La favola borghese di Dino Terra

Fuori tempo (1938) ha inizio secondo una procedura ben collaudata della finzione romanzesca: la scoperta d’un manoscritto. Quando? Alla fine di dicembre del 1937; dove? In città eccitanti – prima Parigi, poi Roma –; e infine in un aldilà distante dalla condizione feriale, sì da rendere la vicenda un’avventura picaresca. Il fattaccio si svolge ai Borghi, durante i lavori indetti per sgombrare lo spazio necessario alla ventura Via della Conciliazione. Nonostante la vicinanza al Palazzo Apostolico, la zona era nota per certi mestieri sconsigliati a un buon cristiano, cortigiana o boia, in uno spettrale rinnovo della corrispondenza tra eros e morte, accostabile alle peripezie freudiane (che Terra conosceva profondamente).
Il protagonista è Riccardo, un giovanotto perbene e in salute, tornato alla capitale, dove aveva frequentato il ginnasio, per una vacanza conclusa con una festa in Via Margutta, tra artisti, si suppone. La serata dev’essere stata un gran successo, dato che perde il treno per Napoli; ma poco male: prenderà quello del mattino. Così si mette a fare l’annoiato flâneur da Piazza Venezia fino a Castel Sant’Angelo, dove può riposare nel giardino «voluttuosamente, rendendo fervide grazie ai costumi, nonché alla sollecitudine del Governo dell’Urbe» (p. 13). Su questa lode, senz’altro sollecitata dalla notte, dalla quiete, dal posto sontuoso, Riccardo s’abbandona a una malinconica e pessimistica riflessione sul tempo, che scorre e porta, con insuperabile indifferenza alla Fine, con il rischio d’essere, per l’appunto, “fuori tempo”.
   

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Carlo Socrate, Veduta del Tevere con San Pietro prima della demolizione della Spina di Borgo,
ante 1936, collezione privata


È dunque in questa realtà fantastica che Riccardo incontrerà il dottor Leo Vario, bizzarro antagonista; e dopo una prima ma debole resistenza, si lascerà sedurre da quest’individuo che, un po’ in preghiera un po’ come un comando, gli parla come dall’altro mondo entrando così dal mondo reale e storico (Roma e il Fascismo) in quello della fiaba. È importante sottolineare questo scambio di genere letterario: e non tanto per amor di classificazioni ma per mettere in lume l’inusuale, e rischiosa, scelta di Terra. Non, dunque, un compiuto racconto di fantasia e nemmeno d’avventure, dato che la grande impresa del furto dei libri segreti dell’Alta Scienza dei Faraoni era già stata pensata, organizzata e avviata prima e altrove, ma qualcosa di diverso, più confuso e innovativo. Da questo momento ciò che conta per davvero è il principio stregonesco, cantilenato al ritmo di una formula o una stregoneria con l’inventario del bottino che dei testi segreti e arcani (cfr. p. 22). 
Ora, e ancora per caso, Riccardo si ritrova «al posto giusto, nel momento giusto», e mi pare interessante rimarcare che il ragazzo borghese non mostri né terrore né gioia davanti all’evento ma ostenti un invidiabile self-control (cfr. p. 23). Ebbene, messo da parte qualsiasi cruccio etico, l’antica morale splendente [1], la scommessa su tempi migliori è ormai persa: si è fuori tempo. Prova di tale esito è anche il finale, e non tanto l’assassinio di Oreste (vale a dire della Bellezza), quanto la constatazione che più nessuno aspiri alla scomparsa del Male. A governare è l’indifferenza. Questo miserevole stato s’invera appieno in Riccardo che, dopo la scoperta del delitto, è incapace di rimettere le cose a posto (come succede invece nei gialli) o, almeno, da onesto cittadino, di andare al commissariato per sporgere denuncia, nonostante creda «dire di non essere punto pusillanime» (p. 28).
Insomma, si rende complice. È lui che alienerà il cadavere e in modo disonorevole dannerà all’oblio quell’adolescente tanto adorato. Quest’elemento, per nulla secondario, viene messo alla prova dall’incontro sventato con i carabinieri, in cui a preoccuparlo non è la coscienza, ma l’istinto di farla franca, con Leo e Riccardo a far la parte del Gatto e della Volpe.
Da ultimo, dopo il viaggetto sgangherato, i due arrivano nella casa di campagna. Lì nessuna effervescenza, né paura. In quell’inaudita e irreale situazione il nostro giovin signore, si scopre essere fratello o copia di Michele Ardengo, «pressoché insensibile alle emozioni; stufo di novità» (p. 26) e capace addirittura di dormire «saporitamente sino a mezzogiorno» (ibid.).
Da questo momento i personaggi sul palcoscenico sono essenzialmente tre: Riccardo, che ha la parte del ragazzo smarrito (Cappuccetto rosso o Pollicino), il mago e Oreste, il ragazzo un po’ Bella Addormentata, o Giulietta, se si pensa che prenderà sonno dopo aver bevuto la pozione, o Lucrezia machiavelliana, o Turandot: «Del resto la sua penosa infermità, quella siderea lontananza del sordomuto contribuiva all’alone di mistero. Rappresentava i sentimenti col giuoco del viso come una vaga romanza, e gli occhi stracarichi di cose (cose distanti)» (p. 29) [2].
Oreste, malgrado l’imperfezione data dalla malattia e un’ambiguità preoccupante, raccoglie in sé le qualità apollinee: il ruolo della luce, dell’armonia e dell’AM-ore/AM-icizia. Tutto ciò, però, verrà calpestato con una violenza insensata e che ancora offende. Più in là il sentimento per Oreste diventerà più profondo, perfino si lasciano immaginare delle tenerezze adolescenziali e «una così bella affettuosità, intrecciata a sottili calde premure» (p. 54). La delicatezza di Oreste e l’attaccamento dei due daranno ragione a qualche preoccupazione e provano il sospetto di ambiguità sessuale.
La frequentazione porta Riccardo a fargli comprendere il linguaggio di Oreste, a sciogliere quelli che fino ad allora erano stati degli incomprensibili suoni per quello ch’erano veramente: il linguaggio della poesia, «la lingua d’Omero» (ibid.). Si capisce che Terra desideri rimarcare l’appartenenza di Oreste al mondo classico attraverso diverse immagini. La prima è data dalla fuga, legata a Virgilio e la solenne pietas di Enea, «senza por tempo in mezzo me lo buttai sulle spalle e fuggii piegato dal fardello» (p. 80).
Dico «immagine» perché tra i fogli che precedono il testo c’è un disegno, delicatissimo, che riprende la nota iconografia e in cui Riccardo ha preso le parti di Pilade. Euripide ritorna con il richiamo del panno ricamato che Elettra usò per avvolgere e salvare il fratello (cfr. p. 49 e p. 74).

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Ora, in un doloroso contrasto, esso viene sostituito da un tappeto che invece di rendergli la vita servirà a sbarazzarsi del suo corpo stanco: «Più tardi, involto in un tappeto, lo caricammo di nascosto, aiutati dalla notte, in una Balilla noleggiata, e risalito il Tevere fino a Castel Porziano, gettammo la salma nel fiume» (p. 86).
Altrettanto affascinante, ma nel ruolo della figura dionisiaca, nascosta, sensuale e irrazionale, è la strega; ma pure lei ambigua, già dal nome Astrea che dovrebbe far pensare alla bontà delle stelle, ma non è classificabile in una sola categoria, è mutevole e inspiegabile; e se anche qui si vuol dare una correspondance musicale, si dovrebbe pensare al Flauto magico.
In conclusione c’è il deus ex machina, comicamente e letteralmente uscito da un’automobile, e presentato dallo scrittore-artista sia in un ritratto/caricatura (cfr. p. 6), sia in una descrizione precisa e spigolosa che porta alla mente qualche personaggio storico o, per la medesima e capricciosa precisione, rendere vago e irriconoscibile alla censura l’identità della Eminenza Apocalittica (cfr. p. 70).
La cuoca, «stupida creatura che aveva il dono del silenzio» (p. 38), è una deliziosa comparsa, cui spetta di alleggerire la pesantezza della prigionia in cui si ritrovano Riccardo e Oreste. Inciampa, cade, è vispa e stupida come un Catarella camilleriano.
I luoghi sono Roma, simbolo della civiltà, ordinata e vitale e reale, del mondo, però, dove la verità è sommersa sotto la tomba d’un imperatore; e la Città è principio e fine della storia: prima una catabasi e alla fine l’anabasi che riconduce i ragazzi, dopo la picaresca traversata della campagna, nel luogo noto in cerca di protezione e salute. Si tratta di una corsa che propone i toni infernali della Commedia, con le «tre megere dalle gambe di scrofa» (p. 78). Al di là dello spazio urbano e del prato pagano, il centro del racconto si svolge in un’assolata, afosa casa, spersa in una valle.

In breve, da questa teoria di personaggi e dall’ambientazione s’intuisce come il mito, e in senso romanzo la favola [3], abbiano fornito all’autore il modello su cui costruire ragionamento narrativo: una scelta, anch’essa, che rompe con le convenzioni, perché né i riferimenti alla letteratura classica hanno intenzioni classicistiche, né quelli alla favola vogliono ammaestrare la morale; anzi, egli ne capovolge la struttura con un finale orrido e, soprattutto, insensato, dato che a vincere saranno la malizia, la scaltrezza. Tutto è concesso pur di ritrovare la quiete, il benessere borghese.
Fiabe, dunque, vicine al temperamento di Bontempelli, alle atmosfere di de Chirico, Oppi, con una scrittura che incoraggi l’aspetto esoterico e sovrannaturale come strumento per andare controcorrente e provare a sovvertire la sensibilità in voga. Questo tentativo politico va posto nell’anima del suo tempo che, oltre all’arte e alla letteratura [4] contemporanee, concede attenzione all’antropologia [5] e riscopre una tradizione che in Italia aveva avuto precedenti illustri: penso ai conti medievali, i bestiari, la stessa Commedia o certi tratti della Vita nuova, Pico, il De sensu rerum et magia di Campanella, lo stesso Furioso (e, di conseguenza, Tasso) ecc. Come mai, allora, Terra intraprese questo percorso che mise da parte il naturalismo, la banale mimesi, tanto però da rivelarsi alla fine anche più realista di quei libri (odiosamente) e programmaticamente realisti? Perché «gli immaginisti esaltavano l’immagine intesa non come “fantasma”, ossia simulacro, ma piuttosto come “qualche cosa più della realtà”».


Gandolfo Cascio
(n. 5, maggio 2024, anno XIV)




* Questo saggio è la rielaborazione dell’introduzione a Dino Terra, Fuori Tempo, Marsilio/Fondazione Dino Terra, Venezia, 2021. Da quest’edizione sono riprese le citazioni.


NOTE

[1] Cfr. D. Terra, L’Amico dell’Angelo (1927), ora in Id., L’Amico dell’Angelo · Riflessi, a cura di S. Calderoni, Marsilio/Fondazione Dino Terra, Venezia, 2016.
[2] Corsivi miei. Un altro possibile riferimento a Puccini potrebbe riscontrarsi nella scelta di rappresentare una delle prime scene del romanzo al Castel Sant’Angelo, come nell’atto III di Tosca.
[3] Da notare che La favola delle favole è il titolo centrato della recensione di A. Benedetti, in «Omnibus», 7 gennaio 1939.
[4] Si pensi alla Italie magique (1946) curata da Contini, con testi di Palazzeschi, Baldini, Lisi, Zavattini, Morovich, Moravia, Landolfi, e Bontempelli.
[5] Tanto per dire, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo di de Martino, verrà pubblicato da lì a poco (1948).
[6] D. Marcheschi, La figura e le opere di Dino Terra: originalità e complessità di un protagonista del Novecento letterario, in La figura e le opere di Dino Terra nel panorama letterario ed artistico del ’900, a cura diEad., Marsilio/Fondazione Dino Terra, Venezia, 2009, p. 21.