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Dante forever. Note di un lettore romeno della «Divina commedia»
750 anni fa nasceva a Firenze Dante Aligheri, il più grande poeta della neolatinità, come lo definisce l’italianista romeno Alexandru Balaci; moriva in esilio a Ravenna a soli 56 anni, non prima di finire la sua propria crociata che ebbe inizio nel 1300. Si trattava del suo capolavoro intitolato in maniera latineggiante Comedia, che poi diventò, grazie all’ispirata qualifica di Boccaccio, La Divina Commedia.
Era disceso tra le ombre dell’Inferno per interrogarle e ascoltarle; la stessa cosa aveva fatto salendo la montagna degli antipodi del Purgatorio, da cui volerà verso il nono Cielo del Paradiso. Era il più temerario viaggio ultraterreno dello spirito umano, sotterraneo e al tempo stesso ascensionale-siderale, nonché la più compiuta avventura poetica di un ingegno protorinascimentale attraverso cui l’Italia potesse legittimarsi davanti all’eternità. Opera che per immaginazione, visione e profezia sarà paragonabile solo a quella messa in luce tre secoli più tardi da Shakespeare o da Cervantes. La più vecchia edizione della Divina Commedia è del 1472, stampata a Foligno e che ha riprodotto le copie del manoscritto originale mai trovato. Le tre cantiche che esplorano i tre regni dell’oltretomba contengono ciascuna trentatré canti. I novantanove canti sono introdotti da un canto-prefazione. L’Inferno è diviso in dieci zone (la cupa pianura più nove cerchi d’espiazione); il Purgatorio contiene anch’esso dieci zone e cioè la sponda del mare, la montagna in perfetta corrispondenza della voragine infernale creatasi sulla terra dopo la caduta di Lucifero, sette balze e cornici o ripiani concentrici ai quali si aggiunge il paradiso terrestre; il Paradiso si estende lungo i nove cieli mobili più l’Empireo.
I quattordicimiladuecentotrentatré versi della Divina vengono distribuiti secondo una sottile simmetria nelle tre cantiche. Una stessa asse attraversa l’Empireo, sede di Dio, creatore dei cieli nonché dei beati e le acque ghiacciate della palude infernale Cocito, custodite da Lucifero, capo degli angeli ribelli a Dio, caduto e infisso nel centro della terra, sede del peccato. In fine, ricorderemo che ogni cantica finisce con la parola stelle. La simbologia disseminata da Dante ci propone parecchi livelli di lettura: letterale, morale, allegorico e mistico per ciò che riguarda le Sacre Scritture. Facendo finta di raccontare un suo triplice viaggio ante mortem, accompagnato nell’Inferno e nel Purgatorio dal poeta mantovano Virgilio (personificazione della ragione umana) e da Beatrice (personificazione della ragione divina) nel Paradiso, il cristiano Dante fa della sua somma poesia un mezzo di espiazione e redenzione. Il forte messaggio morale è sempre presente nell’aver vituperato i peccati degli umani, nonché nel tentativo di persuadere i peccatori di far ritorno a Dio e pregare per la salvezza della loro anima.
Versioni romene complete della Divina Commedia
Ci fa piacere segnalare qui le illustri versioni complete in lingua romena offerte, la prima dal nostro poeta classico George Coşbuc, curata e stampata con i tipi della Casa Editrice «Cartea Românească» dall’illustre romenista Ramiro Ortiz tra il 1924 e il 1932 (ristampata e annotata negli anni ‘60 del secolo scorso, tra gli altri, dal professor Alexandru Balaci, autore anche di una ragguardevole monografia-saggio Dante, Editura Gramar, 1995), nonché la seconda edita dal professore italianista Alexandru Marcu (traduzione in prosa, stampata a Craiova presso l’Editrice Scrisul Românesc tra il 1933 e il 1934). La terza traduzione, firmata da Ion A. Ţundrea, ebbe un destino assai curioso: L’Inferno uscì nel 1940, e solo mezzo secolo più tardi, nel 1999, fu stampata l’intera trilogia (con una prefazione di Nicolae Iorga).
La quarta traduzione in romeno della Divina, come si evince dalla nostra nota bibliografica, un vero work in progress, appartiene alla poetessa di Cluj-Napoca Eta Boeriu, moglie del noto romenista italiano Umberto Cianciolo, e che fu stampata a Bucarest nel 1965 presso Editura pentru Literatură Universală, e ristampata più volte: la più recente è del 2006.
Insolito e avventuroso fu il destino di una versione dovuta a un italiano, Giuseppe Cifarelli, nato a Matera nel 1889 e portato a Bucarest dalla madre. Il futuro grande propagatore della cultura italiana in Romania si era laureato in giurisprudenza, economia e commercio. Il manoscritto della sua eccelsa traduzione fu scoperto e stampato 25 anni dopo la morte del traduttore, nel 1958: Dante Alighieri, Divina Comedie, Craiova, Editura Europa, 1993, prefazione e commenti di Alexandru Ciorănescu, curata dal dantologo Titus Pârvulescu, copertina e illustrazioni del compianto artista incisore romeno Marcel Chirnoagă. Traducendo Dante, il discreto impiegato e poi direttore di una banca romeno-italiana, Cifarelli ha dimostrato di essere un grande romenista, un vero scienziato-poeta grazie alla sua versione romena del massiccio trittico dantesco, rimasta inedita per più di 50 anni: aveva combattuto corpo a corpo con la più prodigiosa e proteica fantasia nonché con un’impareggiabile struttura filologica e prosodica che l’Italia abbia dato agli italiani e al mondo. Facciamo un solo esempio per omaggiare il sovrumano sforzo di Giuseppe Cifarelli (rifugiatosi in Italia dopo la guerra insieme alla figlia Letizia), che tenta di rendere perfino le sottigliezze fonetiche di Dante, riproducendo in duplice versione un frammento dell’episodio del personaggio Pier della Vigna, sommo giurista di Federico II e insigne letterato in latino medievale, ma anche promotore del volgare della scuola poetica siciliana. Pier della Vigna viene messo da Dante nella selva dei suicidi: «Allor porsi la mano un poco avante,/ e colsi un ramicel da un gran pruno; e il tronco suo gridò: Perché mi scerpi?/ Non hai tu spirto di pietate alcuno?/ Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi:/ ben dovrebb’esser la tua man più pia,/ se state fossim anime di serpi» / «Atunci întins-am mâna cam cu frică/ dintr-un spin mare un rămuleţ, a frânge/ dar trunchiul lui strigă: De ce adică, mă smulgi?/ Şi-apoi negrindu-se de sânge grăi din nou/ Şi pentru ce mă sterpi ? ci mila pieptul nicidecum ţi-l strânge?/ Oameni am fost şi-acum suntem spini sterpi:/ cădea-s-ar mâna s-ai mai grijulie,/ chiar de-am fi fost doar suflete de şerpi».
L’attualità di Dante
Se per miracolo Dante fosse qui, in carne e ossa, come continua a esserlo con la sua parola, il suo pensiero, la sua anima, noi, dovendone ragionare, lettori dei primi decenni degli anni duemila, vorremmo ripetergli ancora quanto egli stesso scriveva per il mantovano Virgilio: «Vagliami il lungo studio e il grande amore/ che m’ha fatto cercar lo tuo volume?» Dante ha ancora oggi una sua attualità? Può, cioè, interessare ancora questa nostra complessa anima di uomini moderni? E può inserirsi utilmente nel nostro modo di concepire la realtà, di vivere la nostra età, con i suoi interessi, le sue contraddizioni, le sue problematiche, le sue perplessità, le sue avventure? La risposta non può essere che positiva, data la sua opera massima, un «black hole» nella letteratura europea del Trecento, in altre parole un molteplice esprimersi dell’anima moderna che ne entusiasma e ne sconforta, che ne esalta e ne sprona, che ne inorgoglisce e avvilisce, che sembra debba ripiegarsi in una notte senza tempo e invece, come ormai per tanti versi par chiaro, si apre a nuova aurora di nuova vita per nuova età. L’opera sua è pure oggi un fatto sconcertante come fu ai suoi tempi.
Non che mancasse allora una letteratura d’oltretomba, il genere peculiare del Duecento, e non certo a fini solo di diletto estetico. La Visione di San Paolo, il Purgatorio di San Patrizio, la Visione di frate Alberico e poi il De Jerusalem Celesti e il De Babilonia infernali, di Fra’ Gioacchino da Verona, sono documenti ed espressioni a un tempo di un mondo artisticamente rozzo e spiritualmente ingenuo: si tratta di descrizioni, viste in termini di spavento o di diletto, fumo, zolfo, fuoco, per i dannati; nuvole, sole, luce, per i beati; a volte, ci si spinge nelle rappresentazioni sceniche con conseguenze non si sa se tragiche o comiche: come avvenne per quei poveracci che volendo assistere alla rappresentazione dell’Inferno, stando sul ponte di legno sull’Arno, detto della Carraia, venuto a crollare per l’enorme peso, gli spettatori andarono a vedere – osserva maliziosamente il commentatore – come «veramente fosse fatto lo inferno».
Dante capovolge tutta la letteratura, primitiva nella concezione, rozza nell’espressione: coglie la prima, grande intuizione del suo tempo e anticipa le età future. Non dal di fuori, non da fattori esterni può venire a noi gioia o dolore, disperazione o beatitudine. Per capire il senso allegorico di tutta quella rigorosa messa in scena, Dante ci dice: «cercate sotto il velame». Non cercate fuori, non guardate fuori! Guardate dentro, in voi, in interiore homine.
La disperazione muove dal di dentro. L’Inferno, per fare un esempio, non smuove né commuove Farinata degli Uberti: «Ed el s’ergea petto col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno in gran dispetto». L’inferno non tocca Farinata, il nobile ghibellino e avversario politico di Dante che lo colloca tra gli eretici; il suo cuore è in patria, è accanto ai suoi che hanno male appreso l’arte di tornare dall’esilio, sicché aggiunge: ciò mi tormenta più che questo letto.
In Paradiso, entrando nel cielo di Saturno, Beatrice, che sempre di cielo in cielo si è andata arricchendo di splendore, non ride più, che «la bellezza mia – ella dice – che per le scale/ dell’eterno palazzo più s’accende/ com’hai veduto, quanto più si sale/ se non si temperasse, tanto splende (...)». Questo capovolgimento di valori rispetto all’opera di autori precedenti, questo guardar le cose del mondo dal di dentro della propria anima, questo proposito di porre se stesso centro di tutte le cose, e tutto comprendere, tutto giudicare, illuminando e irraggiando della propria personale visione, dei propri particolari sentimenti, costituisce la conquista nuova sulla letteratura dei propri tempi e spinge e sospinge il Poeta verso considerazioni sempre più alte delle età future.
Padre spirituale di Dante, ma anche «maestro di morale», Brunetto Latini è collocato nel girone infuocato e colpito dalla pioggia incandescente che, nel settimo cerchio, punisce i «violenti contro natura». Per la morale ufficiale la sodomia è un male mortale, è colpa che merita l’eterna pena. Lo vuole la Giustizia della Chiesa; il poeta trecentesco l’accetta. Eppure, quando il discepolo Dante incontra il maestro – dopo lo stupore iniziale («Siete voi qui, ser Brunetto?») – non esita a seguire il suo cuore: affetto, ammirazione, riconoscenza. Ser Brunetto, omosessuale, resta grande e degno di riverenza (Dante gli dà del voi, come a Farinata e Cavalcante, come a Beatrice e a Cacciaguida). Il Peccato passa in secondo piano; è l’uomo, sia pur peccatore, con le sue virtù e le sue debolezze, a interessare Dante. Dal poeta-pellegrino nessuna condanna; anzi, un moto di sofferta simpatia, di filiale comprensione. E ammirazione per le doti umane, intellettuali e morali del letterato sodomita («M’insegnavate come l’uom s’etterna»). Una bella lezione di «coraggiosa libertà», sostiene il libro; importante messaggio che - attraverso Dante – il Medioevo manda a noi moderni.
Consideriamo un altro degli episodi a tutti noto: quello di Piccarda, il primo personaggio incontrato nel Paradiso, una delle figure femminili più salienti della Divina, paragonabili a Francesca da Rimini oppure a Pia de’ Tolomei. Piccarda porta in sé la vocazione al nascondimento, anche se a Dante si presenta come l’ombra che pare più mossa di ragionare. Potremo trovare nel Manzoni, dopo sei secoli, un’anima affine per sentimenti e interiorità alla Piccarda dantesca: Lucia! La Lucia della notte sul lago con tutti i suoi pensieri è sorella di Piccarda: ma Lucia con gli occhi saluta, piange segretamente; il Manzoni ha rivestito di parole ciò che Dante esprime col silenzio.
Una stupenda sintesi di epico, lirico e drammatico
Bisognerebbe adesso, sempre nel nome dell’arte, fare un altro salto di quasi duecento anni per arrivare al principio del terzo millennio. Se lo facessimo, se volessimo cogliere la freschezza di alcune rappresentazioni poetiche, anche tra le meno impegnate, non sarebbe difficile. Risulterà così il privilegio quasi divino del Poeta di fissare in fantasmi di poesia momenti e personaggi di un’epoca, di un paese nell’universalità dei sentimenti che son di tutte le età e di tutti i continenti. L’edificio della Divina Commedia esprime una stupenda sintesi di epico, lirico e drammatico. Gli stessi versi sono quanto affascinanti nel loro lirismo, tanto toccanti nel loro drammatismo e tanto incitanti nelle loro suggestioni epiche. Un episodio come il viaggio di Ulisse (Inf. XXVI) può essere interpretato nello stesso tempo da diversi punti di vista: come una sfida lanciata contro gli dei e contro i limiti del mondo, come una prova di solidarietà umana, come una ripresa in chiave intertestuale del personaggio di Omero, ma anche come un viaggio vero e proprio, effettivamente ricostituibile per mezzo di indicazioni geografiche molto precise.
Il messaggio di Dante, donde discende la sua perennità, la sua freschezza, ha il turbine del vento e il fascino dell’ignoto. È il suo messaggio sulla bocca d’ Ulisse, l’uomo di tutti i pericoli e di tutte le esperienze, campione del tormento umano che mai s’acquieta e sempre vuol sapere: «Considerate la vostra semenza! Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e canoscenza»: messaggio di ricerca e di verità, dunque, cerchiamo il vero, l’ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicità. Al vero si congiunge un messaggio di moralità. Ma quale oggi, in questo nostro principio del secondo millennio, la concezione del vero? Quali oggi le leggi della morale? La persona nella sua essenzialità, nei suoi diritti, è al centro di questa nostra età; il suo diritto alla vita, alla casa, al lavoro; la persona nei suoi diritti alla famiglia, alla libertà; la persona nei suoi diritti alla moralità, alla preghiera. A quest’uomo, all’uomo di questa nostra età, di questa nostra civiltà, può Dante, uomo del Trecento, dire qualcosa che non sia commemorazione di cose morte, pur belle, pur nobili, pur degne? Ha diritto la Sua voce a essere ascoltata fuori della ristretta cerchia della cultura scientifica e scolastica?
C’è nell’alta tragedia un messaggio urgente di salvezza per la tragedia nella quale l’anima moderna è inviluppata? La sua stessa persona ne è testimonianza; diciamo la sua persona, non la sua opera, perché in Dante opera e persona s’identificano: l’opera canta o piange quello che la persona vive e soffre: l’una si ritrova nell’altra; egli stesso – il Poeta – vive nella sua opera; il personaggio principale è Lui ; Lui, il protagonista! Lui è al centro e tutto per Lui si fa; è sospesa pur anche la divina giustizia; là, nella bufera infernale che mai non si placa, perché Francesca possa raccontar a lui del suo eterno amore; e il conte Ugolino da Gherardesca solleva la bocca dal fiero pasto (non altro che la testa del suo nemico terreno, Ruggieri) perché per lui, malgrado quella scena di orrore, antropofagia e cannibalismo, rinnovelli disperato dolor. Si direbbe che Inferno e Purgatorio e Paradiso siano al suo servizio. Chi si oppone è perduto: a causa sua devono quietarsi le lanose gote al nocchier della livida palude; come le rane dinnanzi alla nemica biscia, a causa sua, più di mille anime distrutte si mettono in fuga come diavoli; L’Angelo sulla porta del Purgatorio è per lui; per lui San Pietro ragiona ancora di fede, e Jacopo di speranza e Giovanni di carità. Egli è presente nelle sue passioni politiche come davanti a Farinata degli Uberti; nelle sue miserie, come di fronte a Beatrice, quando piange Virgilio che è partito là dove «pianger gli convien per l’altra sponda».
Dante condivide l’amarezza di tutti gli esuli quando nota che «sa di sal il pane altrui» e a lui va tutta una struggente simpatia quando sospira che il suo poema ammorbidisca la crudeltà dei fiorentini e gli ottenga l’alloro di Poeta. Restiamo accanto a Dante che è rimasto senza corona piuttosto che andare in Campidoglio ad applaudire Francesco Petrarca incoronato.
Porta i suoi sogni nell’opera dell’uomo e di uomo politico: il Veltro, cioè il levriero che un giorno secondo la profezia scaccerà la lupa, il simbolo della cupidigia e altri vizi: vedere l’episodio del poeta mantovano Sordello che abbraccia Virgilio, occasione per Dante dell’invettiva all’Italia dominata da guerre e contese anche fra gli abitanti della stessa città, Firenze, il Papato, l’Impero. Egli celebra in sé i valori veri della persona.
Rispetto al richiamo della passione ha la forza di ritrovarsi e di meditare. Rispetto alla suggestione del successo politico, sceglie le vie dell’esilio. Rispetto all’amore del vero che è scuola di piena libertà, non esita a combattere con ogni mezzo possibile e amare, più d’ogni altra cosa, Italia. Né teme per amore di verità di colpire le più alte cime, anzi! Si direbbe ch’egli appartenga all’ordine dei Titani, una volontà mitologica di successo, una coscienza di sé senza limiti di tempo e di conquista, in un’epopea senza fine. Dante è ormai giunto al termine, che è un vertice, del suo viaggio attraverso i tre spazi della fede e dell’immaginazione: la terra è un minuscolo punto negli spazi siderali: «da l’infima lacuna/ dell’Universo, infino qui in Paradiso,/ ha vedute/ le vie spiritali ad una ad una».
Tutto cantando, ha raccolto nel sacrato poema: mattini, tramonti, dolori, speranze, gioie, e poi luci, danze, musiche, e uomini del suo tempo, grandi e piccoli, potenti e miserabili, ladri, asceti, superbi, contemplanti, d’ogni tempo, d’ogni terra, tutto ha cantato, tutto ha giudicato. Egli nessuno ha risparmiato, nemmeno imperatori o principi, nemmeno Vescovi o Pontefici: ma è andato parimenti sempre più se stesso indagando. Virgilio di cui Dante riconobbe che «mi mise dentro a le segrete cose» (Inf. III, 21) dice al poeta fiorentino prima di prendersi congedo: libero dritto e sano è tuo arbitrio. Beatrice, che di cielo in cielo lo ha guidato a terminar lo suo desio muove Bernardo; Bernardo dice la santa orazione. Bernardo prega: «Or questi supplica a te,/ per grazia, di virtute tanto,/ che possa con gli occhi levarsi/ più alto verso l’ultima salute». Tutto il Paradiso prega; prega Beatrice, pregano i Beati, con le mani giunte, questi e quella in un silenzio immenso di Paradiso che rende più toccante la parola, più di sé consapevole la stessa invocazione.
Cuore di cristiano, cuore di Dante
È davvero solo questo cuore, cuore di cristiano, cuore di Dante; non si ha quasi la forza di fare il nome del Signore, solo religiosamente designato: Tutti i miei prieghi – dice San Bernardo – ti porgo e prego che non sian scarsi. Ogni nube di senso che offusca il lume intellettuale si dissolva, resti il ricordo, sia soccorso per tutta l’esistenza; finalmente l’ultima terzina, l’ultimo verso che si fa al Poeta: «Vinca tua guardia i movimenti umani». Dante non è piu l’esule, non è più il fiorentino uomo di parte, non è più il vate: resta di lui soltanto il cristiano, debole, pur se rivestito di gloria, fragile, pur nella sofferta conquista dalla vera libertà.
Da una parte i movimenti umani, cioè i desideri, cioè le passioni, cioè le aspirazioni, la struggente fatica d’una conquista che mai si fa perché sempre piu s’allarga, in termini di sacrificio e di nobiltà, l’umano anelito: l’altra vinca tua guardia, un desiderio di vittoria da parte della Regina delle vittorie, da Maria, umile ed alta più che creatura. La Commedia termina in una preghiera alla Vergine. Alla fine del suo viaggio nel Paradiso, Dante si trova nell’Empireo, la dimora dell’Onnipotente. Vide la quintessenza stessa della beltà e santità in quel regno della beatitudine; gli manca solo la visione di Dio.
Allora, come tutti sappiamo, San Bernardo rivolge una preghiera alla Madonna per conferire al poeta anche questo dono della sublime visione, che include anche il mistero della Trinità nonché quello dell’Incarnazione:
«Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio,// tu sei colei che l’umana natura/nobilitasti sì, che il tuo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura.// Nel ventre tuo si raccese l’amore/ per lo cui caldo ne l’etterna pace/ così è germinato questo fiore.// Qui se’ a noi meridiana face/ di caritate, e giuso, intra i mortali,/ sei di speranza fontana vivace.// Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazia e a te non ricorre,/ sua disianza vuol volar senz’ali.// La tua benignità non pur soccorre/a chi domanda, ma molte fiate/ liberamente al domandar precorre.// In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontate.// Or questi, che dall’infima lacuna/ dell’universo infin qui ha vedute/le vite spiritali ad una ad una,// supplica a te, per grazia, di virtute/ tanto, che possa con gli occhi levarsi/più alto verso l’ultima salute. (...)» –
«Fecioară mamă, a fiului tău fiică,/ smerită şi decât orice altă creatură mai presus/ din timp fără de timp menită să fii sfânt reazem izbăvirii,/ eşti cea ce ai înnobilat stirpea umană/ încât al tău părinte/ nu s-a împotrivit din tine să se nască/ În al tău pântec s-a reaprins iubirea/ cu calda-i rază în eterna pace/ astfel a-nmugurit această floare./ Aici ne eşti făclie-n crugul cerului/ de milostenie; iar jos, în rândul muritorilor,/ eşti de nădejde nesecat izvor./ Femeie, atât de maeiestuoasă şi de graţie plină,/ încât cel ce iertarea vrea şi nu vine la tine,/ dorinţa lui e-un zbor fără de aripi./ A ta-ndurare nu vine doar în ajutorul/ celuia ce cere/ ci-adesea/ vine de la sine - nainte de a fi cerută./ În tine caritatea, în tine pietatea,/ în tine strălucirea, în tine îşi dau mâna/ tot ceea ce-i făpturii bunătatea!/ Acesta ce veni prin cea mai depărtată/ de cer cavernă/ a universului până aici văzut-a/ o groază de fiinţe întrupate-n duh/ iertarea îţi imploră şi puterea sfântă/ să se încumete-n tărie din priviri/tot/mai spre-naltul supremei mântuiri (...)». (Paradiso, XXXIII, 1-27).
Del resto, in una preghiera alla Vergine, in un voto addirittura, fatto alla Vergine, culmina la vicenda che regge un’altra opera, l’opera di un altro grande scrittore italiano ed europeo; la preghiera alla Vergine, nella notte al castello, della rapita Lucia; cuore e mente del cristiano Alessandro Manzoni risolvono il nodo di intricate e scomposte umane passioni nella preghiera. La persona umana, in questa nostra età, è messa per provvidenzialità del reale a dover vivere o respingere questo dramma del dover essere cristiani.
L’uomo sa che accettando di viverlo, il dramma, il dramma dell’esser cristiano, andrà avanti e la civiltà avrà un suo più pieno, più vero, più maturo splendore. II messaggio di Dante, quindi, va oltre, oltre ancora la nostra stessa età; noi non siamo arrivati, non possiamo essere tanto superbi! Egli, Dante, sarà ancora ricordato fra centinaia di anni; ancora e più il poeta sarà vivo, perché di là della poesia, che è tanta, che trabocca, che straripa, vi è in lui il senso vero, cioè cristiano, della vita, che è anelito, che è palpito, che è attesa. E chi vorrà anelare e palpitare e operare, e attendere nel nome di Dio alla sua pace, alla pace della sua persona, avrà, compagno amoroso e operoso, primo tra gli altri, sempre, Dante. Dante forever.
Geo Vasile
(n. 9, settembre 2015, anno V)
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