Il cinema e l’opera di Giuseppe Pontiggia

«Credo che di un libro si debba dire qualcosa di nuovo: altrimenti meglio non toccarlo». [1] Così affermava il grande Orson Welles a un intervistatore che gli chiedeva di un progetto filmico tratto da Delitto e castigo di Dostoevskij, focalizzando perfettamente il problema della cosiddetta trascrizione di un testo letterario sul grande schermo.
Avendo chiaro il fatto che il passaggio da un tipo di scrittura artistica a un'altra assai diversa, il regista (ma anche lo sceneggiatore e tutto il cast tecnico-interpretativo), dunque, deve necessariamente «tradire» l'originale, per evocare comunque lo spirito e il senso voluti dallo scrittore. La fedeltà a un testo letterario è, quindi, elemento sempre ambiguo e opinabile, ma questa situazione ha spesso prodotto film di notevole livello artistico. Quindi, avvicinarsi alle trascrizioni cinematografiche di alcune opere di Giuseppe Pontiggia, pretende uno sguardo complesso, che vada oltre la ricerca dei passi testuali riprodotti, secondo un'ottica superficiale, alla lettera. Semmai, stupisce come il cinema si sia accostato con timidezza all'opera di Pontiggia, il quale, invece, grazie a una sua geniale predisposizione per la creazione dei dialoghi, ma anche per l'impostazione «scenografica» dei suoi libri, sembrerebbe un autore pronto a essere trascritto per il grande schermo [2]. L'autore di Nati due volte, inoltre, amava il cinema, se ne ricorda l'influenza sulla sua formazione, addirittura poetica: «Comunque la prima emozione forte della poesia l'avevo provata vedendo un film western che si chiamava Sfida infernale, dove un guitto, in un saloon, recitava ubriaco Essere o non essere. Mi ricordo che quel monologo mi aveva rivelato la potenza del linguaggio» [3].
La settima arte, non ha, per ora, ricambiato adeguatamente questo interesse; in ogni caso, ci troviamo ad analizzare quattro film che dichiarano di riferirsi o ispirarsi alla produzione letteraria di Pontiggia: Il giocatore invisibile (1985) di Sergio Genni (in realtà, come vedremo, è un film a puntate per la televisione svizzera), Il giocatore invisibile (2016) di Stefano Alpini, Facciamo Paradiso (1995) di Mario Monicelli (da Una goccia nell'oceano divino, tratto da Vite di uomini non illustri), Le chiavi di casa (2004) di Gianni Amelio (molto liberamente da Nati due volte).

Il giocatore invisibile
è un vero e proprio capolavoro letterario, una delle opere più conosciute di Pontiggia, che lo ha pubblicato – dopo le consuete revisioni – nel 1978. È un testo emozionante, potente nella costruzione formale e in quella della trama: non poteva che suscitare l'interesse per una versione cinematografica. Quella più recente di Stefano Alpini è pensata per il grande schermo, con conseguente attenzione alla durata, adeguata alla fruizione di uno spettatore in sala. Genni, invece, ha lavorato su una trascrizione per la televisione e, dunque, abbiamo un «film» diviso in varie parti, quello che, con una definizione tutta italiana, si chiamava «sceneggiato». Iniziamo, quindi, dalla versione per la sala, purtroppo, molto sfortunata dal punto di vista commerciale, perché distribuita malamente nel 2017. Per fortuna, chi vuole vedere il film, può farlo attualmente connettendosi ad una delle maggiori piattaforme di streaming. Alpini si pone di fronte al romanzo, sceneggiato da Paolo Serbandini e Giovanna Massinetti, non per omaggiarlo pedissequamente, ma per recuperare una storia ancora attuale, personaggi credibili anche nel terzo millennio e un messaggio etico-artistico da adattare perfettamente al linguaggio cinematografico. La parola chiave del film è, in tutte le sue accezioni, «tradimento» e, se il libro era «una metafora della scrittura e propone una riflessione sul valore del linguaggio e sul romanzo» [4], la pellicola è una parallela riflessione sul cinema, sulle arti visive. Lo sguardo si sostituisce alla pregnanza significativa della parola nel testo di Pontiggia, riuscendo, pur apparentemente cambiando alcune situazioni, ad arrivare allo stesso risultato espressivo. Così, la lettera malevola pubblicata dalla rivista universitaria «Ateneo» (sostitutiva dell'originale «La parola agli antichi», ma altrettanto definita come un giornale letto da poche persone, ovvero quelle della ristretta cerchia universitaria), che ironizza su un articolo del professore, protagonista della vicenda, stigmatizza, in questo caso, un errore cinematografico. Infatti, il suo «Elogio al tradimento» canta le lodi della trascrizione filmica di Jean Luc Godard del libro di Alberto Moravia Il disprezzo, ma il professore ha visto solo l'edizione francese della pellicola e non ricorda che il produttore Carlo Ponti ha massacrato l'originale girato dal regista (un drammatico, ennesimo «tradimento») e, dunque, le sue osservazioni non possono riguardare le scelte di sceneggiatura e di regia di Godard. È un errore grossolano, ma il docente non insegna storia del cinema, voleva semmai, con un tipico snobismo intellettuale, incensare chi tradisce, come atto artistico. Ecco, il concetto del «tradire» si snoda per tutto il film: chi ha tradito i propri ideali, chi i propri amici, chi la moglie, chi il marito in una sequela di episodi (ripresi per buona parte dal testo di Pontiggia), i quali mostrano non l'elogio di questo sentimento, ma lo squallore sul quale è costruito, producendo esclusivamente amarezza e dolore. Come nel libro «i personaggi parlano di sincerità e di verità, eppure gli eventi, quasi manovrati da un beffardo giocatore, li smentiscono in modo sistematico» [5]. Stefano Alpini, inoltre, sceglie un punto di vista formale che sembra identificarsi con un narratore atto a spiare i suoi protagonisti: le frequenti inquadrature dall'alto, gli stacchi di montaggio dai primi piani ai campi lunghi e lunghissimi, paiono, in un gioco di rimandi metacinematografici, mostrarci come il regista osservi distaccato l'evolversi della storia e il destino mediocre e drammatico dei personaggi, quasi fosse un documentarista.
Il giocatore invisibile di Alpini non soffre neanche di altro tipo di «tradimenti» di sceneggiatura: trasporta, infatti, la vicenda ai giorni nostri e la ambienta non a Milano, bensì a Pisa, ma tutto ciò non allontana il film dallo spirito pontiggiano, semmai lo rafforza. Pisa appare, nella bella fotografia di Antonio De Rosa, una città affascinante ripresa durante il periodo tardo primaverile: solare, col cielo chiarissimo e i suoi quartieri storici resi luminosi, apparentemente lontana dalla metropoli soffocante del testo originale con i suoi nuovi grattacieli da boom economico alternati a giardinetti, villette e cortili, quasi fuori dal tempo. In realtà, servendosi anche della fascinosa location della Scuola Normale e di appartamenti lussuosi e «moderni» adeguati alle esigenze della classe docente narcisistica dei nostri giorni, le dinamiche di un piccolo mondo autoreferenziale, per certi versi provinciale, inficiato da invidie, ipocrisie e miserie umane rimangono inalterate, così come l'aspetto del testo di Pontiggia di una sorta di detection psicologica in ambienti anti noir come quelli accademici, funziona perfettamente anche nel film. L'averlo collocato cronologicamente negli anni Duemila, poi, aiuta a definire meglio la multiforme capacità di essere ipocriti, di avere spazio per mentire serialmente attraverso i nuovi supporti tecnologici. Per mezzo di telefonini, computer, video si può agevolmente spiare, registrare, dire il falso, tradire, mostrare un'immagine alterata, non sincera di sé stessi. Il professore protagonista, a cui Alpini dà un nome (non previsto nel libro), Nari [6], riguarda in continuazione le versioni del Disprezzo, in cui si accumulano i «tradimenti»: di Godard nei confronti di Moravia, di Ponti contro Godard, del cinema sulla letteratura. La figura del professore, allo stesso tempo repulsivo e carismatico, prende vita in una giusta scelta di casting: Luca Lionello lo interpreta con bravura, accentuando il passaggio dalla sicurezza e sfrontatezza iniziale alla patetica sconfitta conclusiva. Se Alpini e i suoi sceneggiatori, poi, hanno, per scelta, appena accennato alla metafora scacchista, fondamentale nel testo di Pontiggia, a parte la sequenza nel circolo dell'incontro con Vicini, il finale, dopo le immagini del funerale di Daverio, è assai riuscito. Il professor Nari fa l'ultima lezione dell'anno accademico su Montale, sottolineando l'importanza nella sua opera poetica del concetto «Codesto solo oggi possiamo dirti/ciò che non siamo ciò che non vogliamo», che sembra essere diventata la descrizione della sua realtà; a questa scena seguono le dimissioni liberatorie del suo assistente e Nari, piccato, lo manda via, ma poi lo spia dalla finestra del suo studio: il ragazzo è felice con i suoi amici, ha realizzato un atto di volontà e di crescita umana e professionale. A un'altra finestra un collega sta guardando Nari e da un computer possiamo vedere un'intervista di Godard sulle nuove tecnologie: il regista francese spiega, secondo le sue riflessioni, cosa vuol dire l'acronimo sms: save my soul, salvate la mia anima...

Il progetto televisivo genniano (produzione svizzera con Reteitalia) di Il giocatore invisibile, intanto, ha la possibilità di soffermarsi su alcune situazioni narrative e su una maggiore definizione dei personaggi, senza eccessive limitazioni di tempo, dato che è stato, nella programmazione, diviso in tre puntate di circa un'ora ciascuna. Inoltre, il cast tecnico interpretativo è di notevole qualità: alla sceneggiatura firmata da Genni e da Marcella Crivelli collaborano la grande Suso Cecchi D'Amico e Silvia Benedicò D'Amico, gli attori sono tutti rilevanti interpreti di cinema e teatro, a cominciare dal bergmaniano Erland Josephson (il professore), Catherine Spaak (Anna), Adolfo Celi (Salutati), Gabriele Ferzetti (Martelli), Roberto Herlitzka (un indimenticabile Daverio), Milena Vucotich (Emma), Elena Sofia Ricci (Sandra), Renzo Palmer (Cattaneo). Una ambiziosa produzione, un po' dimenticata, che andrebbe rivalutata e riproposta. Comunque, anche questa versione, nonostante le opportunità della durata, mette subito in evidenza la scelta e l'adattamento al linguaggio audiovisivo del testo. La scena iniziale riprende un momento significativo, dal punto di vista metaforico, del libro: il professore, in un negozio di antiquariato sta cercando una scacchiera ideale. Come nel testo di Pontiggia, iniziamo a scoprire l'inconscio del personaggio: «Il giocatore di scacchi deve infatti adeguare di continuo il proprio programma alle mosse dell'avversario. L'immagine della scacchiera è un simbolo del tentativo di 'giocare' il proprio destino, ma anche dell'illusione di poterlo pianificare e della vanità di ogni progettazione, dell'inevitabilità tragica con cui si scontrano gli errori e la scelta di fuggire dalle proprie responsabilità [7]. In questo senso viene dato spazio anche alla sequenza nel circolo degli scacchi, appena citata nel film di Alpini, con l'incontro con Martelli, sostenitore della «Difesa siciliana», che, dopo una conversazione, inviterà il collega a giocare una partita e, nell'epilogo (riprendendo puntualmente i dialoghi del romanzo), il docente e Salutati riflettono sulla tecnica del «sacrificio» negli scacchi, che rimanda simbolicamente al suicidio di Daverio. Sempre all'interno delle opzioni di scrittura e registiche, alcune scene sono riprodotte quasi letteralmente, ma scansionate in una narrazione libera dalla presunta fedeltà. Il film televisivo di Genni nella forma è tradizionale ma mai piatto, nell'approfondimento dei personaggi ha un obiettivo preciso: infatti, il vero protagonista non è il professore. Quest'ultimo ci viene mostrato come un anziano docente in crisi con un afflato – probabilmente siamo influenzati dall'interprete – di decadenza bergmaniana: presuntuoso e fiero della sua cultura, preoccupato costantemente di svelare la sua doppia vita, insoddisfatto e accidioso soprattutto sentimentalmente (tutto sommato, né la moglie né l'amante sembrano coinvolgerlo più di tanto, sono solo pedine da muovere per soddisfare il proprio narcisismo), la sua è un'indagine sulle proprie incapacità e superficialità destinata, sin dall'inizio, a fallire e creare disagi. Il professore, «un roditore, uno che si nutre di carta stampata per trasformarla in altra carta», è una sorta di inetto sveviano, un personaggio, nel film, sicuramente poco empatico. Il vero protagonista nella pellicola di Genni è Daverio, interpretato ottimamente da Roberto Herlitzka. Il regista ci mostra il suo scivolare sempre più drammaticamente in una tragica depressione nutrita di frustrazione professionale (lo chiamano «l'eterno secondo» all'università) e sentimentale (Anna, amata da lui, si è sposata con il suo collega e, con una fissazione di tipo adolescenziale, è convinto di riuscire a conquistarla, si rivolge persino a Dio per poterla avere), di gelosia, di ossessività e paranoia di vario tipo (registra le telefonate tra lui e Anna; colleziona inutili carillon), mentre disprezza la moglie («il nostro matrimonio è una tomba»), che cerca di capirlo. Anche lui è ipocritamente incapace di prendere una decisione concreta sul suo futuro, è sempre più lontano dalla dimensione del reale. Il suo dolore si incarna in uno sguardo, che diviene pian piano vuoto, in un corpo quasi roso dall'ansia e il suicidio finale arriva in un momento di amplificata solitudine, quando Anna vuole divorziare dal marito per stare con il nuovo giovane amante, mentre la moglie è in viaggio. Infatti, la «solitudine è fatale per chi è attratto dal suicidio» [8].

Facciamo Paradiso, firmato da Mario Monicelli nel 1995, è tratto, come si è già detto, da uno dei racconti, piccoli capolavori letterari, di Vita di uomini non illustri, pubblicato nel 1993 con notevole successo. Il «micro–romanzo» (come da definizione dei critici) della raccolta pontiggiana scelto da Monicelli per la trasposizione sul grande schermo è Una goccia nell'oceano divino, il quale ha la particolarità, tra gli altri, di trattare la biografia non illustre di una donna nata nel 1949, la più giovane tra i protagonisti del libro, la cui vicenda va oltre gli anni Duemila. Il materiale narrativo sembra, sulla carta, adeguato all’estetica cinematografica di Monicelli. Infatti, «Pontiggia racconta il grigiore delle vite, l'infelicità, le illusioni e gli autoinganni, ma anche le speranze e il sollievo dei brevi momenti di felicità e dei tentativi di riscatto» [9], e in ognuno degli episodi «[...]prende corpo una varietà di registri dal comico al tragico, dall'elegiaco al patetico, tutto controllato da un'ironia discreta» [10]. Per un autore, acuto osservatore della società italiana, che «ha saputo raccontare in modo diverso dalla vulgata ufficiale grandi fatti storici del nostro tempo» [11], la vicenda di Claudia, la quale attraversa, con le mutazioni psicologiche di una borghese sensibile, il boom economico, la contestazione studentesca, il movimento femminista, le mode new age con tutte le contraddizioni esistenziali del caso, poteva essere una grande opportunità di racconto filmico. Peraltro, Monicelli collabora alla sceneggiatura con i suoi fedeli colleghi, giganti della scrittura cinematografica: Suso Cecchi D'Amico, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, mentre la fotografia è di Tonino Delli Colli e il montaggio di Ruggero Mastroianni. La pellicola, però, rimane sostanzialmente un'occasione mancata e, se i critici del tempo probabilmente esagerarono nelle stroncature [12], a fine proiezione si rimane perplessi. Il film inizia nel 1972, quando Claudia annuncia ai suoi genitori di essere incinta. Nel testo la scena è ambientata il 2 maggio, nella pellicola il 7 dicembre, giorno della prima alla Scala di Milano, a cui dovrebbero partecipare i genitori, fermati dalla contestazione, una sequenza questa debolissima nella ricostruzione e sostanzialmente inutile. In seguito, servendosi anche di una voce fuori campo (alquanto fastidiosa), inizia un flashback che racconta la prima gioventù di Claudia, alternando quasi alla lettera le parole del libro a immagini di repertorio. La sceneggiatura si serve del testo di Pontiggia soprattutto per quanto riguarda i dialoghi, adattando, poi, la storia alle preferenze narrative del regista. Così, la figura di Pino (Lello Arena) è dilatata per farlo diventare un tipico personaggio della commedia italiana classica: «comico», un proletario umiliato, ma onesto e migliore dei cinici borghesi intenti esclusivamente a «usarlo». Purtroppo, Lello Arena non riesce a dare nessuna forza empatica al suo ruolo, che risulta essere anche poco approfondito e marginale. Ma tutti gli altri interpreti, compresa la protagonista Margherita Buy, sono come «raffreddati», distaccati, poco credibili nelle loro vicissitudini e nelle loro mutazioni comportamentali. L'unico personaggio dipinto con giusta cattiveria è Lucio (appena nominato nel testo di Pontiggia), il bel contestatore, il quale passa da essere leader del Movimento Studentesco a misero rampante negli anni Ottanta. In questo senso, la scena della discoteca è perfetta. Anche la figura del padre di Claudia ricorda altri genitori bonari della commedia all'italiana ed è per questo che Monicelli ne cassa le relazioni extraconiugali (nel testo divengono un ennesimo tratto di ipocrisia borghese) e lo fa morire – per le conseguenze di una assurda esplosione – prima della moglie. La parte finale del film è quella maggiormente confusa a livello di scrittura. Dalle sequenze nel villaggio in Mozambico con la malattia e la morte di Pino (incomprensibile il ruolo dello stregone) al matrimonio di Eleonora (la seconda figlia di Claudia), la quale si sposa col nipote di Bossi (!) e al velo bianco lanciato dall'elicottero alla madre, sdraiata sull'erba insieme ai suoi compagni per una delle pratiche mistiche della Comunità dei Solari, si affastellano situazioni poco chiare e spiazzanti. L'elemento, comunque, mancante, oltre il disegno narrativo solido, è quella dose di grottesca ironia, spesso sferzante e poco rassicurante, che attraversava il «micro–romanzo» di Pontiggia.

Le chiavi di casa (2004) nasce come un progetto di Gianni Amelio ispirato a Nati due volte, forse il romanzo più famoso di Pontiggia, quello in cui l'autobiografismo si plasma in forma narrativa emozionante grazie anche all'uso della prima persona. Non solo, però, il professor Frigerio deve confrontarsi con la realtà modificata dalla disabilità del figlio, ma è «Tutta la nostra società di ‘normali disabili’ è spietatamente messa a nudo, con la logica in apparenza inappuntabile dei sani, con il culto del corpo, dell'immagine, della prestazione, quasi che la vita fosse una gara» [13]. Insomma, come si vede si tratta di una tematica aderente al cinema di Amelio, un regista sensibile alle sfumature psicologiche e sociali. Così, appunto, Nati due volte doveva diventare una sua trascrizione per il grande schermo. Ma, nonostante alla vigilia delle riprese i giornali ancora affermassero la derivazione del film dal libro di Pontiggia [14], come ha raccontato Gianni Amelio, la realizzazione si complicò. La produzione, infatti, aveva chiesto al regista calabrese di sceneggiare il libro, ma «Io lo leggo e dico, così com'è scritto non si può fare. Chiamo Pontiggia, vado da lui a Milano e mi dà ragione quando io rimescolo le carte» [15]. E anche «[...] Pontiggia ha capito [...] che le sue pagine non avevano bisogno di essere illustrate ma di qualcuno che raccogliesse da lui il testimone e proseguisse da solo il proprio tratto di strada. Perciò ho preso il rischio, per quanto possa sembrare presuntuoso di mettermi nei suoi panni e ricominciare il racconto daccapo [16]». Dunque, il filo rosso che lega Nati due volte alle Chiavi di casa è una forte riflessione sul tema, un'ispirazione, una potente suggestione rimasta nella definizione del film, il quale non cita, ovviamente, nei titoli di testa il libro, omaggiato, però, in due sequenze. Infatti, Gianni, il protagonista, in uno degli incontri con Nicole (Charlotte Rampling) in ospedale, la trova intenta a leggere proprio Nati due volte nella versione francese e, commentandolo, dice: «è di un autore italiano. Lo dovresti leggere: parla di noi», alludendo al fatto che ambedue hanno figli disabili. In seguito, la donna «dimentica» il romanzo e Gianni (dopo averlo letto? sfogliato?) glielo riporta. Inoltre, alla fine del lungometraggio, è presente la dedica «In ricordo di Giuseppe Pontiggia». La pellicola di Amelio, insomma, procede per una storia autonoma, centrata su uno dei nodi contenutistici rilevanti dell'opera del regista: il rapporto complesso tra padre e figlio, in questo caso pontiggianamente basato sul «cammino di rinascita interiore del padre» [17] Gianni, infatti, ha abbandonato suo figlio alla nascita, dopo la morte, durante il parto, della giovanissima moglie. Nel film, sceneggiato anche da Stefano Rulli e Sandro Petraglia, si racconta la sua presa di coscienza paterna, arrivata tardivamente, quando il ragazzo disabile ha già quindici anni. Paolo è vissuto con una coppia che lo ha amato e seguito nella sua crescita, che chiede al padre di accompagnarlo in Germania per una operazione ortopedica. Gianni è interpretato con grande capacità attoriale da Kim Rossi Stuart, dall'aspetto assai giovanile, una sorta di ragazzo padre, che scopre con sorpresa, ma anche inquietudine, la complessità della personalità del figlio, un percorso non ultimato con la commovente scena finale, la quale, probabilmente, aprirà nuovi scenari esistenziali sia per Gianni sia per Paolo. Il film, pur trattando un argomento delicato, non ha un solo momento di pietismo ricattatorio nei confronti del pubblico e l'enorme dolore, soprattutto psicologico, viene affrontato con realistica asciuttezza e, in certi momenti, con una sottile ironia. Questo avviene anche perché Paolo è interpretato da un ragazzo, Andrea Rossi, disabile, bravissimo, a cui Amelio è riuscito a far emergere parole, emozioni, situazioni speciali. Le chiavi di casa, insomma, oltre a essere uno dei film memorabili nella carriera di un importante regista del cinema italiano, pur non sovrapponibile «fedelmente» al testo di Pontiggia, ne evoca lo spirito e il pensiero e può spingere anche lo spettatore a chiudere il cerchio e a riprendere in mano con soddisfazione Nati due volte.


Elisabetta Randaccio
(n. 9, settembre 2023, anno XIII)



NOTE

[1] Orson Welles, It's all true. Interviste sull'arte del cinema, Roma, Minimum fax, 2010, p. 187.
[2] «[...] l'attenzione per modalità tecnico-artistiche del cinema è qualcosa che va oltre il noto e diffuso legame fra cinema e narrativa proprio degli anni del secondo dopoguerra in cui si formò Pontiggia. Le sequenze, il taglio dei quadri, i personaggi che compaiono in primo piano, richiamano di certo per analogia alcuni aspetti della tecnica cinematografica...» Daniela Marcheschi, Percorsi nell'opera di Giuseppe Pontiggia, in Daniela Marcheschi (a cura di), Le vie dorate con Giuseppe Pontiggia, Parma, MUP, 2009, p. 56.
[3] Citato in Giuseppe Pontiggia, Opere, a cura e con introduzione di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, I Meridiani, 2004, p. LXXIII.
[4] Daniela Marcheschi, La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia, in Giuseppe Pontiggia, Opere, cit. p. XLI.
[5] Ivi, p. XXXIX.
[6] Il cognome Nari, scelto dal regista Stefano Alpini, evoca lo pseudonimo utilizzato dal fratello di Giuseppe Pontiggia, Giampiero (1927-2023), anch'egli poeta e scrittore: Giampiero Neri.
[7] Daniela Marcheschi, La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia, cit., p. XL.
[8] Giuseppe Pontiggia, Il giocatore invisibile, in Opere, cit. p. 388.
[9] Daniela Marcheschi, La letteratura in prima persona di Pontiggia, cit., p. LI.
[10] Francesco Napoli, La storia (e la vita) nelle 'Vite degli uomini non illustri’, in Daniela Marcheschi (a cura di), Le vie dorate con Giuseppe Pontiggia, cit. p. 137.
[11] Stefano Della Casa, Un cinema nazional popolare, in Manola Alberichi-Jaures Baldeschi-Federico Cioni (a cura di), Mario Monicelli, Castelfiorentino, Circolo del cinema Angelo azzurro, 2001, p. 61.
[12] «Veramente imbarazzante registrare come l'umorismo a retrogusto amaro, l'ironia sferzante, la vena grottesca di Monicelli producano risultati così fiacchi». Alberto Castellano, recensione a Facciamo Paradiso, in «Il Mattino», 29/12/1995; «Malgrado l'indubbia professionalità e accuratezza Facciamo Paradiso è alla fine un film irrisolto». Roberto Nepoti, recensione a Facciamo Paradiso, in «La Repubblica», 24/12/1995.
[13] Daniela Marcheschi, La letteratura in 'prima persona' di Pontiggia, cit., p. LXI.
[14] «Il regista calabrese si appresta a portare sul grande schermo il libro autobiografico di Giuseppe Pontiggia. Gianni Amelio, basandosi sull'esperienza personale del padre di un figlio disabile, Giuseppe Pontiggia, che ha raccontato il suo dramma nelle pagine del libro Nati due volte, sta ultimando la sceneggiatura [...] Le riprese di questo nuovo lavoro, che si svolgeranno solo in parte in Italia, dovrebbero iniziare a maggio»: in Gianni Amelio e il progetto di 'Nati due volte', in «Film.it», 2004.
[15] Martini E., Intervista a Gianni Amelio, in «Cineforum», n. 7, settembre 2022.
[16] Le chiavi di casa, in www.cnvf.it (sito della Commissione nazionale valutazione film della Conferenza Episcopale Italiana).
[17] Daniela Marcheschi, La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia, cit. p. LVIII.