È di recente uscito il volume Julius Evola, Lettere a Mircea Eliade 1930-1954, a cura di Claudio Mutti (Controcorrente, Napoli 2011). Nel testo che qui pubblichiamo, il professor Giovanni Casadio, prefatore del libro, ci presenta la parabola dei rapporti culturali e umani tra due protagonisti della vita culturale del Novecento come Evola ed Eliade, «una "amicizia mancata" durata cinquant’anni».
In una lettera del 18 agosto 1974 al suo maestro italiano Ugo Bianchi (1922-1995), lo storico delle religioni romeno Ioan Petru Culianu (1950-1991) scrive:
“Consigliato da qualcuno, ho letto gran parte dell’opera di J. Evola, che ho trovato poco fondata scientificamente. Ho accennato alle differenze fra questa impostazione e quella di M. Eliade, mettendo in risalto che Eliade non si vuole un ‘campione del tradizionalismo’, come Evola o Guénon, mantenendo sempre sotto i piedi il terreno saldo dell’immagine storica”.
Il giudizio controverso di Ioan Petru Culianu
Il giudizio del giovane Culianu sulla “scientificità” dell’opera di Julius Evola (1898-1974) è sintomatico di un atteggiamento largamente diffuso nella cultura (o incultura?) accademica, un atteggiamento di cui farà le spese egli stesso a giudicare dalle critiche, di tenore non molto diverso, che pioveranno sulle sue opere, prima e dopo la morte. Gli studiosi di educazione storico-filologica di norma non sono disposti a riconoscere il valore “scientifico” d’intuizioni che rompono gli schemi dottrinali consueti e relegano nell’inferno del dilettantismo e dell’oscurantismo le interpretazioni che, pur basate su una documentazione esauriente e una discussione rigorosa delle fonti, operano una vera e propria “rottura di livello” (formula questa familiare sia ad Evola sia ad Eliade, e adottata, mutatis mutandis, dallo stesso Bianchi per definire il mistero della dimensione religiosa) sul piano dell’ermeneutica. È probabile che nella mente dell’esule romeno operasse anche l’intenzione malcelata di proteggere se stesso e il compatriota Eliade, sul quale si apprestava a scrivere alla fine di quello stesso anno la prima monografia in italiano (Ioan Petru Culianu, Mircea Eliade, Cittadella, Assisi 1978), da accostamenti scientificamente e politicamente sconvenienti; ma la prima evidenza che traspare da questa confessione privata è che anche a un lettore non conformista e perspicace come Culianu sfuggiva la rilevanza culturale e storiografica della lezione di Evola – come di altri adepti della Tradizione – per la configurazione del campo degli studi storico-religiosi.
Evola ed Eliade: un legame altalenante durato cinquant’anni
La parabola dei rapporti culturali e umani tra due protagonisti della vita culturale del Novecento come Evola ed Eliade è marcata da un’intesa cordiale nel suo stato nascente (alla fine del 1927, un anno prima di partire per l’India, il più giovane dei due legge e recensisce con entusiasmo un saggio di Evola, dopo di che cominciano i rapporti epistolari) e poi da un’incomprensione di fondo (su entrambi i fronti), man mano che le aperture giovanili cedono il campo alle amarezze spirituali e alle durezze dottrinali dell’età matura. La storia di questi rapporti è stata più volte trattata in una serie di lavori di alto livello e ha anche offerto il destro a una serie d’interventi firmati da studiosi molto autorevoli a livello internazionale, ma purtroppo quasi sempre contrassegnati da pregiudizio ideologico e insufficiente familiarità con la realtà delle fonti. Nonostante le intrinseche debolezze filologiche, questa produzione ha avuto il notevole merito di mettere al centro dell’attenzione del mercato culturale globalizzato i meriti (o i demeriti, secondo i punti di vista) del personaggio Evola, il più facile a essere discriminato dal punto di vista storiografico, per il fatto di scrivere in italiano, di operare al di fuori del mondo accademico ufficiale e di essere il banditore di una filosofia che si presta a una facile demonizzazione. “Oggi Evola resta una delle figure più enigmatiche, meno comprese e tuttavia più influenti negli studi accademici e nella politica dell’Europa moderna. Non solo è stato descritto come ‘il pensatore più importante della destra radicale neofascista revisionista’ e anche come ‘il guru della controcultura di destra’, ma è anche stato molto influente nello sviluppo della storia delle religioni” (corsivo nostro). A scrivere queste cose non è un fan della “cultura di destra”, ma Hugh B. Urban, uno degli storici delle religioni più prestigiosi tra gli esponenti della terza generazione della Scuola di Chicago (allievo di allievi di Mircea Eliade) e anche politicamente schierato nella sinistra radicale.
Le fonti che ci aiutano a ricostruire questa storia di una ‘amicizia mancata’ (come è stata giustamente definita da Ph. Baillet) durata cinquant’anni sono principalmente le menzioni nelle opere autobiografiche dei due (una sola, brevissima, nel caso di Evola; due, più dettagliate, nel caso di Eliade), le recensioni delle rispettive opere (più numerose, anche in questo caso, quelle di Eliade) e naturalmente le lettere preservate del carteggio, cioè esclusivamente quelle scritte da Evola ad Eliade in periodo di tempo che va dal 1930 alla rottura del 1963, di cui sedici sono presentate in traduzione italiana in questo libro. Inoltre, Evola è citato una sola volta in una lettera di Eliade ad un suo corrispondente, espressione del momento entusiastico; e parimenti Eliade è citato una sola volta in una lettera di Evola a un suo corrispondente, espressione questa del momento amaro, seguito alla rottura silenziosa del 1963.
Storia delle religioni, Interscambio e convergenza di idee
Sugli aspetti intellettuali, morali e psicologici della relazione tra questi due personaggi non comuni, sarà opportuno astenersi da ogni forma di giudizio basato su criteri ideologici o moralistici, fatalmente condizionati dalle inclinazioni personali. Sarà invece produttivo dal punto di vista storiografico fare il punto sull’interscambio e la convergenza delle idee tra i due per quello che riguarda il rispettivo apporto nel campo della storia delle religioni.
Circa la valutazione storico-religiosa dell’alchimia, ad Evola si deve un’opera fondamentale e pionieristica, La tradizione ermetica (I ed. 1931; II ed. riveduta 1948), ad Eliade due ricerche monografiche incisive e originali sull’alchimia asiatica (1935) e quella babilonese (1937) e infine una trattazione sistematica in Forgerons et alchimistes (I ed. 1956; II ed. riveduta 1977). Le convergenze (da intendersi principalmente come mutuazioni – consce o inconsce – da parte di Eliade di intuizioni ermeneutiche fondamentali di Evola) e le divergenze, col tempo sempre più radicali, tra le concezioni dei due sono state esaminate con singolare acribia da Paola Pisi e difficilmente si potrà andare oltre le sue calibrate conclusioni.
Analogamente al caso dell’alchimia, anche sul tema del tantrismo (induista e buddhista) e in genere della mistica indiana tre opere di Evola (L’uomo come potenza, del 1926, La dottrina del risveglio, del 1943 e Lo Yoga della potenza, del 1949) precedono, per poi intersecarsi con tre opere di Eliade (Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne, del 1936; Techniques du Yoga, del 1948; e Le Yoga. Immortalité et liberté, del 1954). E pure in questo caso si è insistito, da versanti ideologicamente opposti, sul debito del romeno nei confronti dell’italiano, sottolineando con non minore insistenza il fatto che Eliade raramente (solo nel volume del 1954, e proprio dopo le scherzose – ma non troppo – rampogne contenute nella lettera del dicembre 1951) cita le opere del collega. Al riguardo, conoscendo per esperienza diretta gli psicodrammi legati al problema delle omesse citazioni e le cabale accademiche che si creano in seguito a queste “disattenzioni”, mi asterrei da ogni processo alle intenzioni e da ogni conseguente “dietrologia”, scienza di “quello che sta dietro” e non a caso una specialità italiana. A mio parere Eliade, come Evola, era libero di citare chi voleva, quando voleva e come voleva: anche una non citazione manda un messaggio critico, ma esso non è decifrabile in base a teoremi pregiudiziali.
Nel caso degli studi sulla mistica indiana, l’apporto del primo Evola sembra evidente (anche se inconfessato), così come evidente (e confessato) è l’apporto del primo studio di Eliade sullo yoga (1936) al secondo studio di Evola sul tantra (1949). Manca però uno studio comparato accurato delle opere dei due relative al complesso tantrico, che verifichi echi o veri e propri influssi delle idee di Evola sulla visione eliadiana della mistica erotica indiana. In mancanza di questo accertamento filologico ogni ricostruzione si presenta come una speculazione selvaggia, che non dovrebbe essere spacciata per produzione scientifica e avere il riconoscimento del marchio accademico. Purtroppo non è così nel beato Paese che presiede alla globalizzazione del mercato culturale. In un libro di testo che è consigliato come “must reading” in tutti i dipartimenti di studi religiosi o orientali d’oltreoceano ed esaltato come un capolavoro di accuratezza filologica e sottigliezza ermeneutica, leggiamo quanto segue:
“In ogni discussione della concezione eliadiana del tantrismo dobbiamo affrontare la difficile e preoccupante questione che consiste nel domandarsi se la visione del tantra da parte di Eliade fosse una specie di cripto-fascismo, infettato dallo stesso tipo di ripugnanti interessi politici di destra come nel caso di Evola. …Come Wasserstrom, Strenski e altri hanno dimostrato, gli ideali reazionari e antimodernisti di Eliade furono portati avanti in molti modi nella sua produzione scientifica successiva alla stregua di un’ombra preoccupante che pervade e infesta la sua intera opera. In nessun’altra parte quest’ombra è visibile come nella concezione eliadiana del tantrismo, che eredita sia la visione romantica di Zimmer della sensualità tantrica sia la nozione fascista di Evola della violenza tantrica” (H.B. Urban, Tantra, cit., p. 186). Difficile immaginare un costruzionismo più rozzo e automatico di quello esibito da questo rispettabile professore dell’università dell’Ohio, educato a Chicago da Wendy Doniger e Bruce Lincoln (rispettivamente collega più giovane e allievo preferito di Eliade), e ancor più difficile trovare nelle pagine che Eliade o Evola dedicano al tantra (alcune delle quali sono diligentemente, ed arbitrariamente, estratte e citate dallo stesso Urban) quegli “spettri di violenza, immoralità, crudeltà e terrore” che egli immagina di trovarvi, fatti salvi naturalmente quei passi in cui si descrivono le realtà tutt’altro che idilliache e buoniste vigenti nella prassi reale dei culti di Shiva e Kali. Chi conosce le sue frequentazioni intellettuali (da Georges Bataille ad Alistair Crowley), le sue scorribande bengalesi, la sua ossessiva – e lucrosa – dedizione alle tematiche antropologiche farcite di sesso-e-sangue e – last but not least – la sua retorica vociferante e manichea professione di radicalismo potrebbe anche pensare che il professor Urban reperisca quegli spettri perché ce li ha messi lui.
L'attuale accanimento verso le interpretazioni storico-religiose di Evola e di Eliade
L’accanimento degli accademici americani nei confronti delle interpretazioni storico-religiose di Evola (e di Eliade, comprensibilmente in misura minore, ma spesso partendo dal presupposto che il rapporto con l’esoterista italiano l’abbia “contagiato” non meno che quello con la Guardia di Ferro, della quale spesso si ha un’idea riconducibile a un archetipo di “fascismo” inesistente nella realtà storica), ri-costruite sulla base delle loro idee politiche, vere o supposte, è una costante della storiografia recente. Sintomatico il caso del buddhologo californiano Richard K. Payne, che, avendo scoperto con costernazione l’evolianoYoga of Power negli scaffali della libreria universitaria di Berkeley, indicato per giunta come libro di testo in uno dei corsi di quel megagalattico centro di studi universitari sull’Asia, avendo notato che – horribile visu! – l’editore di Evola era un americano vero e che nel suo onesto Paese esistevano siti dedicati al pensiero di Evola sempre “molto vivi e molto attivi”, si precipita a leggerlo e si rende conto, in un delirio narcisistico di “Ah-ha” (ma io l’avevo sempre pensato! Adesso è tutto stramaledattamente ovvio!), che il Buddha ariano del fascista Evola è modellato sulle idee politiche dello stesso, anzi, detto in maniera elegante, che “c’è una continuità tra idee di élite spirituale e gerarchia politica da una parte ed élite razziale e gerarchia socio-politica dall’altra” (Richard Payne, Traditionalist Representations of Buddhism, “Pacific World” III, 10, 2008, p. 193 e 211).
Dopo avere smascherato il pericoloso pseudo-orientalismo di Evola e degli altri “perennialisti” (F. Schuon, M. Pallis, A. Coomaraswamy e l’americano vero, accademicamente più pericoloso di tutti e bersaglio maggiore della polemica, Huston Smith) e averli inchiodati al muro delle loro devianze, Payne trae lo scontato corollario (che ignora naturalmente tutto il dibattito al riguardo svoltosi in Italia) che Eliade, membro di un “attivo gruppo tradizionalista fondato nel 1933 a Bucharest” (!?), lungi dall’essere un “tradizionalista soft”, era in realtà un pericoloso “cavallo di Troia” (Payne non fa ricorso a tale termine ma il senso è quello) che aveva introdotto nella virtuosa accademia americana un pericoloso modello di religiosità umana che “è in effetti la Philosophia Perennis travestita in panni secolari” (R.K. Payne, Traditionalist Representations of Buddhism, cit., p. 199). La risposta più appropriata e tagliente a questi vaniloqui è stata data da due anonimi commentatori (chiaramente degli specialisti di studi buddhisti) nel blog “Traditionalists”, fondato e moderato da Mark Sedgwick, che qui riprendiamo liberamente nei punti essenziali. Payne sembra non aver veramente letto i testi dei tradizionalisti ed essersi familiarizzato seriamente con essi. Egli in realtà non spiega in che modo lo Yoga della potenza di Evola abbia implicazioni quasi-fasciste. Infatti, riconoscere una gerarchia metafisica nei tantra induisti (una metafisica che è presente in concreto) non porta come necessaria conseguenza a un sistema politico-sociale totalitario per la società che lo accetta. Come altri, Payne cade nell’errore di credere che per il fatto che Evola per un certo periodo fu associato con fascismo e nazismo, i suoi scritti sulla religione e l’esoterismo sono reinterpretazioni fasciste e contengono idee fasciste quasi per una fatale necessità. Le interpretazioni che i tradizionalisti danno del messaggio di Buddha sono in realtà conformi alla realtà testuale delle scritture buddhiste e alle dottrine che vengono professate e insegnate da molti maestri buddhisti. In particolare, la concezione dell’esperienza del Sé nella visione buddhista sostenuta da Evola ne La dottrina del risveglio in maniera fortemente originale coincide con quella di Hajime Nakamura (1912-1999), forse il massimo studioso giapponese di buddhismo, docente a Tokyo e in altre prestigiosissime università (Harvard, Stanford…), cui si deve una fondamentale traduzione-interpretazione del canone buddhista pali in giapponese. Insomma, secondo questi autorevoli pareri, l’articolo dello specialista Payne andava cestinato o sottoposto a un severo processo di peer-review. Cosa peraltro impossibile in quanto il direttore di “Pacific World. Journal of the Institute of Buddhist Studies” è lo stesso Payne, preside di quell’istituto di Berkeley, che ha tra i suoi compiti istituzionali maggiori quello di preparare futuri “cappellani buddhisti” per le comunità buddhiste giapponesi americane. E si può immaginare il tipo d’interessi, forse non rigorosamente scientifici, che presiedono alle attività dell’istituto, della rivista e del suo preside-direttore.
ll caso de Le chamanisme, il libro di Eliade tradotto e revisionato da Evola
Per chiudere, veniamo al caso de Le chamanisme, il libro di Eliade che Evola traduce, revisiona e fa pubblicare dall’editore Bocca nel 1953, e al quale si riferiscono, direttamente o indirettamente, tutte le lettere qui pubblicate. Diremmo solo, perché su questo tema ci siamo a lungo intrattenuti altrove, che Evola recensì l’opera sul quotidiano napoletano Roma, il 10 febbraio 1952, nei termini a cui fa riferimento nella Lettera V: “Un mio articolo sul suo libro è già apparso sul quotidiano Roma alcune settimane fa, giusto per segnalare l'opera; qualche questione interessante la si sarebbe potuta abbordare su una rivista, ma per il momento non ne avevo a disposizione”. Evola aveva ragione, perché in questa recensione non si dice molto di più di quello che già con venga rilevato, con qualche ulteriore dettaglio, nella suddetta lettera. Il recensore rileva anzitutto che “dopo la lettura di un tale libro il tipo dello sciamano ci appare sotto una luce nuova e suggestiva”, riconoscendo quindi la novità dell’ interpretazione di Eliade. E, dopo una succinta presentazione dei materiali e delle tesi principali del libro, chiude con una osservazione che denota preoccupazioni tipicamente evoliane: “Come è possibile che la via del sovrasensibile, che per ipotesi si lega alle più alte possibilità dell'uomo, la si ritrovi, come sciamanismo, netta, precisa e in forma costante proprio nei popoli che, secondo le vedute oggi predominanti, corrisponderebbero agli stadi più bassi e quasi animaleschi dell'umanità? Vogliamo forse seguire gli ‘spiriti critici’, che da un fatto del genere sono indotti a considerare come sopravvivenze superstiziose tutto quanto non è materiale o razionalistico? Se no, forse vi sarebbe da pensare che ciò che nelle popolazioni accennate sembra tale, non sia originario e davvero arcaico, e vedervi piuttosto disperse sopravvivenze e vestigia di cicli ancor più remoti, e di un retaggio effettivamente spirituale dei primordi, di cui forse solo induttivamente, per una integrazione partente da quel che è rimasto, si può avere una approssimata idea”.
Una speculazione questa, sulla arcana spiritualità dei primordi, che era molto familiare ad Eliade fin dal saggio sullo yoga del 1936 e di cui si trovano discrete tracce anche nella summa sciamanica del 1951, costituendone anzi uno delle debolezze più vistose nell’ordine storiografico. In questo caso, l’insufficiente messa a fuoco dei motivi presenti nell’opera, e la conseguente “dimenticanza”, sembra da imputarsi ad Evola, dovuta certo alla rapidità della lettura e alla brevità della segnalazione. La recensione “scientifica” che egli avrebbe voluto fare, ma non fece, per una rivista accademica si può ricavare dagli stilemi della sua traduzione e dai detti, e non detti, che si ritrovano in queste lettere.
Giovanni Casadio
(n. 1, dicembre 2011, anno I)