La tragedia del dialogo mancato: uno studio su Ioan Slavici

Uno dei grandi scrittori romeni del passato che meriterebbero di essere meglio conosciuti anche dal pubblico italiano è, a nostro avviso, Ioan Slavici, nato nel 1848 in un villaggio presso Arad e morto nel 1925 nella contea moldava di Vrancea. Nell’ormai lontano 1965 le Edizioni Paoline, in maniera coraggiosa e meritoria, pubblicarono in versione italiana (per la traduzione di Luigi Basevi) due romanzi di Slavici: Il mulino della fortuna (titolo originale: Moara cu noroc, 1880) e La ragazza della foresta (titolo originale: Pǎdureanca, 1884). I due volumetti, che ormai sono purtroppo di ardua reperibilità sul mercato librario (ma sono posseduti comunque da varie biblioteche pubbliche), ci propongono due storie, piuttosto cupe e tragiche, ambientate in un contesto lontano da noi nel tempo e nello spazio (vale a dire la Transilvania ottocentesca, al tempo in cui faceva ancora parte dell’Impero asburgico) ma capaci a tutt’oggi di rivelarsi suggestive e interessanti da vari punti di vista. L’aspetto sul quale concentreremo la nostra analisi è il modo in cui Slavici in entrambe le opere rappresenta, con perspicacia e con grande finezza psicologica, quelle circostanze problematiche in cui, per vari motivi, il dialogo tra le persone non avviene con naturalezza e sincerità ma risulta impedito oppure si svolge in modo fortemente condizionato e alterato, fino a rivelarsi controproducente anziché utile e benefico. Nel primo romanzo il fattore che ostacola il normale corso della comunicazione verbale è la paura, specialmente quel tipo di paura che induce al silenzio omertoso in situazioni in cui si è oppressi da minacce e ricatti, mentre nel secondo è un altro potente sentimento umano, l’orgoglio, a distorcere e a reprimere il dialogo, fino a provocare le più nefaste conseguenze.


Quando la paura congela la parola

Ne Il mulino della fortuna il giovane Ghiza («Ghiţa» nell’originale romeno) si trasferisce da una zona all’altra della Transilvania insieme alla moglie Anna («Ana» nel testo romeno), alla suocera e al figlioletto per rilevare la gestione di un’osteria situata presso un antico mulino dismesso, lungo una strada rurale percorsa quotidianamente da pastori, contadini, mercanti e viandanti vari. All’inizio gli affari vanno bene, la serenità regna in famiglia e Ghiza e Anna diventano anche genitori per la seconda volta, mettendo al mondo una bella bambina. Slavici rappresenta molto bene l’ottimo clima presente in casa attraverso lo scambio circolare di sguardi sinceri e affettuosi tra tutti i membri della famiglia: «(…) allora egli (Ghiza) guardava Anna, Anna guardava lui, entrambi guardavano i due ragazzini, poiché erano già due; mentre la vecchia li osservava tutti e quattro e si sentiva ringiovanita, perché aveva un genero attivo, una figlia felice, due nipotini svelti» (p. 11). In questa fase i rapporti sono così idilliaci che, in certi momenti dell’intimità domestica, basta comunicare con gli sguardi e le parole risultano superflue, lasciando spazio a un silenzio buono, pieno d’armonia.  Un giorno, però, si presenta all’osteria Lica, un delinquente violento e prepotente che spadroneggia nella zona. Egli chiede e ottiene un colloquio in disparte con Ghiza per mettere in chiaro che il giovane oste deve considerarsi in una posizione di sudditanza nei suoi confronti. Dopo il discorso intimidatorio di Lica, Ghiza rimane turbato, ma non si apre e non si confida con sua moglie. Anna, avendo già sentito parlare di Lica, chiede al marito se quell’uomo è proprio colui «di cui la gente dice tanto male» (p. 20), ma Ghiza reagisce mettendo in dubbio la sua cattiva nomea (anche se sa che in realtà essa è ben meritata): «Non bisogna mai credere a nulla che non si sia visto con i propri occhi» (p. 20). Ghiza nasconde alla moglie «i cattivi pensieri» (p. 20) che lo assalgono perché non vuole farla preoccupare. È come se volesse proteggerla nascondendole un’amara verità, ma in questo modo il silenzio omertoso comincia a instaurarsi nel cuore della famiglia, cioè nel rapporto stesso tra i coniugi, alterandolo e incrinandolo. Nei giorni seguenti Ghiza si procura delle pistole e dei cani da guardia e diventa sempre più taciturno e irascibile. Anna cerca di indovinare i suoi pensieri e le sue intenzioni, ma non osa interrogarlo, per paura della sua reazione: «Molte volte essa gli avrebbe voluto chiedere: – Ghiza, che hai? – ma non osava più parlargli liberamente come una volta, per timore che egli andasse in collera contro di lei, cosa che mai aveva fatta fino allora» (p. 23). In questo modo l’incomunicabilità e la tensione aumentano sempre più, in un circolo chiuso.
Dopo un nuovo, drammatico colloquio con Lica, Ghiza si piega al volere del prepotente e accetta, sia pure molto malvolentieri, di diventare suo complice nelle attività criminose che egli conduce. Anna, un po’ alla volta, capisce la pericolosità della situazione, ma Ghiza, alternando silenzi ostinati a discorsi vaghi e incompleti, che aumentano l’incomprensione anziché ridurla, non mette sua moglie in grado di aiutarlo. Anche quando l’evidenza non può più essere negata, Ghiza continua a dire che Lica è «un amico» (p. 43) e «un cliente come tutti gli altri» (p. 44). La situazione, però, si fa sempre più grave. Dopo che sono avvenuti alcuni efferati omicidi, Lica, insieme ad altri della sua banda, viene interrogato dall’autorità giudiziaria; Ghiza decide di non testimoniare contro di lui, se non altro perché, facendolo, dovrebbe anche dichiararsi suo complice. Così l’omertà, dall’ambito domestico, si estende alle relazioni sociali al di fuori del nucleo famigliare, anche nel rapporto fondamentale con le istituzioni e con la legge, minando le basi stesse della convivenza civile.
Lica rimane libero di commettere e commissionare altri reati, quali ingenti furti e nuovi, feroci omicidi. Ghiza decide di porre fine alla propria complicità con il delinquente solo quando questi inizia ad insidiargli apertamente la moglie. Egli, avendo ricevuto da Lica delle banconote segnate di provenienza illecita, elabora un piano per incastrarlo grazie a quella prova che ha tra le mani. Parte, dunque, per la città per mettersi d’accordo con un suo amico poliziotto e condurlo poi all’osteria perché finalmente arresti Lica. Ghiza, però, agisce senza aver prima parlato con Anna delle sue intenzioni. Anche nel momento in cui ha deciso di far terminare la propria omertà, egli non fa ripartire il dialogo con la moglie e la lascia all’oscuro di tutto, priva di informazioni, in preda all’angoscia, riservandosi di parlarle solo in un secondo momento, a cose ormai compiute. Anna, rimasta solo all’osteria (sua madre, infatti, ha condotto i bambini a una festa in un altro villaggio), si sente amareggiata e umiliata dal comportamento di Ghiza, perché crede che egli l’abbia abbandonata. Quando Lica la raggiunge, ella gli si concede, avendo perso ormai ogni fiducia nel marito. Poi il delinquente si allontana temporaneamente e poco dopo arriva Ghiza, che trova la moglie sola. In un drammatico colloquio con lei, egli appura l’avvenuto adulterio ed estrae un pugnale per colpirla mortalmente al cuore. Solo qualche istante prima di ucciderla egli rivela alla moglie che si era recato in città per far arrestare Lica, e le ultime, disperate parole di Anna segnano il culmine di una tragedia dovuta alla mancata comunicazione: «Ghiza! Ghiza! Perché non me l’hai detto prima?!» (p. 179). Il marito, prima di sferrare il colpo letale, le risponde: «Perché Iddio non mi ha illuminato nel momento giusto» (p. 179), dichiarandosi così vittima di un volere divino, evidentemente per l’incapacità di riconoscere i propri errori e di sopportare le proprie pesanti responsabilità, a cominciare da quella di non aver parlato quando sarebbe stato il momento di farlo. Il mutismo, dovuto non all’incapacità di esprimersi, ma a una precisa, ostinata e colpevole volontà, può avere conseguenze nefaste ed irreparabili, in certi casi anche più delle parole sbagliate.
Il finale del racconto è cruento anche nei suoi estremi sviluppi. Lica sopraggiunge e, vedendo che Ghiza ha ucciso Anna, lo fa assassinare con un colpo di pistola da uno dei suoi scagnozzi. Poi egli, per sfuggire all’arresto da parte del poliziotto (che nel frattempo era rimasto appostato nelle vicinanze dell’osteria), raggiunge la sommità di una rupe e si suicida gettandosi giù. Dopo aver ucciso e indotto altri a uccidere, Lica conclude la propria parabola uccidendo infine se stesso; anche lui, in fondo, è vittima di un dialogo mancato, non quello interpersonale ma quello interiore con la propria coscienza.


Quando l’orgoglio è nemico della vita

Ne La ragazza della foresta il giovane Iorgovan si innamora della bellissima diciottenne Simina. Lui è un «uomo della pianura», perché è il figlio del proprietario di una fattoria situata nel bel mezzo di una zona pianeggiante, mentre lei è una «ragazza della foresta», perché vive in un villaggio circondato dai boschi in una zona montana. Simina è giunta alla fattoria per lavorarvi durante la stagione del raccolto. Iorgovan non riesce a dichiararle il proprio amore e a fare le prime mosse non perché è timido, ma perché è irrigidito dall’orgoglio: «È vero però che ogni volta che Iorgovan pensava a lei si rimproverava di non averla mai baciata. Non era timido per natura e fin dai primi tempi avrebbe voluto farlo» (p. 12). La ragazza, resasi conto dei sentimenti di Iorgovan, prende l’iniziativa, cercando di fargli capire che non c’è bisogno di tutta quella tensione e che lei è pronta a corrispondere alla sua passione in modo semplice e spontaneo, senza esservi forzata: «Lo sai bene, Iorgovan, che ti lascerei fare volentieri – gli disse allora Simina – perché allora vuoi baciarmi per forza?» (p. 12). Queste parole, però, innescano nella mente dell’uomo una serie di pensieri contorti che lo bloccano ancora di più: «Da quel momento Iorgovan non volle più baciarla, mentre ora si arrabbiava e temeva, se l’avesse incontrata, di essere tentato di provarle che lui poteva, se lo voleva, ottenere un bacio» (p. 12).
Finito il raccolto, Simina se ne torna al suo villaggio. Passa un anno e nella fattoria è di nuovo il tempo in cui servono braccia per il lavoro. Iorgovan, che non ha dimenticato Simina, si reca insieme a un giovane garzone di nome Sofron («Şofron» nell’originale romeno) proprio nel lontano villaggio della ragazza per reclutare contadini, con la segreta speranza di rincontrarla. Egli vorrebbe finalmente dichiararsi, ma è trattenuto da remore dovute sempre all’orgoglio: «Cosa le avrebbe detto? Cosa andava a fare? Cosa voleva da lei? Un uomo della sua tempra poteva mai confessare che aveva fatto tanta strada solo per amore di lei? O dirle che era andato lì soltanto per caso?» (p. 30). Alla fine Iorgovan riesce a dire a Simina che la ama e la convince a tornare con lui alla fattoria, dopo averla ingaggiata come mietitrice. La ragazza, però, non viaggia sul suo carro, bensì su quello di Sofron, che è stato conquistato dalla sua bellezza fin dal primo sguardo. Una volta giunti alla fattoria, tra i due uomini, divenuti ormai di fatto rivali in amore, si instaura una tensione silenziosa. Un giorno Sofron rivela a Simina di essere innamorato di lei e la bacia sulla bocca, ma la ragazza resta rigida, con le labbra serrate. Iorgovan, da lontano, vede la scena e non interviene. Simina rientra in casa e gli lancia uno sguardo, come per rimproverarlo silenziosamente di non aver impedito a un altro di baciarla. A questa comunicazione non verbale Simina aggiunge dopo un po’ delle parole esplicite, che ella spera possano chiarire e risolvere la situazione; ella, infatti, dice a Iorgovan che lo preferisce a Sofron, ma aggiunge che lo vorrebbe solo un po’ più allegro, come… Sofron (e con queste ultime parole ella stuzzica evidentemente la permalosità che in Iorgovan si combina con l’orgoglio). Il risentimento di Iorgovan si manifesta presto in modo incontenibile in uno snodo fondamentale del racconto, quando un giorno i tre protagonisti si ritrovano nel cortile della fattoria: Sofron, pur non essendo ricambiato da Simina, le fa onestamente una proposta di matrimonio, mentre Iorgovan, fermo nel suo atteggiamento puntiglioso, dichiara che non intende sposarla.
La rigidità superba di Iorgovan, che reprime e nega i propri sentimenti, trova un corrispettivo nell’orgoglio sprezzante di suo padre, il quale si dichiara contrario a un eventuale matrimonio tra il figlio e Simina per motivi dovuti alla differenza di censo e di livello sociale esistente tra i due giovani. Sulle stesse posizioni è anche lo zio di Iorgovan, un pope che a un certo punto giunge in visita alla fattoria. Poi, però, accade che il padre di Simina, venuto anche lui nel frattempo a lavorare nell’azienda agricola, muore di colera. Così la ragazza, che aveva già perso la madre diversi anni prima, rimane orfana e viene ospitata in casa del pope. A quel punto il padre di Iorgovan, mosso da una compassione provata pur sempre da una posizione di superiorità, si reca a casa del sacerdote e chiede a Simina di accettare di sposare suo figlio, ma ora è la ragazza, che si è sentita ferita e umiliata, ad avere una reazione di orgoglio e a rifiutare la proposta. Da quel momento, ognuno resta bloccato nel proprio atteggiamento: Simina non esprime alcun ripensamento, il padre di Iorgovan non prova a ripetere la sua proposta e persino Sofron, da sempre perdutamente innamorato di Simina, arriva a dire che preferirebbe che la ragazza sposasse Iorgovan. Per orgoglio ciascuno tace oppure parla dicendo il contrario di ciò che davvero pensa e prova, in un circolo chiuso di ripicche reciproche che allontana sempre più dalla verità e dalla sincerità dei rapporti, fino all’esito tragico che vede Iorgovan come protagonista e vittima. Egli, infatti, dopo essersi dato ai bagordi e all’ubriachezza per disperazione, si ustiona gravemente nel tentativo di suicidarsi. Solo allora Simina corre al suo capezzale, riuscendo a porgergli un estremo saluto pochi istanti prima che egli spiri. Il dialogo mancato rovina e abbrevia la vita, distrugge l’amore, conduce alla follia e rende impossibile quella felicità che sarebbe stata a portata di mano se solo ci fosse stato un minimo di spontaneità e di umiltà. Slavici, nei due racconti che abbiamo analizzato, ci mostra come due potenti sentimenti umani come la paura e l’orgoglio, pur essendo di segno opposto, possono provocare entrambi conseguenze tragiche se impediscono la corretta comunicazione tra le persone. Da grande scrittore, egli narra vicende che, pur svolgendosi in un luogo e in un’epoca ben determinati, rappresentano problemi umani universali e dunque propongono anche a noi lettori del giorno d’oggi un valido ed intenso messaggio su cui riflettere.


Donato Cerbasi
(n. 4, aprile 2022, anno XII)