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L’ultimo Pasolini, nostalgia di un'irriducibile passione sociale
Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità. (Pier Paolo Pasolini, Siamo tutti in pericolo)
Nell’ultima parte della sua vita Pier Paolo Pasolini si è dedicato ad un’intesa attività pubblicistica di impronta pedagogica (cfr. P. P. Pasolini, Gennariello, in Lettere luterane, Einaudi, Torino 2003 e F. Sollazzo, Pasolini, «Lettere luterane», in «CriticaMente», 13/01/2010). Tuttavia, stanti le sue considerazioni sulla società, non credo che tale attività si possa derubricare unicamente come progetto pedagogico, ritengo invece che essa rappresenti anche, da un lato, un chiarimento pubblico con se stesso e, dall’altro e soprattutto, un atto creativo incontenibile e inconsumabile: «I sociologi su questo si sbagliano, devono rivedere le loro idee. Loro dicono che il sistema mangia tutto e assimila tutto. Non è vero, ci sono delle cose che il sistema non può assimilare, non può digerire. Una di queste, per esempio, è proprio la poesia, perché secondo me è inconsumabile. Uno può leggere migliaia di volte un libro di poesia e non consumarlo. La consumazione è del libro, è dell’edizione, ma non della poesia (…) E così il cinema» (P. P. Pasolini, Pasolini rilegge Pasolini, Archinto, Milano 2005, p. 65. Cfr. anche Id., La poesia inconsumabile, in YouTube, 06/11/2011, e Id., Che senso ha scrivere?, in YouTube, 02/08/2012, e inoltre E. Golino, Pasolini, il sogno di una cosa: pedagogia, eros, letteratura dal mito del popolo alla società di massa, Il Mulino, Bologna 1985 e A. Spadino, Pasolini e il cinema 'inconsumabile', Mimesis, Milano 2012).
Tutta questa sua ultima produzione, non solo pubblicistica ma variamente articolata e caratterizzata da uno specifico linguaggio col quale si vuole dar conto della mutata realtà, ruota attorno ad un preciso asse tematico: la «mutazione antropologica». Nel presente scritto si cercherà di chiarirne alcuni possibili fraintendimenti e soprattutto di restituirne il significato originario, operazione possibile solo sforzandosi di passare attraverso gli occhi dell’Autore. Significato che appare come tragicamente attuale poiché l’argomentazione pasoliniana, costruita sull’analisi degli italiani del secondo dopoguerra, sembra oggi potersi applicare a tutto l’allargato Occidente, come peraltro egli stesso aveva osservato: «il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico» (P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 322, corsivo mio).
Il consumismo e l’edonismo
I libri che raccolgono l’argomentazione dell’ultimo Pasolini sono principalmente Lettere luterane e Scritti corsari. Grazie ad essi si può ripercorrere la descrizione di una radicale trasformazione dell’uomo, veicolata da due fattori necessariamente e intimamente connessi: il consumismo e l’edonismo (riuniti nella fortunata formula di edonismo consumistico).
Il consumismo è infatti un fenomeno che si basa su una capacità attrattiva che spinge le persone a conformarsi ad esso, ad aderirvi, a desiderarlo, a praticarlo, questa forza è appunto l’edonismo. Questa dinamica è di particolare importanza perché è così che nasce, per la prima volta nella storia del genere umano, un Potere (impersonale e onnipervasivo) che non ha più la necessità di andare verso i singoli per assoggettarli ma, al contrario, li calamita a sé (Questo è il tema attorno a cui orbita la produzione giovanile del cosiddetto periodo romano, cfr. Id., Accattone, 1961, Id., Mamma Roma, 1962, Id., Una vita violenta, Garzanti, Milano 2008, Id., Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 2009 e F. Sollazzo, Appunti sulle opere romane di Pasolini, in «Pagine corsare», 13/10/2012).
Si determina così quella omologazione, che investe tutto e tutti, passando attraverso le dimensioni vitali per eccellenza: quella linguistica e quella corporea [1].
L’omologazione consiste, infatti, in un processo di reificazione, di riduzione della vita a cosa al fine di poterla amministrare, dominare: tutta la vita e la vita di tutti è ridotta a oggetto di dominio. Inoltre, tale reificazione è univoca, poiché il Potere che la produce non lascia alcun margine di alternativa a se stesso. Vi sono quindi nel fenomeno dell’omologazione due nuclei problematici che si sovrappongono: la riduzione della vita a cosa e l’univocità di tale cosa. A questi nuclei problematici corrisponde la perdita di due aspetti fondamentali del passato: l’autenticità e la molteplicità. Questa è la «mutazione antropologica»: dall’autenticità pluralistica all’oggettivazione univoca. Quel che Pasolini intende con mutazione antropologica è quindi la scomparsa delle differenze autentiche, ovvero di una molteplicità di modi diversi di poter essere autenticamente uomini (le differenze che si riscontrano nella società dei consumi sono mere funzioni di tale società, (ri)producono vari personaggi che, nei loro discorsi, nel loro abbigliamento, nella loro corporeità, sono preconfezionati dalla società esistente, che offre così false alternative, irreale libertà; di questo si tratta in particolare ne Il “discorso” dei capelli, apparso nel 1973 sul «Corriere della Sera» come Contro i capelli lunghi, e nella scena della Visione di Petrolio).
A questo si riferisce nel noto articolo delle lucciole, emblematico di tutto l’ultimo tormentato scorcio della riflessione pasoliniana: «Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante del passato: e un uomo anziano che abbia tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può avere i bei rimpianti di una volta.) Quel “qualcosa” che è accaduto una decina d’anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”» (P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2007, p. 129). Fuor di metafora: «Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione (…) I giovani – svuotati dei loro valori e dei loro modelli – come del loro sangue – e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere e di concepire l’essere: quello piccolo borghese» (P. P. Pasolini, Lettere luterane, cit., pp. 154-155).
Sulla mutazione antropologica
La mutazione antropologica è potuta avvenire grazie a degli specifici vettori che hanno veicolato determinati contenuti. Infatti, scrivendo all’immaginario destinatario del suo scritto pedagogico, Gennariello, Pasolini afferma: «Le tue “fonti educative” più immediate. Tu penserai subito a tuo padre, a tua madre, alla scuola e alla televisione. Invece non è così. Le tue fonti educative più immediate sono mute, materiali, oggettuali, inerti, puramente presenti. Eppure ti parlano (…) Hanno un loro linguaggio. Parlo degli oggetti, delle cose, delle realtà fisiche che ti circondano» (Ivi, p. 31). Questo perché ogni singola cosa è un segno linguistico che esprime e comunica un significato. L’intero mondo quindi è una dimensione semiologica nella quale le persone sono costantemente e completamente (e, spesso, inconsapevolmente) immerse, ricevendo quindi la lezione che tali simboli, le cose, impartiscono. E poiché tale lezione è ricevuta in maniera assoluta e incessante (e, spesso, inconsapevole), l’esposizione, inevitabile, ad essa fa sì che le cose siano gli educatoriper eccellenza. «L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito» (Ivi, p. 36).
E tale educazione avviene in forma autoritaria e repressiva poiché le cose non ammettono repliche: «Il loro [delle cose] linguaggio è inarticolato e assolutamente rigido: dunque inarticolato e rigido è lo spirito del tuo apprendimento e delle opinioni non verbali che in te, attraverso quell’apprendimento, si sono formate. Su questo siamo due estranei [Pasolini e Gennariello], che nulla può avvicinare» (Ivi, p. 41) [2].
A proposito delle cose «bisogna tenere ben presente l'assioma primo e fondamentale dell'economia politica cioè che chi produce, non produce merce ma rapporti sociali» (Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, p. 2840). Ovvero, il modo in cui viene organizzata la vita dei membri di una società determina specifici rapporti sociali e relazioni interpersonali fra gli stessi, producendo così un certo tipo d’umanità. Ed oggi (un oggi pasoliniano che dischiude il nostro oggi) «visto che il modo di produzione è totalmente nuovo, le merci prodotte sono totalmente nuove ed è totalmente nuovo il tipo di umanità che viene prodotto (…) Sono caduti dei valori e sono stati sostituiti con altri valori. Son caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti con altri modelli di comportamento. Questa sostituzione (…) è stata imposta dal nuovo Potere consumistico, cioè, la grossa industria italiana plurinazionale e anche quella nazionale degli industrialotti voleva che gli italiani consumassero in un certo modo e un certo tipo di merce e per consumarla dovevano realizzare un altro modello umano. Ecco, un vecchio contadino, tradizionalista e religioso, non consumava delle sciocchezze reclamizzate dalla televisione. Ora bisognava fare in modo che invece le consumasse» (Ibid. e Id., Consumismo genocidio delle culture, in YouTube, 30/06/2011, corsivo mio. Cfr. anche il film di L. Betti, Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno, 2011) [3].
In un simile scenario, sempre più compromesso da una spinta reificazione, solo il «sentimento del bello» di un uomo di cultura può (ri)articolare un linguaggio che sia alternativo a quello delle cose, della realtà data; aspetto, questo, spesso lascato cadere o etichettato come estetismo in senso dispregiativo, senza comprendere l’importanza del precipitato sociale di tale questione: «Ciò mi dà il diritto a non vergognarmi del mio “sentimento del bello”. Un uomo di cultura (…) non può essere che estremamente anticipato o estremamente ritardato (o magari tutte e due le cose insieme, com’è il mio caso). Quindi è lui che va ascoltato: perché nella sua attualità, nel suo farsi immediato, cioè nel suo presente, la realtà non possiede che il linguaggio delle cose» (Ivi, p. 40).
Le cose quindi, benché strumentalmente utilizzabili in vario modo, sono ben lungi dall’essere neutrali. Ogni oggetto è portatore e emanatore di una specifica forma di razionalità, con la quale si entra in contatto (il più delle volte assorbendola acriticamente) quando si entra in contatto con l’oggetto stesso. Questo avviene, evidentemente, con tutte le cose, quindi anche con quelle del mondo «preindustriale» e «paleoindustriale», e tuttavia solo ora, nella modernità, meglio, in questa modernità, le cose cambiano radicalmente il loro linguaggio e dunque il contenuto del loro insegnamento. Si produce così una svolta epocale. «Fino al Cinquanta, ai primi anni Sessanta (…) le cose erano ancora cose fatte da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo (…) Non è cambiato, però, il linguaggio delle cose (…): quelle che sono cambiate sono le cose stesse. E sono cambiate in modo radicale (…) Il mondo ha eterni, inesauribili, cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del mondo. E allora il cambiamento è, appunto, totale» (Ivi, pp. 43 e 42).
Questo ha reso possibile la mutazione antropologica, che in Italia ha avuto anche uno specifico andamento geografico: da Nord, emblematicamente rappresentato dalla produttività di Milano, a Sud, per questo nel suo lavoro pedagogico, rimasto incompiuto per il suo assassinio, il Nostro immagina di rivolgersi ad un ragazzo di Napoli: «è una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e te, quindicenne (…) Il salto tra il mondo consumistico e il mondo paleoindustriale è ancora più profondo e totale che il salto tra il mondo paleoindustriale e il mondo preindustriale. Quest’ultimo, infatti, è stato superato definitivamente – abolito, distrutto – soltanto oggi. Fino a oggi è stato esso a fornire i modelli umani e i valori alla borghesia paleoindustriale: anche se essa li mistificava, li falsificava e li rendeva talvolta orrendi (com’è successo col fascismo e in genere con tutti i poteri clerico-fascisti) (…) La verità che dobbiamo dirci è questa: la nuova produzione delle cose, cioè il cambiamento delle cose, dà a te un insegnamento originario e profondo che io non posso comprendere (anche perché non lo voglio). E ciò implica un’estraneità tra noi due che non è solo quella che per secoli e millenni ha diviso i padri dai figli» (Ivi, pp. 41e 43-44, corsivo mio).
E tale processo non è certamente un fatto locale, ma riguarda tutto il mondo occidentale e occidentalizzato. Al ritorno da un viaggio nello Yemen infatti scrive: «In quanto regista ho visto (…) la presenza “espressiva”, orribile, della modernità: una lebbra di pali della luce piantati caoticamente – casupole di cemento e bandone costruite senza senso là dove un tempo c’erano le mura della città – edifici pubblici in uno stile Novecento arabo spaventoso (…) oggetti di plastica, scatolame, scarpe e manufatti di cotone miserabili, pere in scatola (provenienti dalla Cina), radioline. Ho visto insomma la coesistenza di due mondi semanticamente diversi, uniti in un solo e babelico sistema espressivo (…) Il fatto che esso [il vecchio Yemen] richiede un’abiura da parte degli yemeniti pare agli speculatori (…) qualcosa di perfettamente naturale: gli yemeniti devono essere del tutto consenzienti a proposito del loro genocidio: culturale e fisico, anche se non mortale, come nei lager (…) proprio in questi ultimi anni mi sono convinto che la povertà e l’arretratezza non sono affatto il male peggiore. Su questo ci eravamo tutti sbagliati. Le cose moderne introdotte dal capitalismo nello Yemen, oltre ad aver reso gli yemeniti fisicamente dei pagliacci, li hanno resi anche molto più infelici. L’Imam (il re cacciato) era orrendo, ma il consumismo micragnoso che l’ha sostituito non lo è di meno» (Ivi, pp. 39-40 e cfr. il suo documentario, Le mura di Sana, 1970, in cui rivolge un appello all’Unesco affinché protegga la città e il Paese tutto dalla distruzione consumistica). Un passo che dice molto anche sulle ultime transizioni politico-sociali, da quelle avvenute nell’Est Europa nel secolo scorso alla attuale cosiddetta «primavera araba».
La possibilità di salvarsi da una simile degenerazione sembra ormai annichilita dal fatto che quella particolare «sensibilità estetica», necessaria per comprendere la realtà, è oscurata dalla civiltà dei consumi e così incomprensibile ai più. «Il mio estetismo è inscindibile dalla mia cultura (…) la mia cultura (coi suoi estetismi) mi pone in un atteggiamento critico rispetto alle “cose” moderne intese come segni linguistici. La tua cultura, invece, ti fa accettare quelle cose moderne come naturali, e ascoltare il loro insegnamento come assoluto» (Id., Lettere luterane, cit., pp. 40-41). È per descrivere questo scenario che Pasolini conia un particolare vocabolario, di cui sono esempi emblematici le espressioni: «nuovo fascismo consumistico», «Nuova Preistoria», «Dopostoria» [4].
Ma in Pasolini è presente non solo una complessa pars destruens di questa modernità, ma anche l’apertura, che spesso sfugge alla Critica, ad una possibile pars costruens, passante attraverso il gesto del Rifiuto; ma rifiuto di cosa?
L’analisi della realtà
Per comprendere l’Opera pasoliniana, quindi anche l’ultima intensa fase, si deve comprendere come la sua analisi della realtà sia totalmente altro da un’analisi sociologica. Egli non è affatto uno scienziato sociale che analizza con razionalità e distacco la realtà. Al contrario, la sua visione nasce sempre dalla passione per e dalla compromissione con la realtà e dunque, e soprattutto, con chi con la propria vita determina quella realtà: «Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne e ossa che lo circondano. Chi invece protesta con tutta la sua forza, anche sentimentalmente, contro il regresso e la degradazione, vuol dire che ama quegli uomini in carne e ossa. Amore che io ho la disgrazia di sentire» (Id., Lettere luterane, cit., p. 28). Per questo: «Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo (…) È da un’esperienza, esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici» (Id., Scritti corsari, cit., p. 107). E questa sofferenza, derivante dalla delusione di un amore tradito, quello verso l’uomo che è stato e verso l’uomo che potrebbe essere, non può che portare ad un’abiura di quell’amato: «Il crollo del presente implica anche il crollo del passato» (Id., Lettere luterane, cit., p. 73). Infatti: «I famosi sottoproletari delle borgate romane non si manifestarono come cristiani [si allude ad una particolare visione pasoliniana del protocristianesimo primitivo, che non è semplicisticamente e banalmente povertà e moderazione, ma sacralizzazione della realtà], accettarono il boom, accettarono il boom anche loro. Cioè prima ancora di comprare le cose, accettarono una scala di valori basata sul consumismo (…) E allora andava in forse tutto, andava in forse la rivoluzione russa che si imborghesiva (…) andava in forse la rivoluzione cinese, che probabilmente avrebbe fatto la stessa fine, cioè si sarebbe imborghesita (…) E Pasolini invece (…) voleva la purezza» (A. Moravia, Pasolini poeta civile, in «Italian Quarterly», n. 82-83, 1980-1981, pp. 9-12). Ma, in verità, la sparizione di quell’amato segna la scomparsa del Poeta: «La morte non è / nel non poter comunicare / ma nel non poter più essere compresi» (P. P. Pasolini, Bestemmia, cit., p. 746). Pertanto: «Non ho un destinatario. Non so più a chi mi rivolgerei» (Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 1448).
La nostalgia di Pasolini
Come conclusione del presente scritto vorrei richiamare l’attenzione del Lettore su un pericoloso fraintendimento nel quale troppo spesso si incorre affrontando Pasolini (cfr. F. Sollazzo, Brief Remarks on the Pasolini’s Conception of “Anthropological Mutation”, in «Café Boheme», 02/12/2012, e Id., Alcuni possibili fraintendimenti sulla “mutazione antropologica” in Pasolini, in YouTube, 21/01/2013, intervento tenuto in occasione della Tavola rotonda Attualità di Pasolini “corsaro” svoltasi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga il 24/10/2012), il chiarimento del quale dischiude la prospettiva pasoliniana (spesso lasciata cadere proprio a seguito di tale fraintendimento) di una possibile (ma ancora percorribile?) salvezza.
Il problematico equivoco consiste in questo: poiché Pasolini in tutta la sua Opera ha sempre criticato la modernità e ha sempre apologizzato il passato, ciò starebbe a significare che egli è un nostalgico del passato, un conservatore, forse finanche un reazionario, che come soluzione ai mali da lui diagnosticati proporrebbe un ritorno al passato, il ripristino del passato, «quasi che un mutamento antropologico fosse reversibile» (P. P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 74) [5]. Questo fraintendimento è evitabile tenendo presente che la critica di Pasolini alla modernità e la fascinazione per il passato non riguardano affatto la modernità e il passato in quanto tali, ma rappresentano invece una critica a questa specifica modernità e una fascinazione per quello specifico passato. Dunque il focus della sua argomentazione non è costituito dalle categorie temporali (passato, presente, futuro) ma dai contenuti di tali categorie: «I no rimplàns ‘na realtàt ma il so valòur. Non rimpiango una realtà ma il suo valore» (Id., La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975, p. 187) (se, ad esempio, i contenuti fossero invertiti, egli avrebbe accusato il passato e apologizzato la modernità, ma ciò non ne avrebbe fatto un modernista/futurista perché, repetita iuvant, il suo discorso non verte sulle categorie temporali ma sui contenuti delle stesse).
Pasolini è certamente nostalgico, ma non di un mitico tempo passato e perduto che sarebbe da recuperare per conservare (una sorta di aurea aetas, leit motiv che spesso oggi purtroppo tormenta i discorsi politico-sociali), ma di un uomo perduto. Ma si badi bene, non perduto nel passato, bensì perduto in senso assoluto, come uomo, poiché non più capace di trascendere la realtà, realizzando così diversi possibili modi di essere uomo. Un uomo cioè non più in grado di incarnare un senso di nostalgia che non è mancanza di ciò che è stato e ora non è più, ma è nostalgia di ciò che ancora non è stato ma potrebbe essere (radice di qualsiasi autentica forma d’Arte). La nostalgia di Pasolini è nostalgia per quell’uomo che è in grado di generare un mondo che alberghi costantemente in sé la nostalgia del possibile. Quindi, proprio poiché il discorso di Pasolini non è un conservatorismo, tale uomo non è esclusivamente il passato sottoproletario delle periferie romane (proiettato poi nel Terzo mondo) ma può essere anche il presente e il futuro uomo della modernità, ma di un’altra modernità, «di un altro sviluppo. (È questo il nodo della questione) (…) [che sia] Alterità (non semplice alternativa)» (Id., Lettere luterane, cit., pp. 170 e 190). Mentre, invece, in questa modernità la pedagogia delle cose dalla quale l’uomo non sa dissociarsi, determina la sua mutazione antropologica, reificandolo. Problematica che si intensifica in quella che Pasolini aveva iniziato a delineare come la fase successiva alla civiltà dei consumi: la civiltà tecnocratica, in cui viene ad (im)porsi «al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo)» (Ivi, p. 191). Ora, in un simile scenario, è individuabile un possibile punto di rottura?
Innanzitutto, la realtà, quindi anche questa realtà, va compresa e per comprenderla (condizione non sufficiente ma necessaria) bisogna viverla, esservi «collusi». Per questo non è da condannare ma da accogliere quell’atteggiamento verso il potere di quanti «in un momento o l’altro della loro vita, in un momento inaugurale, l’hanno amato, perché ciò è naturale, e perché è ciò che provoca poi un odio giustificato» (Id., Petrolio, Einaudi, Torino 1992, p. 250).
Per inciso, a fronte di critiche moralistiche [o (para)analitiche] che a tutt’oggi gli si muovono, e che non dicono nulla su di lui e molto su chi le pronuncia, questa è la ragione del suo girovagare con la sua Alfetta per le periferie delle notti romane: una disperata ricerca dei sopravvissuti alla mutazione antropologica e una volontà di compromissione con la nuova umanità, per comprenderla, per comprendere quel nuovo «sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri» (Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1725). Per questo afferma: «ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose» (Ivi, p. 1726). Ma la notte del 2 novembre 1975, non tornò, e gli interrogativi su quel che accadde non hanno a tutt’oggi trovato risposte soddisfacenti (Cfr. Tg1, Le nuove rivelazioni di Pino Pelosi, in YouTube, 20/12/2011).
È pertanto assolutamente necessario «contaminarsi» con la realtà, viverla col proprio corpo (fuori da ogni bolla speculativa), compromettersi con il Potere, frequentando i suoi luoghi fisici e mentali, insomma, attraversare l’inferno per comprenderlo e poterlo così consapevolmente ripudiare, scongiurando quindi quella inconsapevolezza che gli permette di (ri)prodursi e mantenersi. Questo è il Rifiuto, in tutta la sua assolutezza e follia: «Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali, i pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso» (Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit. 1723-1724).
Ma di fronte allo scenario da Pasolini stesso delineato, resta difficile immaginare dove possa collocarsi l’esercizio di tale rifiuto. Infatti, anche se volessimo far nostra la recente tesi secondo cui le «lucciole» non sono scomparse ma è la nostra capacità di vederle che è svanita (Cfr. G. Didi-Huberman, Le lucciole di Pasolini non sono scomparse, in «la Repubblica», 16/09/2009 e Id., Survivance des lucioles, Minuit, Paris 2009), resta il fatto che il loro mancato riconoscimento inibisce la loro incidenza sulla realtà, fino a determinarne, forse, la irreversibile estinzione, sia pure sotto la forma della non più recuperabile capacità di riconoscerle.
Già negli anni Settanta, alla domanda, di Enzo Biagi, su che mondo sognasse, Pasolini rispose: «Sono, in questo momento, apocalittico, cioè vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze, quindi non mi disegno nemmeno più un mondo futuro» (Id., Pasolini 'apocalittico' su consumismo e media, in YouTube, 30/04/2010). Forse è proprio in quel «in questo momento» che è custodito un ultimo nucleo di possibilità, che però sembra brutalmente e inesorabilmente affievolirsi di giorno in giorno (Per un’esposizione orale di tale tema cfr. F. Sollazzo, Pasolini e la “mutazione antropologica”, video-lezione di Federico Sollazzo, in «Pagine corsare», 27/11/2012).
Federico Sollazzo
(n. 5, maggio 2013, anno III)
NOTE
1. È qui interessante istituire un confronto, a livello internazionale, con simili tematizzazioni: in quegli stessi anni Herbert Marcuse definisce come «unidimensionale» quella società che (a seguito di quella che gli chiama «desublimazione repressiva») blocca e ipostatizza in forme cristallizzate le dimensioni vitali del linguaggio, della sessualità e del pensiero; cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999.
2. Ed ancora, ricordando la sua infanzia: «Trattandosi di un discorso pedagogico inarticolato, fisso, incontrovertibile, esso non poteva essere, come si dice oggi, che autoritario e repressivo. Ciò che mi ha detto e insegnato quella tenda non ammetteva (e non ammette) repliche. Con essa non era possibile né ammissibile alcun dialogo né alcun atto autoeducativo», ivi, p. 35.
3. È inoltre importante notare che in Pasolini gli elementi marxiani, che gli derivano probabilmente più da Antonio Gramsci che da Karl Marx stesso, sono immediatamente declinati in chiave antropologica: «La lotta di classe è stata finora anche una lotta per la prevalenza di un’altra forma di vita (per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di un’altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche – come dire? – razzialmente diverse», P. P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p.190.
4. Alcuni luoghi di emersione di questo vocabolario: «il vero fascismo (…) [è] quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato 'la società dei consumi» (Id., Scritti corsari, cit., p. 241); «L’idea di una nuova preistoria (…) il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico, va verso una nuova preistoria». «Una orrenda “Nuova Preistoria” sarà la condizione del neocapitalismo alla fine dell’antropologia classica, ora agonizzante. L’industrializzazione sulla linea neocapitalistica disseccherà il germe della Storia» (Id., Per il cinema, Mondadori, Milano 2001, p. 2852 e Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1566); « (…) O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d'anagrafe, / dall'orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più» (Id., Io sono una forza del passato, in Bestemmia, Garzanti, Milano 1993, p. 618).
5. Nella sua Lettera aperta a Italo Calvino, Pasolini così scrive: «L’'Italietta' è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? (…) Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no» (Saggi sulla politica e la società, cit., p. 319). E ancor più esplicitamente: «Dove ho scritto che bisogna ritornare indietro? Dove? Vedete punto per punto e io (…) vi dico no: avete capito male, vi siete sbagliati, non intendo affatto ritornare indietro, appunto perché mi pongo i problemi più attuali, fiuto i problemi del momento» (Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 2843-2844). |
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