità di un domandare e di un interrogare ciò che è degno di essere posto in questione. La lezione dell’Ecclesiaste e di Giobbe si trova sempre come sfumata sullo sfondo di queste poesie. Le principali composizioni poetiche di Fundoianu si presentano spesso come momento di raccoglimento e seguono i ritmi sommessi della memoria cercando di proiettare, e riflettere nelle immagini, le proprie esperienze nel contesto più ampio della vita del popolo del Libro con i suoi umili riti e semplici oggetti. Prestando attenzione ai «dati» paesaggistici, Fundoianu occulta, nella forma prosodica di un alessandrino musicalmente «sordo e sdrucito», una perdita dolorosa. Il raccoglimento e il ricordo mantengono il potere orfico e dionisiaco di evocare per magia il mondo dei «morti», di ridare vita a «scorci», «dettagli», «profili» calati in una natura completamente allucinata e miracolosa. In tal luogo, la poesia del ricordo, velato dal lutto, diventa preghiera ed invocazione, richiesta di pace e di riscatto. I componimenti di Fundoianu nominano località geografiche della regione natale; mostrano presenze naturali, come boschi, fiumi, alberi o animali; rievocano anche momenti della vita familiare di tutti i giorni e scene intramondane come il lavoro dei campi, l’aratura, la vendemmia, la caccia, le passeggiate sui monti tra le rocce. I contatti, che la poesia di Fundoianu tenta di ripristinare, hanno luogo all’imbrunire o all’alba, in una luce nera e rossastra per lo più autunnale, ma non mancano le rappresentazioni delle altre stagioni come l’estate, i colori della primavera e il freddo dell’inverno con immagini di neve e di gelo. Il tempo è come un tutto, come un’apertura infinita, in quanto attualizzazione di uno stato di cose esperibile solo come effetto di un evento inconoscibile.
In questo movimento di rammemorazione e di cordoglio del poeta, alcuni di questi componimenti, che spesso invitano apertamente a guardare, confermano il carattere dialogico e il suo situarsi in uno sguardo crepuscolare di rêverie, fantasie, segnato dall’ombra di una catastrofe incombente o da sempre avvenuta. La memoria è guidata dalla convinzione che solo nello spazio del poema il grido strozzato di dolore possa ricevere rispetto, pace e attenzione. [57] La poesia segue «il filo» dei ricordi, e la «piaga» è il luogo in cui l’Io presta attenzione a quell’altrove (l’«alibi»), essa si pone al suo servizio, come se proprio quella veduta cui si dà all’ascolto possa infine rendere veramente giustizia.
È una poesia meditativa, una contemplazione del vuoto, dell’assenza, del deserto, della desolazione. In romeno questo luogo è indicato da Fundoianu con una parola d’origine slava: pustiu. Normalmente nella lingua romena pustiu designa una regione selvaggia, priva di vegetazione e di uomini, in genere sabbiosa e pianeggiante, ma generalmente maledetta perché sembra annunciare la morte. Questo pustiu è per Fundoianu uno spazio misterioso che non si profila solo come un nulla negativo che distrugge tutto ciò che incontra, che lo svuota o lo desertifica, ma si mostra come una potenza che custodisce l’origine della creazione. Questo luogo, detto pustiu, in cui prevale il niente, il vuoto, «la vacanza» diventa l’espressione metaforica dell’azione misteriosa della «Parola» nel creato, e rivela la sua «presenza» secondo i modi tipici di una segreta onnipotenza creatrice che punta alla rinascita e rigenerazione del mondo tramite la forza performativa della poesia.
Si tratta di una via «profana», quella percorsa e stabilita dalle Vedute, che privilegia la concentrazione e l’attenzione dell’Io senza provare a risolverle né nella chiusura della tensione dialogica, né nel concetto astratto d’impronta filosofica, e neppure in una unione mistica di stampo religioso. Quest’evento inconoscibile, che si produce in uno spazio misterioso del paesaggio desolato, spinge il poeta alla lotta interiore, all’impegno per la testimonianza, a serbare il contatto con ciò che richiede di essere visto, a non trascurare le cose, ma a vederle come sono, a non domandare altro se non il vederle. Dunque, il mandato del poeta nelle Vedute non è solo quello di essere il testimone del mondo, ma di essere responsabile del mondo per come «veramente» è.
Il destino di Fondane assillerà Cioran per tutta la sua vita. L’attrazione per la catastrofe, lo splendore sfolgorante della sua figura, il suo misterioso desiderio di libertà, così seducente da avvicinarlo alla lucentezza tenebrosa di Antigone durante gli anni orribili della guerra, porteranno indubbiamente Cioran, in un certo modo, a «invidiarlo», nel paradosso segretamente tragico di questa amicizia, per aver avuto un «destino». E non sarà forse solo un caso se nel testo mandato a Mincu, per celebrare Eminescu in Italia, Cioran, a proposito de La preghiera di un Daco, si fosse pronunciato con queste parole: «Negli accessi di disperazione il solo ricorso salutare è l’appello a una disperazione ancora più grande. Non essendo ragionevole alcuna consolazione, bisogna aggrapparsi a una vertigine che rivaleggi con la vostra, che persino la superi. La superiorità che ha la negazione su ogni forma di fede scoppia nei momenti in cui la voglia di farla finita è particolarmente potente. […] Una tale apoteosi negativa non poteva avere un senso se non fosse emanata da una vitalità intatta, da una pienezza che si rivolge contro se stessa. [….] Eminescu ha capito tutto questo sin dall’inizio: la sua preghiera, la più chiaroveggente, la più impietosa che sia mai stata scritta, è là per provarlo». [58]
Forse, quando Cioran scriveva queste vibranti parole, a proposito de La Preghiera di un Daco di Eminescu, intrise di gnosticismo balcanico, pensava a Il Salmo del lebbroso del suo amico Fondane. Ovid S. Crohmălniceanu – un amico di Paul Celan che fu determinante in Romania per la pubblicazione de Il Tango della Morte di Paul Celan nel 1947 (cioè la traduzione romena di Todestango che rappresenta la prima versione della celeberrima Todesfuge) –, ricorda che Cioran aveva cercato di convincere un alto ufficiale rappresentante delle autorità collaborazioniste francesi a liberare Fondane dicendogli che «Fondane era un grande poeta romeno che […] stava lavorando ad una traduzione di Eminescu, […] e che la sua deportazione avrebbe colpito la Romania, in quel frangente alleata dell’Asse». [59] Cioran «sapeva di mentire», come afferma Crohmălniceanu, perché Fondane non stava lavorando a Eminescu a quel tempo, ma in questa «menzogna» si rivelava un frammento di verità soggettiva dello stesso Cioran – il quale realmente stava «traducendo» in francese Rugăciunea unui Dac di Eminescu.
Nel 1943 Cioran, accomunando Fondane a Eminescu, scriveva: «Eminescu ha vissuto nell’invocazione del non essere. E questa invocazione si dispiega tra una sensazione materiale, che è il freddo della vita, e una sorta di preghiera, che ne è il compimento, la realizzazione. La Preghiera di un Daco, uno dei poemi più disperati di tutte le letterature, è un inno all’annullamento». [60] Infatti, ne Il Salmo del lebbroso – che ha alcuni punti di contatto con La Preghiera di un Daco di Eminescu e con la Todesfuge di Paul Celan – Fondane ripropone il tema della teodicea giobbica in cui prende campo la «presenza» di una sorta di «preghiera di richiesta» o «supplica invocativa», ove risuona l’antica domanda biblica sul senso della sofferenza del giusto e sulla giustificazione del male nel mondo. È una domanda, quella di Fondane, in cui si intreccia la poesia con la preghiera. [61] Queste forme allocutive della preghiera «ebraica», rivolte a un «tu» che rimane in silenzio, intendono tradursi in parola, richiedendo così al poema, per dirla con le parole di Paul Celan, una sorta di «attenzione dell’anima». Solo all’apparenza Il Salmo del lebbroso si manifesta come una parodia della preghiera con intenti distruttivi e blasfemi, che rasentano il nichilismo gnostico e disperante di Eminescu, ma forse si tratta del riconoscimento del mistero abissale che circonda la parola dell’Altro, il totalmente Altro, il cui manifestarsi terrifico e numinoso si ritrae nell’abisso misterioso del «nulla», del «non essere», seguendo le vie infinite del silenzio, dell’impegno nella testimonianza, dell’attenzione e della benevolenza, in attesa di poter ricevere consolazione, riscatto e giustizia.
Questo è il dono della parola e dell’amicizia a partire da uno spazio condiviso a più voci nella comune terra del cuore. Questo è il mondo della creazione e della testimonianza attraverso la poesia e il pensiero. Questa è anche l’eredità ebraico-moldava che Fondane è stato in grado di trasmettere a Cioran dopo la cesura di Auschwitz: un avvenire, un orizzonte linguistico e di pensiero rinnovato dove andare, la possibilità di desiderare ancora, come movimento di raggiungimento di una nuova lingua, soggettivando il debito contratto con un fondo tanto mitico quanto ancestrale, in vista di una transizione finale, in vista cioè di un «nulla» detto in un’altra lingua e in un altro orizzonte aperto alle nuove esigenze del pensiero.
Giovanni Rotiroti
(n. 12, dicembre 2014, anno IV)
NOTE
1. E. Cioran, Parisul provincial, in «Vremea», n. 581, 8 dicembre 1940, p. 3.
2. Id., Sulla Francia, cura e traduzione di Giovanni Rotiroti, Roma, Voland, 2014, p. 23.
3. Id., Les secrets de l’âme roumaine. Le «dor» ou la nostalgie, in Exercices négatifs, a cura di Ingrid Astier, Paris, Gallimard, 2005, p. 120.
4. Id., Sulla Francia, cit., pp. 70-71.
5. Cfr. Marta Petreu, Cioran sau un trecut deocheat, Bucarest, Polirom, 2011, pp. 190-212.
6. E. Cioran, Scrisori către cei de-acasă, Bucarest, Humanitas, 1995, p. 17.
7. Id., Il Nulla. Lettere a Marin Mincu (1987-1989), a cura e traduzione di Giovanni Rotiroti, postfazione di Mircea Ţuglea (traduzione di Irma Carannante), appendice di Antonio Di Gennaro, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2014, pp. 53-55.
8. Id., Sulla Francia, cit., p. 56.
9. Cfr. L. Volovici, Epilogul unei prietenii, «Apostrof», Cluj, 7-8, 2001, p. 24.
10. E. Cioran, Al di là della filosofia. Conversazioni su Benjamin Fondane, a cura di Antonio Di Gennaro, traduzione di Irma Carannante, Postfazione di Giovanni Rotiroti, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 25.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ivi, p. 67.
14. Ivi, pp. 67-68.
15. Ivi, p. 68.
16. Ibidem.
17. Ivi, p. 70.
18. Id., Nae Ionescu si drama lucidităţii, in «Vremea», anno X, n. 490, 6 giugno 1937, p. 4.
19. Cfr. G. Rotiroti, Il demone della lucidità. Il «caso Cioran» tra psicanalisi e filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 67-74.
20. E. Cioran, Al di là della filosofia, cit., p. 56.
21. Ivi, p. 72.
22. Ivi, p. 55.
23. Ivi, pp. 55-56.
24. Ivi, p. 41.
25. Ivi, p. 58.
26. Ivi, p. 63.
27. Ivi, p. 58.
28. Ibidem.
29. Id., Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, traduzione di Mario Andrea Rigoni, Milano, Adelphi, 1988, p. 165.
30. Ivi, pp. 163-165.
31. Nella cifra leggibile e insieme illeggibile di questo nome-luogo geografico, il poeta sembra indicare la «via maestra» del sogno che, a partire dal magistero di Freud e di Urmuz, conduce dalla «terra del cuore» (Herţa risuona poeticamente nel tedesco Herz, ma anche herzen, herzlich) direttamente al «fondo misterioso» (Fundoaia proviene dal latino fundus) della mappa affettiva dei suoi più inconfessabili desideri. Come si legge incastonato nel corpo del poema intitolato E ziua cea din urmă … (È l’ultimo giorno …): şoseaua duce numai din Herţa la Fundoaia (la via maestra conduce solo da Herţa a Fundoaia). Herţa, situata nel nord della Moldavia, attualmente in Ucraina, era la località in cui il giovane Fundoianu trascorreva le vacanze estive presso i nonni paterni.
32. Cfr. N. Manea, H. Stein, Conversazioni in esilio,Milano, il Saggiatore, 2012, pp.115-116.
33. Cfr. Iubite Fondane… Scrisori inedite, a cura di M. Carassou e P. Răileanu, Bucarest, Editura Vinea, 1998.
34. Come testimonia la pregevole edizione critico-filologica delle poesie di B. Fundoianu, Opere I, Poezia antumă, a cura di P. Daniel, G. Zarafu e M. Martin, prefazione di M. Martin, postfazione di I. Pop, scheda critico-bibliografica di R. Sorescu, Bucarest, Editura Art, 2011.
35. M. Martin, Priveliştile, dedicaţia şi prefaţa, in «Vatra», 1-2010, p. 41.
36. B. Fondane Fundoianu, Vedute, a cura di Giovanni Rotiroti e Irma Carannante, Traduzione e note di Irma Carannante, Novi Ligure (AL), Edizioni Joker, 2014, p. 7.
37. Ibidem.
38. Ibidem.
39. Cfr. M. Martin, La poesia di Fundoianu vista da Benjamin Fondane, in «Humanitas», Anno LXVII, n. 2, Marzo-Aprile 2012, pp. 195-202.
40. Raccolte da poco, e pubblicate per lo più postume nel 1930 da Saşa Pană presso la casa editrice avanguardista unu.
41. B. Fondane Fundoianu, Vedute, cit., p. 7.
42. Cfr. B. Fondane, Rimbaud la canaglia, a cura di G. L. Spadoni, Roma, le nubi edizioni, 2007, p. 162-163.
43. Benjamin Fondane Fundoianu, Vedute, cit., p. 9.
44. E. M. Cioran, Esercizi di ammirazione, cit., p. 166.
45. Cfr. P. Celan, Il meridiano, in Id., La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, a cura di G. Bevilacqua, Torino, Einaudi, 1993, pp. 3-22.
46. Si vedano, da un altro punto di vista, N. Manea, Al di là della montagna. Paul Celan e Benjamin Fondane, dialoghi postumi, Milano, il Saggiatore, 2012 e alcuni saggi di G. Vanhèse di cui si ricorda in particolare, «La neige tragique», in Cahiers Benjamin Fondane, n. 7, 2004.
47. E. Cioran, Al di là della filosofia,cit., p. 26.
48. Ibidem.
49. Ibidem.
50. Ivi, p. 31.
51. Ibidem.
52. Cfr. L. Blaga, Lo spazio mioritico, a cura di M. Cugno, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1994.
53. M. Mincu, Introduzione, in L. Blaga, a cura di M. Mincu e S. Albisani, Milano, Garzanti, 1989, p. 15.
54. Ivi, p. 16.
55. Come scrive Mircea Martin nella sua «introduzione» a Privelişti: «La parola Privelişti (Vedute) designa simultaneamente il paesaggio e lo sguardo che lo contempla, l’oggetto e il soggetto dello sguardo. Presuppone una certa distanza – contemplativa? – da cui l’oggetto possa essere colto: si tratta di un oggetto grande e di uno sguardo panoramico. Il termine, di origine slava, esclude dalla sua area semantica la vista da vicino, miope, come anche qualsiasi percezione dissociativa, analitica, penetrante, focalizzante; al contrario, indica la larga veduta, avvolgente, avviluppante. Il fatto che l’oggetto dello sguardo non sia vicino, ma lontano, non significa che l’attitudine del soggetto di fronte a esso sia distante, distaccata, fredda, ma anzi essa risulta essere calda, attaccata, inglobante, ravvicinata. La lontananza spaziale è concomitante alla vicinanza affettiva. Una veduta è guardata, di solito, anche con gli occhi dell’anima». M. Martin, Prefaţă, in B. Fundoianu, Opere I, Poezia antumă, cit., p. 65.
56. Cfr. Proposizione XXIX di Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, Torino, UTET, 1988, pp. 112-113.
57. Questo aspetto della cultura ebraica, riguardante nello specifico la poesia di Paul Celan, è stato messo in rilievo d F. Camera, Paul Celan. Poesia e religione, Genova, il nuovo melangolo, 2003.
58. E. Cioran, Il Nulla, cit., pp. 57-59.
59. Citato da Antonio Di Gennaro in E. Cioran, Al di là della filosofia, cit., p 11.
60. E. M. Cioran, Exercices négatifs, cit., p.113.
61. Cfr. Giovanni Rotiroti, «Il Salmo del lebbroso» di Benjamin Fondane (traduzione di Irma Carannante), n. 4, aprile 2013. |
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