Dino Terra antifascista: quella strana «Grazia»

Il 10 giugno 1940, con un discorso tenuto da Palazzo Venezia Benito Mussolini annunciava l’entrata in guerra dell’Italia. Quell’anno segnava anche la fine degli articoli firmati da Dino Terra per il «Quadrivio», la rivista fondata e diretta dal siciliano di Chiaramonte Gulfi Telesio Interlandi. Periodico che si era riproposto lo scopo di «Rivelare a tutti – italiani e stranieri – questo nuovo splendore romano, interpretare questo pensiero che cerca affiorare attraverso le mille miserie attuali del mondo» [1] e aveva testimoniato gli splendori dell’Italia letterata del Ventennio ma anche le «miserie umane» di un fanatismo ideologico e razzista condotto talora a livelli parossistici. Terra aveva collaborato con il «Grande settimanale illustrato di Roma» e l’aveva fatto con l’indipendenza e l’onestà intellettuale che lo contraddistinguevano, scrivendo di pittura senza allinearsi alle direttive dell’entourage interlandiano [2], dando stranianti lezioni di galateo tese a mostrare il malcostume e la volgarità imperanti nell’upper class [3]d’Italia. Aveva inoltre celebrato la bellezza del Maggio fiorentino, non senza commisurare il divario tra quelle immersioni nell’incanto del teatro – per esempio con l’Aminta per la regia di Simoni al giardino di Boboli [4] – e una realtà in cui la guerra, «con i suoi clangori motorizzati e funebri», pareva purtroppo candidarsi a regina dei «Festival musicali» [5].
Eppure, quando non comparivano più articoli e nemmeno testi terriani a firma X, uno degli pseudonimi di cui il Nostro si serviva [6], ecco affacciarsi, per esempio a p. 5 del numero del 6 luglio 1941 o ancora nell’uscita del 13 luglio 1941, a p. 4, la pubblicità del nuovo romanzo terriano [7]. La réclame recitava «Leggete: Dino Terra LA GRAZIA Romanzo Garzanti - Editore». Nell’illustrazione un viluppo di tre corpi femminili, chiaro richiamo al mito delle tre Grazie, in una prima allusiva spiegazione, di superficie, del titolo e della materia.
È un romanzo strano La Grazia, che ha conosciuto una gestazione complessa, come è emerso dall’esame del materiale custodito a Lucca presso l’Archivio della Fondazione Dino Terra. Sotto la voce Scritti, all’interno della cartella 7, sono presenti una fotocopia dell’editio princeps de La Grazia, due copie delle seconde bozze, non identiche nelle annotazioni, di cui una è datata al 23 gennaio 1941 e, quel che appare ancor più interessante, figurano ben tre attestazioni dattiloscritte di una pièce dal titolo In bocca al drago. Questo dové essere anche il titolo originario del romanzo, come attestato dalle seconde bozze [8]. La seconda e la terza copia dattiloscritta dell’opera teatrale testimoniano un fitto e tormentato lavoro di elaborazione. Nell’edizione de La Grazia da noi curata su incarico della Fondazione Dino Terra, abbiamo addotto una serie di esempi che ci hanno indotti a maturare la convinzione che il lavoro sia nato quale destinato alle scene. Misurandone il debole impatto drammaturgico o temendo manovre censorie o forse sabotaggi a cui il fascismo non era nuovo (si pensi ai casi di Sem Benelli e Roberto Bracco [9]), Terra avrebbe deciso di affidare quella riflessione al lungo e cairologico tempo della scrittura narrativa [10]. Che la versione teatrale avesse preceduto quella romanzesca appare plausibile sulla scorta, per esempio, dell’esame dell’onomastica (la protagonista femminile nella pièce era chiamata Anna e divenne Giulia solo in un secondo momento, nome che invece compare già nelle seconde bozze Garzanti) o ancora nel persistere di ‘fossili’ dell’Ur-scrittura nella versione definitiva de La Grazia. Il personaggio maschile, Guido, nel dramma era uno studente, mentre nel romanzo risultava già esercitare la professione di architetto. A p. 41 (20 della nostra edizione), tuttavia, riferendosi al ragazzo, Terra lo definiva «lo studente», retaggio probabilmente di quel ch’egli era al momento della genesi dell’opera. A p. 63 dell’edizione Garzanti (32 della nostra), il ladro introdottosi in casa Bentoia cadeva per effetto dell’intervento del personaggio divino di Iftima. La Grazia, scriveva Terra, «gli si butta addosso con un tremendo spintone (che la vittima non potrà mai spiegare finché avrà vita)»; peccato che nel romanzo il ladro muoia pochi minuti dopo il fatale «spintone», cadendo da una finestra al termine di un rocambolesco tentativo di fuga. Nella pièce, invece, egli veniva arrestato e si suicidava in carcere; lì avrebbe avuto effettivamente il tempo di non riuscire a spiegarsi le insolite condizioni di quell’accidente. Un puntuale riscontro, in particolar modo tra il terzo dattiloscritto di In bocca al drago e le seconde bozze de La Grazia,lascia dunque pochi dubbi sulla forma che inizialmente Terra aveva deciso di attribuire a questa sua «figurazione dell’arbitrio» [11].
Del resto, che il tema fosse questo era programmaticamente asserito da Dino Terra nel corsivo in limine dell’opera, vero e proprio accessus alla riflessione de La Grazia. Muovendo dal caso di una signora X (con caratteristiche in qualche modo analoghe a quelle dell’Elena Morosini di Anima e corpo) che, coinvolta in un fait divers, deresponsabilizzandosi aveva chiamato in causa le fatidiche «glandole» a scancellare «il tormentoso inferno», Terra osservava che ci si ritrovava ancora una volta a dover discutere del «vetusto e barbosissimo, inquietante problema dell’umana libertà» [12]. Bersaglio dichiarato era la «teoria endocrina» con la sua «comoda» tendenza a spiegare, e in qualche modo giustificare, con squilibri fisiologici i più aberranti comportamenti umani. «Il succo vuoi della tiroide o della pituitaria che sia, produce questo e quest’altro: tenacia, melanconia, allegrezza, ira, accidia, intelligenza, ecc. dipendono da quei certi umidori; è provato, è scienza esatta». Un sugo ben diverso da quello estratto da Manzoni alla luce delle vicissitudini dei «promessi sposi», perché, «se la coscienza non dipende più dalla nostra volontà ma è la risultante di combinazione chimica» [13], del tutto prive di fondamento logico divenivano l’ammirazione per la virtù di Socrate o l’obiurgazione del gaglioffo Landru, cui sette anni dopo Charlie Chaplin si sarebbe ispirato per il suo irresistibile Monsieur Verdoux. Ne derivava che, in un mondo in cui ogni bassezza rischia di essere comodamente sdoganata, «se la più gran parte di noi campa da ciechi e da sordi, di continuo incespicando e sbagliando, sciaguratamente ignari della grazia, tanto tanto più riesce commovente, quando c’è, l’oscuro e infantile anelito a un ordine, a un rigoroso ordine, che è speranza e salvazione» [14].
Faceva capolino già qui quell’idea di Grazia (seppure con la minuscola) che – rinverdendo l’antico conflitto tra predestinazione e libero arbitrio – trovava figurazione nelle pagine del romanzo. Veniamo al plot. Il ragionier Bentoia e la sua consorte Giulia trascinavano la loro stanca routine di coppia nell’asfittico spazio domestico, in cui tutto, persino la figliola «neppure undicenne», pareva recare impressi i segni di una precoce decrepitudine. Una notte, mentre il marito dormiva, la malmaritata commetteva l’errore di accogliere sotto il tetto coniugale l’amante Guido. Un’avventura pericolosa che, complice l’arrivo di un ladro improvvido, si concludeva tragicamente, col risveglio dal marito, l’attentato alla vita degli adulteri e la successiva colluttazione tra Bentoia e architetto, conclusasi con la morte del ragioniere becco. Periva, in quella «pasticciosa vigilia» [15], anche lo scassinatore, al culmine di un maldestro tentativo di fuga. Per l’opinione pubblica il cerchio era chiuso: l’assassino era il ladro, scoperto sul fatto dal malcapitato Bentoia. Teoricamente, gli amanti avrebbero potuto proseguire indisturbati il loro idillio, ma al banchetto si era ormai seduto il peggior convitato di pietra: il Rimorso che aveva preso ad attanagliare l’onesto Guido. Il giovane non si capacitava di essersi ritrovato assassino per accidente, lui, sensibile al punto che, progettando un ospedale, aveva desiderato abbellirlo, perché – come avrebbe spiegato a sua sorella che gli rinfacciava tanto spreco di bellezza per un luogo di sofferenza – «l’ospedale è l’edifizio che merita le maggiori cure, anche dal punto di vista architettonico e della piacevolezza» [16].
Fin qui quella narrata da Dino Terra potrebbe apparire un’ordinaria vicenda di amori clandestini con delitti e castighi, ma la questione era ben più complessa. In gioco entrava infatti la metafisica. La caduta del ladro, che aveva svegliato Bentoia e provocato il disastro, era stata frutto della beffa orchestrata da tre Grazie in libera uscita sulla terra. Artefici dell’involontario misfatto erano Ebe, corifea del gruppo, e le due amiche Iftima e Aleissiarre, tutte figure che hanno un corrispondente nella mitologia greca, a cominciare dalla più celebre, la prima, dea della giovinezza. È peraltro alquanto curiosa questa presenza di tre Grazie che non sono le tre divinità canonicamente identificate con questo nome: Aglaia, Eufrosine e Talia. Terra inserisce, sì, nella narrazione anche Aglaia, ma la rende estranea agli eventi che mostreranno quanto le tre divinità siano arieli d’inconsapevole crudeltà, «innocenti com’è innocente l’aguzza lama che sventra» [17]. Per nulla colpite dalle gravi conseguenze del proprio agire, le tre ninfe – sulle quali si posa costantemente lo sguardo indagatore di un gufo che le spia – si immergono in una gioiosa scorribanda nelle «profondità batipelagiche», in una limpida sequenza in cui Terra faceva sfoggio di conoscenza della nomenclatura ittiologica e della flora marina. Questa scena fu forse debitrice del gusto immaginista per cui «l’anima tende a espandersi, a divagare, a discorrere per ogni dove ampiamente filtrando attraverso e rompendo qualsiasi ostacolo di prestabilite armonie, dionisiacamente trasponendosi e differenziandosi attratta da ogni richiamo» [18]. È però altrettanto probabile che in essa incidesse il ricordo di un momento di Les faux monnayeurs di André Gide particolarmente caro a Terra, il celebre discorso tra Vincent Molinier e Robert Passavant di cui Bouchard ha sottolineato l’incidenza nell’opera del Nostro [19]. Durante quelle catartiche immersioni negli abissi marini, Ebe aveva modo di riflettere che, se qualsiasi creatura sulla Terra possa agire in ossequio a un fondo di spietatezza («basta vedere con che gusto il canarino sbudella la cicala o con quale allegria l’uomo si gusta l’agnello scoiato e lardellato»), era pur vero che nelle «tigresche elegantissime murene […] come nei serpenti o nei ragni, le pareva di sentire una crudeltà infinitamente più odiosa, quasi il male stesso ne fosse la ragione d’essere» [20]. Al culto del Male perpetrato da alcune creature, Ebe finiva col contrapporre nelle sue riflessioni lo sguardo melanconico di Guido dopo il delitto; misurava, dunque, la purezza del giovane e decideva dunque di farsi strumento della «grazia» di medicarlo. Nel frattempo, il giovane si struggeva dal dolore e aveva tagliato i ponti con l’amante Giulia; non riusciva infatti a concepire la disinvoltura con cui la donna si rapportava all’idea dell’omicidio, pur involontario, di cui erano stati complici. Mentre vagava in preda ai pensieri per Villa Borghese, le Grazie apparivano a Guido. Ebe cercava di lenirgli il dolore raccontandogli come fosse stato a causa del loro intervento che le vicende erano precipitate e si era giunti alla morte di Bentoia; il giovane però non ne era persuaso. La prima colpa era stata sua, perché, se non avesse desiderato la donna d’altri, non si sarebbe mai trovato in quel luogo e le sue mani non si sarebbero sporcate di sangue. A questo punto Ebe – modellandosi sulla didascalica Beatrice dantesca – adottava un’ulteriore argomentazione: mostrando a Guido gli effetti benefici delle sue azioni, lo convinceva del fatto che, ponendo sui due piatti della bilancia il bene e il male da lui compiuti, non v’era dubbio che il primo prevalesse nettamente sul secondo [21]. Ci troviamo però di fronte a uno di quei casi in cui non si comprende bene se la medicina non sia forse peggiore della malattia stessa. Ebe, che già in precedenza aveva evidenziato che a voler conoscere le ragioni del Superno Motore la certezza era quella «di rimaner combuste a mezza strada» [22], dichiarava, al termine del colloquio che «l’uomo non può e non deve oltrepassare il suo limite di conoscenza» [23]. Il motivo del limite era caro a Terra sin dalla produzione immaginista; a tal proposito ricordiamo come Sara Calderoni abbia rilevato che «La massima universale sia in Riflessi sia in Un uomo e l’inferno si può concettualmente così riassumere: nessun buon governo può essere realizzato se non tiene conto dell’uomo come creatura semplice che ha limiti» [24]. Se il superamento del limite è atto di hybris che infrange un equilibrio, Guido, pur non avendo scelto di oltrepassare la barriera che separa l’umano dal divino, si troverà a dover subire le conseguenze della “salvifica” scelta di Ebe. Sarà fatto sprofondare nella notte della follia, dopo che «l’improvvisato ninfeo si disciolse nel buio» [25]; ritrovato da ragazzini all’alba, belante lui ch’era stato φαρμακός delle divine infrazioni, si spegnerà il terzo giorno – senza risorgere – per le conseguenze di una polmonite.
Emerge così l’idea che forse la Grazia, per chi aspira a un «ordine» nella generale deriva morale della società, sia proprio quella follia che una tradizione che da Lisabetta muoveva a Ofelia, sino al Caso Motta di Soldati e (negli anni Cinquanta) alle donne di Tobino, vuole possente generatrice di poesia. La Grazia dagli dèi elargita a chi è predestinato a salvarsi («Ὃν οἱ θεοὶ φιλοῦσιν, ἀποθνὴσκει νέος») è dunque scivolare nelle luminose tenebre dell’insania mentale.
Il finale non lascia meno interdetti; nel dodicesimo capitolo (dato numerologicamente interessante) assistiamo al gufo che spia le Grazie unirsi a un curioso raduno di venti ninfe in un padiglione. Passano mesi e non ne troverà più traccia sino a quando, un giorno, si accorgerà che «Il padiglione era scomparso, né c’eran tracce delle ninfe» [26]. Dino Terra, da quel magistrale generatore di ambiguità che è, descrive due elementi ravvisati dal gufo in questo finale che ci piace definire pre-hangingrockiano, per l’inspiegabile scomparsa delle Grazie (a meno che non siano finite ad Atlantide, se volessimo seguire la lezione foscoliana): laddove v’era il padiglione vi sono macchie di «morbida erba, un pratello trapunto da modesti fiorellini» ma anche sorci, su uno dei quali il gufo si avventa: «col becco robusto prese a squarciargli il ventre morbido». Se resta il dubbio che le Grazie si siano metamorfosate in fiori, ci sembra ben più probabile che siano state trasformate in sorci. Punite anche loro per aver superato con atti di hybris il limite loro imposto? Per essersi ripetutamente avvicinate agli umani e invescate nei loro affarucci, cosa che in Fuori tempo sarebbe stata impensabile [27], ma che già in La Grazia vedeva contemplata qualche deroga [28]?
A voler leggere su un primo livello, di carattere filosofico, il romanzo, emerge chiaramente l’idea che gli uomini siano in balia delle azioni di forze a loro estranee. «Qualcuno si diverte», si potrebbe asserire recuperando l’espressione presente nel titolo della raccolta di racconti terriani [29]. Alcuni potrebbero, alla luce di tale eterodirezione, deresponsabilizzarsi e cedere al fatalismo: «Siamo nelle mani del destino, Guido, ed è la fatalità che ci ha portato a questo punto» [30] ed è la posizione di Giulia come della signora X dell’accessus. «– Troppo comodo questo signor Destino», risponderà Guido al giustificazionismo dell’amante: è stata la scelta di aderire all’azione eticamente riprovevole dell’adulterio a porlo nelle condizioni che l’hanno condotto all’omicidio. La catena delle vicende in cui irrompe l’id quod accidit è dunque legata a scelte particolari che l’individuo comunque compie e di cui deve assumere le proprie responsabilità; altrimenti, torniamo all’accessus, si «campa da ciechi e da sordi, di continuo incespicando e sbagliando, sciaguratamente ignari della grazia». Proprio nelle pagine iniziali è la chiave di lettura del romanzo…
Le Grazie sono le glandole, il deus ex machina deresponsabilizzante di cui si parlava nell’incipit. Noi siamo il frutto di quello che «Il succo vuoi della tiroide o della pituitaria che sia, produce»: «la coscienza non dipende più dalla nostra volontà ma è la risultante di combinazione chimica». Giulia si adagia in questa convinzione e può continuare a vivere. A nessuno interessa realmente la sorte del povero ragionier Bentoia; la sorella di Guido, nei suoi pensieri, si chiederà «che gliene importava in fondo di quello spilungone?» [31]. Per le Grazie il tragico evento sarà stato a malapena una «pasticciosa vigilia» [32]. Guido si macera nel rimorso perché in lui non è anestetizzato il senso morale in un contesto in cui tutti ne sembrano spigliatamente privi. Le Grazie, per medicarlo, gli si rivelano e riescono ad acquietarlo, ma per poi eliminarlo, perché chi ha superato il senso del limite imposto agli umani non può sopravvivere. Sarebbe un’infrazione dell’ordine.
Parlando del fascismo ne Il residuo littorio, lucidissimo suo pezzo in Dopo il diluvio, Dino Terra scrisse che«La vendetta del defunto regime è nell’aver lasciato la nazione priva dei principi elementari di un’autentica vita civile, di una vita civile basata sulla dirittura dei caratteri e quindi sull’onesta responsabilità individuale» [33]. La più grande colpa del fascismo era stata dunque quella di ottundere il senso morale degli italiani. Ecco che l’attacco in limine all’endocrinologia, che in Italia ebbe il suo vessillifero in Nicola Pende, si può forse cogliere secondo una prospettiva diversa, se si considera che le strumentalizzazioni di tale disciplina alimentarono le politiche eugenetiche del fascismo. Politiche che avrebbero condotto anche nel nostro Paese, come in Germania, alle tristi conseguenze che noi conosciamo per quegli ebrei vilipesi e deprivati della dignità di esseri umani proprio come lo «spilungone» Bentoia, la vittima di cui non importava nulla a nessuno.
Ecco che il corteggio delle divine Grazie non poteva essere quello della mitologia classica. Foscolo le aveva lasciate quando Pallade le aveva condotte su un cocchio nel mitico mondo di Atlantide e lì erano rimaste. Sulla Terra non erano rimaste che i loro surrogati; Aglaia non partecipava al «sozzo trescone», per prendere in prestito un’espressione terriana. Se le Grazie erano in Atlantide, insomma, sulla Terra non v’era che dis-grazia. A condurre le danze era la dea della Giovinezza e tutti ricorderanno facilmente come Giovinezza fosse l’inno del Partito Nazionale Fascista. Per non parlare del fatto che, a mettere in fila le loro iniziali, Ebe, Iftima e Aleissiarre, vien fuori la parola EIA, parte integrante del grido «E per Benito Mussolini / Eja eja, alalà!»
«Era disceso il vento, un gagliardo maestrale, che ogni tanto calava a grosse onde sulla strada, e le finestre rimbombavano dei suoi crosci» [34]. Il vento precede la prima apparizione delle Grazie e se è presumibilmente, sì, richiamo alla shakespeariana Tempesta, non si può non pensare ai venti di guerra che infuriavano o stavano per spirare quando Terra fu indotto a metter su questa «figurazione dell’arbitrio». Quando chi conduce la danza è privo di senso morale, facile è che finisca con l’anestetizzare quella tensione alla giustizia anche nel consesso sociale. Un bravo ragazzo come Guido si ritrova un assassino così, senza colpo ferire e senza ricevere alcuna sanzione dalla legge, ma le Grazie sorridenti gli dicono che non ha colpa. È la congiuntura degli eventi che ha condotto a questo. Non deve sentirsi responsabile della Morte che ha arrecato. In fondo, a voler pesare la sua anima, il Bene ha prevalso. Non è forse quello che sostiene chi invita al delitto in nome dell’ideologia? In fondo anche un raid punitivo può essere sminuito a veglia «pasticciosa». Pensiamo, solo per citare un esempio, a quella che portò alla morte di don Minzoni. Il bene della collettività e il prosperare dell’Idea giustificano tutto. E allora all’uomo che è dotato di senso morale non resta che anestetizzarsi e lasciarsi condurre dalla danza delle corifee della Giovinezza. Il rischio, però, è che una mente pensante sia diventata scomoda; è un atto di hybris superare con un pensiero autonomo la linea di confine che demarca le divinità che conducono il ballo, separandole dai comuni mortali. Quelli che possono impazzire e morire, se scoprono le carte del gioco…
Eppure in un’opera in cui si centuplicano gli occhi che scrutano l’altro, che spiano, che indagano (non era questo il clima di insicurezza e delazione alimentato dal fascismo?), forse il “personaggio” chiave è proprio lì, quasi invisibile sebbene in piena luce. Parliamo del gufo: il gufo che osserva i movimenti delle Grazie. Terra stesso, a nostro avviso. Terra sa che anche queste Grazie sgraziate e sgrazianti dovranno prima o poi svanire. Forse sarà proprio per effetto di quel Narrenschiff a cui l’abbraccio mortale con la Germania ha reso inevitabile l’adesione: la Guerra mondiale. «Da più parti, con la loro apparenza di commovente seduzione, giunsero le ninfe, e tutte senza indugiare disparivano nell’interno dell’ampia tenda. Il gufo riconobbe Aglaia e Iftima e Ebe e altre. Diciannove ne annoverò, e quando venne la diciannovesima anche Aleissiar gettò il corno e raggiunse le compagne. Allora caddero le cortine dell’ingresso e d’un subito spesse lastre di ghiaccio avvolsero il padiglione». Ci siamo lambiccati il cervello per comprendere le ragioni di quel numero diciannove e invece erano proprio lì, sulla pagina del «Quadrivio» che – beffarda ironia terriana – pubblicizzò quello strano romanzo. Quando La Grazia fu pubblicato era il diciannovesimo anno fascista. Terra si augurava – e purtroppo non avvenne– che col ventesimo, l’ultimo, il padiglione della Morte si sarebbe dissolto con tutte le ninfe (era questa la Grazia che desiderava?). Non abbiamo dunque più dubbi sulla metamorfosi delle Grazie. Non furono fiorellini: avrebbero fatto la fine dei sorci su cui il gufo – il disfattista Terra – si sarebbe avventato. Divorandone uno, avrebbe goduto allora nell’udire «il lungo grido della bestiola come il fischio di uno schifoso palloncino che si sgonfia» [35].


Gianni Antonio Palumbo
(n. 6, giugno 2024, anno XIV)



NOTE

[1] T. I.(nterlandi), Certezza, in «Quadrivio», 6 agosto 1933-XI, 1, p 1.
[2] Si veda in tal direzione il caso di Corrado Cagli, di cui il Nostro parlò con accenti obiettivi in D. Terra, Lineamenti della XX Biennale. L’Arte italiana (dal nostro inviato speciale), in «Il Quadrivio», 7 giugno 1936-XIV, 32, pp. 6-7. Sulla figura di Cagli rinviamo a R. Bedarida, Corrado Cagli. La pittura, l’esilio, l’America (1938-1947), prefazione di E.Crispolti, presentazione di P. Marzotto, Donzelli, 2018; sull’ostracismo patito dall’entourage di Interlandi si veda G. Mughini, A via della Mercede c’era un razzista. Lo strano caso di Telesio Interlandi, Venezia, Marsilio, 2019, pp. 175-180.
[3] D. Terra, Manuale dell’estrema eleganza… per voi signore, in «Quadrivio», 14 agosto 1938-XVI, 42, p. 6.
[4] Id., L’Aminta a Boboli, in «Il Quadrivio», 11 giugno 1939-XVII, 33, p. 1.
[5] Id., Invito al “Maggio”, in «Quadrivio», 17 marzo 1940-XVIII, 21, p. 4.
[6] Sulle «maschere» di Dino Terra, si veda D. Marcheschi, Collaborare ai giornali: Dino Terra, l’impegno di uno scrittore, Venezia, Marsilio-Fondazione Dino Terra, 2017, pp. 19-40. Per un profilo dell’autore, cfr. D. Marcheschi, La figura e le opere di Dino Terra. Originalità e complessità di un protagonista del Novecento letterario, in Ead. (a cura di), La figura e le opere di Dino Terra nel panorama letterario ed artistico del ’900, Venezia, Marsilio-Fondazione Dino Terra, 2009, pp. 7-38. Sulla sua attività giornalistica, si vedano anche A. Anelli (a cura di), Letteratura e giornalismo / Dino Terra, in «Kamen’. Rivista di poesia e filosofia», anno XXVI – n. 51 – giugno 2017, pp. 5-21; A.R. Daniele, Dino Terra sui giornali: una gentile e affilata penna estetica, in Letteratura e giornalismo. Vol. III Giornalisti o scrittori?, a cura di D. Marcheschi, Venezia, Marsilio-Fondazione Dino Terra, 2019,pp. 51-65.
[7] D. Terra, La Grazia, Milano, Garzanti, 1941. Il volume reca la data 1-3-1941-xix. L’opera è stata recentemente riedita, a nostra cura, dalla Fondazione Dino Terra, di cui Daniela Marcheschi è direttore scientifico: D. Terra, La Grazia, con introduzione di G.A. Palumbo, Fondazione Dino Terra-Marsilio, Lucca-Venezia, 2023.
[8] Il titolo In bocca al drago era infatti scritto a penna sulle seconde bozze, inviate a Terra dalla casa editrice Garzanti il 23 gennaio 1941.
[9] Sul primo rinviamo almeno a S. Antonini, Sem Benelli. Vita di un poeta: dai trionfi internazionali alla persecuzione fascista, Genova, De Ferrari, 2012; sul secondo a P. Iaccio, L’intellettuale intransigente: il fascismo e Roberto Bracco, Napoli, Guida, 1992.
[10] Si veda G.A. Palumbo, Avvertenza al testo, in D. Terra, La Grazia, con introduzione di G.A. Palumbo, Fondazione Dino Terra-Marsilio, Lucca-Venezia, 2023.
[11] Sin dalla prima copia, presumibilmente la più antica, della pièce il titolo era In bocca al drago (una figurazione dell’arbitrio) in un dramma.
[12] Terra, La Grazia, ed. 2023 cit., p. 4.
[13] Ivi, p. 5.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 74.
[16] Ivi, p. 53.
[17] Ivi, p. 96.
[18] U. Barbaro, Una nuova estetica per un’arte nuova, in «La Ruota Dentata. Movimento Immaginista», anno I, n. 1, febbraio 1927, pp. 2-3.
[19] F. Bouchard, «L’acqua oscura delle grotte»: il realismo sperimentale di Dino Terra, in D. Marcheschi (a cura di), La figura e le opere di Dino Terra nel panorama letterario ed artistico del ’900, Venezia, Marsilio-Fondazione Dino Terra, 2009, pp. 44-45.
[20] Ivi, p. 74.
[21] Ebe gli raccontava che l’amico Giorgio, da lui aiutato in un momento di difficoltà e spinto a esercitare la medicina in Congo, si era reso protagonista di un’eroica azione durante un’epidemia di difterite: Senza le sue cure un centinaio di bambini oggi non vivrebbe più. […] – Così, per la tua influenza centinaia di famiglie sono state salvate dal lutto», ivi, p. 99.
[22] Ivi, p. 72.
[23] Ivi, p. 99.
[24] S. Calderoni, Dino Terra: aspetti e funzioni di mito e favola, in Viti (a cura di), Dino Terra e la favola, cit., pp. 59-60; si veda poi D. Terra, L’Amico dell’Angelo. Riflessi. Drammi, a cura di S. Calderoni, Venezia, Marsilio-Fondazione Dino Terra, 2016. Su Un uomo e l’inferno. Romanzesco viaggio nel proibito di Dino Terra, cfr. F. Finotti, Dino Terra, ultimo e primo, in Marcheschi, La figura e le opere cit., pp. 85-96.
[25] Ivi, p. 103.
[26] Ivi, p. 106.
[27] D. Terra, Fuori tempo, romanzo, introduzione di G. Cascio, Venezia, Marsilio-Fondazione Dino Terra, 2021, p. 51.
[28] Ne La Grazia vige ancora il divieto alle divinità di avvicinarsi all’uomo, ma si fa riferimento al fatto che s’è nell’«anno delle indulgenze» ed è possibile fare eccezione. A tenere peraltro gli dei lontani dai mortali erano anche il cattivo odore del genere umano nelle conversazioni orchescamente ed euforicamente infantili delle Grazie.
[29] D. Terra, Qualcuno si diverte, introduzione di A.R. Daniele, Venezia, Marsilio-Fondazione Dino Terra, 2019.
[30] Ivi, p. 62.
[31] Ivi, p. 79.
[32] Ivi, p. 74.
[33] D. Terra, Il residuo littorio, in AA.VV., Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, a cura di D. Terra, Milano, Garzanti, 1947,p. 396.
[34] Id., La Grazia, cit., p. 11.
[35] Ivi, p. 106.