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L’eresia alla rovescia nel «Decameron» di Pier Paolo Pasolini
E la parola si fece carne e si stabilì fra noi – e vedemmo la sua gloria… (Il Vangelo di San Giovanni)
Non ho inventato niente: sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni. (E. M. Cioran)
Che cosa è l’uomo? Che cosa è un uomo? Sono gli stessi interrogativi inquietanti che turbano da sempre i nostri sogni, dai primi sciamani indiani, dai profeti pre-cristiani, massoni, tanti settari, di varie o appunto diversissime impostazioni. Non è mia intenzione riprendere ora la famosa ʻaperturaʼ interrogativa kantiana su chi è l’uomo, che cosa può, che cosa sa e via discorrendo… Questo incipit del mio intervento richiama un’altra ragione, quasi una mia perplessità nata e continuata fino ad oggi dal momento in cui ho letto per la prima volta le prime righe firmate Pier Paolo Pasolini.
Se mi ricordo bene, si trattava di alcuni suoi articoli-interventi finiti poi nel libro Passione e ideologia, ma io li ho trovati fotocopiati con strumenti precari verso la fine degli anni ’60, durante i miei studi universitari. Seguivo i corsi di lingua e letteratura italiana e c’era un solo docente, laureato all’inizio della seconda guerra, all’Università di Bucarest, dove per fortuna era ancora attiva una delle più famose cattedre di italianistica dell’Europa. Il che trova, fra tante altre ragioni e motivazioni, quella delle grandi affinità linguistiche delle due culture, ma anche affinità di costume e soprattutto di storia. Per di più, alla fine dell’Ottocento, grazie al mecenatismo di un famoso intellettuale italiano, Ramiro Ortiz, esisteva già nella nostra Capitale un Istituto Italiano di Cultura, e una cattedra specializzata, che, poi, per quasi cinquanta anni, hanno continuato a lavorare intensamente, pubblicando una rivista, «Roma», organizzando conferenze e dibattiti sui temi di attualità culturale, spingendo molti studiosi romeni ad andare in Italia per stage di specializzazione e di approfondimento. Mircea Eliade, per fare soltanto questo esempio, il grande storico delle religioni, si è formato nel culto della cultura italiana, laureandosi con una tesi su Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, ma anche con il sostegno diretto di Giovanni Papini, di Prezzolini, Giuseppe Tucci e di altre personalità di spicco della Penisola.
E per finire con questo incipit che mira solo a creare un ambiente per il mio intervento, ritorniamo agli interrogativi iniziali, che non restano, come pare, senza un forte, anche dissimulato rapporto con Pasolini e con le sue avventure di intellettuale e di artista. Un assioma ci dice che l’uomo è ciò che sta facendo, vuol dire il soggetto delle sue vere e proprie imprese, quel faber, nel significato antico, rinascimentale della parola. E un uomo? Cosa significa in questo contesto l’indeterminativo un? Individuo o meglio detto, col termine della logica, un singolo? E per generare una relazione c’è sempre bisogno – almeno – di due termini: nella prospettiva qui proposta, essi sarebbero: colui che fa, che compie, che realizza, direi, in maniera doverosa, il fatto, ossia l’azione, l’oggetto e altro; in altre parole, questo primo termine del rapporto sarebbe il soggetto, l’autore, che «denuncia», in quanto la rappresenta, la classica auctoritas; con una definizione semplice e letterale, un poeta è uno che scrive poesie; se mi ricordo bene, lo scrive proprio Benedetto Croce con tutto il senso dell’ironia sottinteso; in linea di principio già assunta, uno scrittore sarebbe uno che scrive. È lui il soggetto, l’autore, quello che incorpora tutto il peso dell’auctoritas. L’effetto dell’agire del soggetto – data l’ipotesi che di opera ancora non si può parlare – è la scrittura, che, a sua volta, incorpora quell'intera auctoritas su cui insistevano tanto i dotti medievali, fra i primi.
Mario Luzi, una possibile chiave di accesso per Pasolini
Abbiamo quindi due parti del discorso – del discorso che pretende avere un ordine, come ci assicura Michel Foucault (una visione, la sua, sulla quale ritorneremo più tardi) – e cioè la parte attiva, produttrice, portatrice di un messaggio o almeno di una intenzione di messaggio, in breve, generatrice di senso; e un’altra parte dello stesso discorso che sarebbe l’oggetto, il prodotto, sia questa un verso, un racconto, un giudizio morale oppure un’opera. Per l’operazione del fare artistico, ci serve un mezzo, uno strumento, un utensile che, nella maggior parte dei casi, si chiama logos, Verbum: la Parola. Ma nella tradizione occidentale, teologica e non solo, logos sta anche per inizio: «In principio era la Parola…»; questo, si sa, è proprio l’inizio del Vangelo secondo Giovanni. Vediamo un breve commento, uno fra tanti, di Mario Luzi, il poeta così vicino allo spirito delle Sacre Scritture; egli riprende tutto l'enuncio-annuncio: «In principio era la Parola e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Essa era all’inizio con Dio» e commenta: «Era ‘con’, era. Una progressione nell’identità. La cosmologia prosegue: “Tutte le cose vennero ad essere per mezzo suo e senza di essa nulla divenne. Ciò che divenne, in Lei fu vita, e la vita fu la luce degli uomini”»…
Può sembrare curioso, se non addirittura una forzatura, citare Mario Luzi come una possibile chiave di accesso per Pasolini. Può darsi. Ma non è affatto casuale che Pasolini abbia prodotto una pellicola cinematografica a partire da un vangelo, quello di Matteo. E, poi, è ancora vivo un tratto significativo della sua personalità, in parte sbagliato, in parte malinteso, quello di eretico, epiteto che ha proposto e assunto da solo, di cui si devono cogliere non solo alcune sfumature vere e proprie, ma anche l'idea del gioco che Pasolini ha sempre interpretato.
Andiamo avanti seguendo, con Luzi, il testo evangelico: «“E la parola si fece carne e si stabilì fra noi – e vedemmo la sua gloria”. Ecco il Cristo, Dio incarnato, che egli come discepolo ha seguito e come testimone glorificato. Giovanni il Battista ha avuto un compito essenziale di preannuncio e di preparazione, tuttavia “non era lui la luce, ma un testimone della luce”. A lui invece, a Giovanni l’Evangelista, è affidata una testimonianza su “l’unico nato dal Padre” nella pienezza della sua assoluta richiesta di fede”».
Pasolini nei panni di Giotto-allievo
Ma c’è chi si chiede: cosa c’entra tutto questo discorso con Pasolini? E ancora con il suo Decameron? Come speriamo di provare, questa nostra proposta interpretativa mira a snodare due grossi pregiudizi riguardanti l’autore di L’usignolo della chiesa cattolica, di Ragazzi di vita e dei suoi film così discussi, tra ammirazione e rifiuto. Con il Decameron boccaccesco, dopo aver sperimentato, da un lato, la demitizzazione del «sacro» in Vangelo secondo Matteo e, dall’altro, la desacralizzazione del mito in Medea ed Edipo Re, Pasolini ritorna, su un’altra via, nella vita, e più precisamente nella linfa di essa. Per quale fine, lo sappiamo da egli stesso. E questo ritorno alla e nella vita significa, oltre qualsiasi vena ideologica che, invocata in eccesso, ha finito per compromettere in gran parte le vere e proprie intenzioni poetiche di Pasolini, una rivisitazione – una prova, direi, mortale – del rapporto autore-logos, come una delle sue essenziali aporie. Nel film, Pasolini interpreta la parte dell’allievo di Giotto. Non è, come una parte della critica ha indicato, una prova della sua preferenza per il grande artista medievale; troviamo piuttosto qui una ricerca dell’identità, non persa, ma forse soltanto dissimulata, dal momento che il cineasta dichiara in proposito: «Tutte le opere sono autobiografiche, anche quelle in cui non si possono decifrare elementi autobiografici espliciti»; e, poi, in riferimento al suo Decameron: «Cosa significa la mia presenza nel Decameron? Significa aver ideologizzato l’opera attraverso la coscienza di essa: coscienza non puramente estetica, ma attraverso il veicolo della fisicità, cioè di tutto il mio modo di esserci, totale».
Ma se nei Racconti di Canterbury, il regista si cala nella parte di Chaucer e cioè in quella dell’autore, come auctoritas, in tutti i significati della parola, nel Decameron, sceglie non propriamente Giotto, ma un suo allievo, e così diventa una specie di messaggero, o meglio un testimone che, come il Giovanni Battista nell’interpretazione di Mario Luzi, è auto-investito di un compito essenziale, quello di preannuncio e di preparazione, e poiché «non era lui la luce, ma un testimone della luce», possiamo ipotizzarlo come un «interprete» del messaggio boccaccesco. E ogni esegesi non riguarda il tempo del messaggio, ma addirittura le sue conseguenze per il tempo dell'interpretazione oppure per il tempo che sta per arrivare.
Nei panni di Giotto-allievo – dobbiamo mantenere questa confusione volutamente assunta dal cineasta –, Pasolini incarna anche un paradigma della trasposizione del mondo boccaccesco nel suo mondo, proprio l’impegno dell’adattamento. In questo intervento – la presenza di Pasolini in persona nel film – viene proposto un gioco dell’alterità su alcune tracce freudiane o junghiane. Ricordiamo, per fare un solo riferimento, quello sdoppiamento dell’io nel libro autobiografico di Jung: lo stare seduti su una pietra e la sensazione forte che accanto c’è l’altro; avvertiamo che non si tratta, secondo la nostra modesta opinione, dello sdoppiamento di tipo dostoievskiano, il sosia del povero funzionario, né quello tipico in Pirandello; nelle rappresentazioni dello scrittore russo e dell’autore del romanzo Il fu Mattia Pascal, lo sdoppiamento si produce per mezzo di una sostituzione; nel Decameron, Pasolini-attore non sostituisce il Giotto, almeno in quanto solo un suo allievo, ma si fa, in nome di Giotto, un testimone dell’arte in generale e della sua arte in particolare.
È, come riconosce egli stesso, «un gioco», l’arte come gioco, e un gioco puramente semiotico, aperto, perché si tratta di un segno che s’inserisce in un altro tipo di sostituzione e cioè con la cosa, con le cose. La parola, come anche l’immagine, non è più uno specchio dell’oggetto, della cosa, ma l’oggetto stesso, la cosa stessa; inoltre, Pasolini non rappresenta nel film una personalità, né quella di Giotto, né quella propria; sta soltanto al posto di una figura, pure l’autore, ma non di colui che abbia qualche responsabilità del suo ‘agire’ artistico, ma solo quella di assumere un mondo che, finita la storia, secondo una meravigliosa formula di Nietzsche, si disincanta, si svela nella sua più pura, in quanto reale, autenticità. In questa prospettiva io credo che esistano tanti ragioni per considerare Pasolini un vero post-moderno, già avant la lettre.
L’ossessione dell’eros. «Vivere disperatamente la vita»
Nel Decameron indubbiamente l’eros occupa la ʻtematicaʼ fino all'ossessione; e l’eros chiama in gioco il corpo, un corpo che, tramite l’acutissima immageria, quasi «bruta» e «rude» in questo film, più favolosa e fantasiosa nei Racconti, sta al posto del narratore; tutte le parti «narrative» interpretate dalle sette donne e i tre uomini del testo boccaccesco finiscono nei corpi dei personaggi pasoliniani; è proprio il corpo che racconta, e proprio così La Parola, Il Verbo si fa, si fece carne; il mondo, di Boccaccio, ma soprattutto quello di Pasolini, percorre, in quanto condannato, le vie, direi, libere, liberate del peccato, anche se – ed è questa la vera chiave di lettura e di compressione dell’intera Trilogia della vita – con una gioia debordante, ma senza – si è detto – quella partecipazione intima che s’incontra in alcuni registi per i quali l’amore resta innanzi tutto un condividere dei sentimenti e, dunque, rispettare alcune «regole». Far l'amore nel Decameron significa «vivere disperatamente la vita»: sembra un atto di recupero di un tempo a volte definitivamente perduto, a volte in via di estinzione; ci troviamo non nell’inferno, ma nel purgatorio, dove il peccato non è ancora assunto, non è riconosciuto e non è motivo di un rifiuto, e siccome il problema della grazia è fuori discussione, ciò che si può ancora fare è «approfittare» di qualsiasi occasione per «giocare» con il sesso. I personaggi pasoliniani sono e non sono boccacceschi: conservano soltanto l’apparenza dell’epoca (vestiti, decori, paesaggi, qualche minimo accenno urbanistico e, sicuramente, i contesti sociali o «storici», ma del resto tutto si sposta in un mondo di un presente che sta diventando futuro.
Ed è per questo che la formula «Pasolini – profeta del passato», anche se giustificabile in base a quanto egli stesso dichiara, richiede precauzione quando si applica alle interpretazioni decise sulla figura dell’autore nell’ambiente italiano e universale della sua epoca: infatti, profeta è chi stravede, intravede, anticipa, con le sue antenne (parole, immagini, linee rotte sulla tela, segni su un muro di una chiesa eccetera) ciò che sta per venire, appunto l’avvenire.
Invece Pasolini, come «profeta», si rifugia nel passato, sia quello delle borgate romane sia quello del mondo medievale comunali, oppure nella mitologia antica con la sua eversiva disseminazione di peccati, di crimini inutili, di bestemmie e di vendette, ritorna a quei mondi non per «rispecchiarli», e tanto meno per «rappresentarli», ma soltanto per descriverli (descrizioni di descrizioni è, com’è noto, un bello e significativo titolo di una sua opera) e così descrivendoli mette in guardia il presente.
E soprattutto l’immediato futuro. In questa scelta si deve cercare e verificare la sua «ideologia» di cui si è tanto parlato. L'ideologia è, per il Nostro, quanto di più inverosimile possa esserci, non un «impianto» dottrinale di idee già fatte o dette (allusione soprattutto al suo marxismo, ma anche al suo freudianesimo), ma penso che qui abbia il significato francese dell’inizio dell’Ottocento, quando irrompe come concetto, e cioè quello di «scienza delle idee».
Per Pasolini, il passato è sempre presente e forse anche in maggiore misura è futuro; magari, il presente, secondo una logica elementare, non esiste in realtà, perché è soltanto un passaggio, un continuo spostamento, un transito, dal passato al futuro. Ma questo succede, in lui e per lui, appunto perché, con le parole di Ernst Jünger, «Vi sono tempi in cui nessuno si sente tranquillo; tempi che ricordano i movimenti inquieti del bruco che cerca un luogo dove incrisalidarsi. Ciò che esso cercava in realtà, ciò che lo trascinava nel suo movimento inquieto non era precisamente un luogo: era la farfalla. Ogni involuzione è contemporaneamente un’evoluzione. Il filo in cui il bruco si avvolge è lo stesso che libererà la farfalla».
Si può identificare, in queste parole jungeriane, un certo senso dell’utopia, o meglio delle u-topie, nel significato quasi-etimologico di senza-luogo; per il Nostro, ci sono i senza-luoghi, come paesaggi-giardini paradisiaci del Decameron ma soprattutto dei Racconti di Canterbury, in cui il giardino sta per un paradiso artificiale dove la libertà si riduce ad una specie di erotomania come una istanza della speranza; questi senza-luoghi possono portarci all’idea di esilio e, di conseguenza, all’idea di perdita di identità: non di un uomo, del singolo – in definitiva, questo sarebbe, in una lettura del destino terrestre, solo Adamo; e possibilmente Eva; ma la perdita dell’identità di un mondo, quel mondo contemporaneo di Pasolini per cui proprio lui, l’eretico corsaro, lui «Sansebastiano contrario», fu ritenuto da quasi tutte le parti il principale responsabile di tanti mali presenti e futuri. Lo «scandalo» che lui propone e interpreta è una continua provocazione del non-agire, del non-replicare, atteggiamenti e comportamenti denunciati con vigore e con coerenza. Lo scandalo resta, però, a mio parere, uno ontologico, e non ideologico.
Una sfida all’indicibile
Per Pasolini, il massimo bersaglio del far arte, di quel poiein, poiesis, di cui parlava Paul Valéry, è l’indicibile. In tutte le sue opere, in tutte le sue vicende, ma soprattutto con la propria morte, Pier Paolo Pasolini ha tentato di abbattere le barriere dell’indicibile, di impostare, con la forza della parola e con la forza dell’immagine, la trasparenza di quel buio che ci sta dentro e si sfida; la sua vera sfida non è una al labirinto, come succede per Calvino, per Borges, per Antonioni, forse, nel mondo del cinema: e una sfida all’indicibile e la sola soluzione da lui trovata e sperimentata è far coincidere la parola con la cosa.
Con Aristotele, la parola è la cosa e quindi non esiste un significato. Non c’è un senso nel mondo, il mondo non ha alcun significato se non la morte. Pasolini ha scelto di raggiungere una figura che sarebbe la propria icona, fin quando con una terribile lucidità accetta il destino tragico di essere segno – parola – immagine di un linguaggio che non gli appartiene, che non è né suo, ma neppure degli altri; è puramente anonimo. Non è proprio vero che non provasse pietà, che non fosse capace, ateo o eretico, di pietà; la sua pietà non fu mai una pauliana, non fu mai la pietà clericale; forse ereticale, mai sicuramente arcaica; di un mondo perso nella polvere di una storia, quella dell’uomo, che mai ha dato prova di pietà. È proprio lui a concludere stoicamente, con lo stoicismo di un Plotino auto-esiliato nelle periferie del mondo, che «è la morte, la fine, a dare il senso del filo della vita...»
È da qui che scaturisce la sua antropologia dell’emarginazione: la libertà è dovunque e in nessun luogo; il cinema ha il carattere del sogno ed è per questo che è, per il Nostro, «sostanzialmente poetico; per cui fare film è essere poeti…»
E a proposito dell’indicibile, ci sconvolge questo interrogativo del Decameron, non per caso recitata da Pasolini-Giotto: Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?...
Per Pasolini, il cinema è «la lingua capace di formulare risultati espressivi integrati alla diversità», allora egli sceglie di arricchire l’immagine con il linguaggio del corpo facendo della carica espressiva di questi un’estetica della vitalità.
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Concludo con una frase di E. M. Cioran, un autore che mi sta a cuore, non solo perché è un mio connazionale, ma anche perché, un nuovo Demostene calato nella Parigi del secolo passato, ha creato anche lui, come Pasolini, una specie di eresia alla rovescia: «Non ho inventato niente – scriveva l’autore di Esercizi di ammirazione – sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni».
Le sensazioni di Cioran, si sa, sono state così nichiliste che una volta una signora parigina non tanto anziana gli fece visita per dirgli che, leggendo i suoi libri, aveva capito che l'unica soluzione per salvarsi da questo mondo sarebbe stato il suicidio. Meno drammatico di Pasolini, Cioran ha finito poi per scherzare sulla vicenda. Pasolini invece, che aveva anche descritto in anticipo più di una volta la propria morte, ha trovato la propria fine in una morte che è diventata non un mistero, come si afferma solitamente, ma un altro / vero scandalo. Ontologico. Appunto.
George Popescu
(n. 10, ottobre 2012, anno II)
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