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Il dolore, le parole e il silenzio: riflessioni su tre romanzi di Gabriela Adameşteanu
In un nostro articolo uscito su questa rivista giusto un anno fa abbiamo preso in considerazione tre dei principali romanzi di Gabriela Adameşteanu (Una mattinata persa, Verrà il giorno e L’incontro) per cercarvi degli spunti di riflessione sulle conseguenze che il regime totalitario comunista ha avuto in Romania sul piano delle lingue e dei loro usi nel corso dei decenni in cui ha dominato il Paese. In questa sede, invece, desideriamo analizzare quelle stesse opere della grande scrittrice per riflettere in chiave più generalmente semiotica su un altro tema che vi compare a più riprese: l’essere umano di fronte all’esperienza del dolore estremo e l’impossibilità di esprimere verbalmente tale dolore. Questo tema rappresenta qualcosa di universalmente umano, a prescindere dall’epoca, dal luogo e dal regime politico sotto il quale si vive: la persona di fronte al lutto o a qualche altra fattispecie di sofferenza profonda, di disperazione, di sgomento, e il ruolo del silenzio e delle parole rispetto a tutto ciò.
La vedova e la donna tradita
Nel romanzo Una mattinata persa, pubblicato nel 2012 da Atmosphere libri (l’originale in romeno apparve nel 1984 con il titolo Dimineaţǎ pierdutǎ), si narrano vicende relative alla buona società bucarestina nel periodo della prima guerra mondiale, rivissute nel ricordo da personaggi anziani quando ormai nel Paese vige il regime comunista instauratosi all’indomani del secondo conflitto mondiale. Uno di tali personaggi giunti ormai alla tarda età è Vica, la quale un giorno va a trovare una sua cognata, rimasta da poco vedova. Tra gli aspetti che rendono insopportabile la vita quotidiana della vedova vi è il silenzio che grava sulla casa, un silenzio che non è quiete, ma qualcosa di opprimente e carico di angoscia. La donna, nel momento in cui la sua parente si congeda alla fine della sua visita, le rivolge le seguenti parole: «Passa da me ogni tanto, Vica, scambiamo due parole, tra di noi, che mi rimbomba la testa dal silenzio, in questa casa…» (p. 27). La solitudine penosa della vedova è caratterizzata da un pesante silenzio che, con espressione ossimorica, le «rimbomba nella testa», ed ella invoca come unico rimedio possibile la conversazione, le parole scambiate in compagnia. Il normale e dolce suono delle parole fa cessare almeno per un po’ il terribile rimbombo del silenzio doloroso. Per inciso, vedremo che la Adameşteanu ricorrerà ancora, in questo romanzo e altrove, alla figura retorica dell’ossimoro, che si presta bene per rendere l’idea di taluni aspetti della tematica in questione.
Nel romanzo l’anziana Vica, che con i suoi ricordi e i suoi dialoghi con gli altri personaggi tiene un po’ il filo dell’intera narrazione, va a fare visita ad una sua conoscente, che si chiama Ivona e vive una situazione esistenziale di grande infelicità a causa dei continui tradimenti di suo marito Niki. La povera donna viene lasciata sola per intere giornate dal coniuge, che se ne sta beatamente a casa della sua amante del momento, madame Cristide. Mentre Vica le parla e cerca di tenerle compagnia, Ivona, assorbita dai propri tristi pensieri, a un certo punto si addormenta sul divano e ha un incubo nel quale lei si trova su una carrozza insieme ad altre persone; vorrebbe chiedere loro di passare a prendere Niki dalla casa della sua amante, vorrebbe gridare il nome dell’adultero, ma non riesce ad emettere neanche un suono: «E tu stai seduta sul sedile, apri la bocca, ti sforzi, urli, ma nessun suono esce dalla tua bocca, il nastro pesante, nero, di velluto ti pesa sulla testa, le mollette aguzze ti penetrano in profondità nel cuoio capelluto, nel cervello, Niki! Niki! Ma nessun suono si ode (…)» (p. 411). La dimensione surreale del sogno si presta bene ad ospitare questo che, con espressione ancora una volta ossimorica, possiamo definire un «urlo muto» di Ivona, che rappresenta tutta la sua sofferenza più delle parole che vorrebbe proferire. Mentre sulla cognata di Vica incombeva il silenzio della solitudine e della vedovanza, che poteva però essere spezzato da poche parole scambiate con qualcuno, Ivona sperimenta, sia pure in sogno, un altro tipo di silenzio angoscioso, ossia quello dovuto all’impossibilità non solo di pronunciare le parole, ma anche di emettere semplicemente dei singoli suoni. E tuttavia, nel rivivere e nel raccontare a se stessa il contenuto dell’incubo, è pur sempre con le parole che ella esprime e rappresenta l’incapacità di parlare di fronte al dolore. Nei frangenti più tragici della vita, la lingua può restare muta, finanche l’urlo può restare inespresso, strozzato in gola, ma non può essere che la lingua stessa a raccontare poi la propria impotenza. Si tratta di un paradosso che è parte di quello più generale connesso alla cosiddetta «funzione metalinguistica» delle lingue verbali: la lingua riflette su se stessa, è sia oggetto sia strumento dell’analisi nel contempo, e questo avviene anche quando la lingua esprime e descrive i propri stessi limiti.
Il lutto di una sorella e di una nipote
In un altro romanzo della Adameşteanu, Verrà il giorno, pubblicato nel 2012 dalle edizioni Cavallo di Ferro (l’originale in romeno apparve per la prima volta nel 1974 in un’edizione censurata con il titolo Drumul egal al fiecǎrei zile), la protagonista è Letiţia, che trascorre l’infanzia e l’adolescenza in una cittadina di provincia e poi va a studiare all’università a Bucarest. Sia suo padre che suo zio Ion (fratello della madre) sono stati colpiti dal regime per motivi ideologici: il primo è finito in carcere mentre il secondo ha dovuto rinunciare a una brillante carriera intellettuale ed è stato relegato ad insegnare in una scuola della cittadina. Letiţia vive uno straziante dolore proprio quando muore suo zio Ion, alla quale è molto affezionata. La ragazza, avvertita che è accaduta una disgrazia, si precipita a casa e trova la salma dello zio distesa sul tavolo della sala da pranzo. Sua madre la accoglie come se si aspettasse da lei delle parole che annullino la sciagura, che le spieghino che ciò che ha davanti agli occhi non è reale, ma di fronte all’ineluttabilità della morte le parole non possono nulla, e il senso di impotenza diviene ancora più forte se esse sono sostituite da urla, da suoni inarticolati nei quali non resta neanche la speranza che un significato possa smentire la tremenda realtà o almeno arrecare consolazione. Quando Letiţia giunge trafelata a casa, in un primo momento quasi non riesce neanche a gridare: «Soltanto oltrepassando la soglia mi uscì un grido. Un grido che morì subito, perché mi ero sentita gridare e mi ero nascosta il viso tra le mani» (p. 194). La fanciulla si spaventa del proprio stesso grido. Poi tenta invano di negare con poche disperate parole quell’orrore che non osa neanche guardare: «No… – esclamai – Non è vero!» (p. 194). Seguono altre urla impotenti: «E ogni volta che mi sentivo gridare, mi aspettavo che tutto ciò finisse, ma lui, lui rimaneva lì, sul tavolo allungato come per un ricevimento» (p. 194). Più che gridare, la ragazza sente se stessa gridare: il dolore è così lacerante da rendere la situazione surreale ed è come se lei, nel suo intimo, fosse la spettatrice delle reazioni istintive che la sconvolgono. Sua madre, se possibile ancora più stravolta, tende verso il tavolo sul quale giace Ion le sue mani che «rifiutano di capire» (p. 194): è come se non solo la sua mente, ma anche il suo stesso corpo si rifiutasse di comprendere e di accettare l’irreparabile. Nel prosieguo della vicenda la donna resta poi ad abitare da sola nel piccolo appartamento (visto che ormai Letiţia studia e vive a Bucarest) e ogni volta che rientra «nelle due stanze, ormai irrigidite nel silenzio» (p. 206) avverte tutto il peso di quel vuoto doloroso e assurdo. Il silenzio che ristagna adesso nell’abitazione non è più quello dello sgomento che si prova nel momento della disgrazia, ma è quello di lungo corso, quello che fa sentire nel susseguirsi dei mesi e degli anni lo strazio provocato dall’assenza della persona cara perduta. Con il passare del tempo, tuttavia, la sorella di Ion comincia ad elaborare il suo lutto, anche con l’aiuto della fede religiosa, e trova un po’ di consolazione, se non in casa, almeno quando va al cimitero sulla tomba di suo fratello. Là ella abbraccia piangendo la croce e sente che le sue parole e i suoi gesti arrivano fino a Ion. Un po’ alla volta il silenzio, da sterile e insopportabile, è divenuto fecondo di luce e di sollievo: «Era il momento in cui la fede si riaccendeva nel silenzio e la portava vicino a suo fratello» (p. 237). La fede arreca il conforto di un dialogo possibile tra chi è rimasto in questo mondo e chi continua ad esistere in un’altra dimensione. Anche Letiţia, a sua volta, saprà rendere fertile il proprio dolore, riscattando dall’oblio suo zio e la sua opera intellettuale; ella, infatti, rielabora gli appunti di Ion e ne ricava degli articoli che vengono pubblicati su un’importante rivista. Alla lunga la parola (in questo caso la parola scritta) rinasce in modo irresistibile e ha la meglio sul silenzio di morte, rinnovando senza fine il potere di quel Logos biblico posto all’inizio dei tempi e all’origine della creazione.
Il dolore dell’esule
Il romanzo L’incontro, pubblicato da Nottetempo nel 2010 (l’originale in romeno apparve nel 2008 con il titolo Întâlnirea), ha come protagonista il professor Traian Manu, il quale scappò dalla Romania all’età di diciotto anni nel 1941, quando era al potere il regime filo-nazista del generale Antonescu, e, dopo aver girato un po’ per l’Europa, si stabilì infine in Italia, dove divenne uno scienziato di chiara fama, sposato con Christa, una donna tedesca. Nel romanzo Traian, ormai anziano, ritorna per la prima volta in Romania nel 1986, quando è ancora al potere Ceauşescu. Formalmente egli è stato invitato a tenere una conferenza nel suo Paese natio, ma in realtà la Securitate vuole indagare su di lui perché lo sospetta di svolgere all’estero un’attività politica ostile al regime.
Nel corso dei decenni del suo esilio Traian ha ricevuto di quando in quando lettere e telegrammi che lo informavano dei decessi dei suoi parenti in patria, ma alla vigilia della sua partenza per Bucarest sogna di ritrovarli lì ancora tutti vivi. Tuttavia il sogno si volge presto in incubo, perché i suoi congiunti pranzano seduti intorno a un tavolo e lo ignorano completamente quando egli si avvicina e rivolge loro la parola. Anche quando chiama la propria madre, Traian rimane inascoltato; d’altra parte, ha l’impressione di non riuscire neanche a pronunciare le parole che vorrebbe dire: «Cerchi di alzare la voce ma, nonostante tutti i tuoi sforzi, dalla gola non ti esce che un suono soffocato, indistinto: Mamma!» (p. 21). L’esule vive tutto il dramma dell’incomunicabilità, anche perché non solo non viene sentito, ma neanche visto, come se insieme alla voce avesse perso anche la propria stessa consistenza corporea: «Muovi solamente le labbra. Dalla tua gola non esce che un rantolo spezzato (…). La tua voce non si sente e il tuo corpo non getta ombra sull’erba» (p. 27). Trovandosi quasi al limite estremo dell’inesistenza, egli riesce ad emettere solo un «rantolo spezzato», come un moribondo negli ultimi istanti dell’agonia. Quando finalmente la madre lo sente e lo vede, non fa che precipitarlo ancor più nell’angoscia, perché non lo riconosce e gli chiede: «Cosa vuoi, straniero?» (p. 22). Essere considerato straniero dalla propria stessa madre è la cosa più straziante per chi è stato a lungo lontano dal proprio Paese: dà un senso di totale perdita dell’identità, di una sofferenza esistenziale così grave da poter essere ritenuta patologica, tanto che la genitrice stessa a un certo punto gli dice: «E’ una brutta malattia non sapere più chi sei!» (p. 23).
Quando Traian si ridesta dall’incubo, avverte ancora per alcuni istanti l’angosciosa sensazione di cercare di urlare senza riuscirci e senza essere sentito: «Brandelli incomprensibili di sogno gli fluttuano ancora davanti agli occhi mentre grida mute ristagnano, annegate nella saliva, tra i muscoli paralizzati della gola, della lingua» (p. 29). L’espressione ossimorica «grida mute» si presta perfettamente a rappresentare l’intensità potenziale dell’urlo combinata con l’inesprimibilità della sofferenza. Il silenzio che ne deriva è carico di tutto il dolore dell’esilio e dello sradicamento, non minore di quello provocato dal lutto o dal tradimento. Per di più, la pena dell’esule è accresciuta dal fatto che l’incomunicabilità per lui significa innanzi tutto perdita della propria madrelingua. In maniera commovente, Traian vive tale perdita come nostalgia dell’abitudine che aveva in anni giovanili di parlare in romeno mentre faceva l’amore con una donna. Adesso, invece, durante l’amplesso non parla né in romeno né in altre lingue, ma emette solo suoni privi di significato: «Da quanto tempo non parla romeno mentre fa l’amore con una donna? Da quanto non parla affatto? Solamente suoni disarticolati, soltanto il grido profondo del corpo quando, alla fine, si libera dal fardello dell’eccitazione…» (p. 29). Per giunta, il disagio di Traian rispetto alla propria madrelingua riguarda anche i testi scritti, come si verifica quando egli ritrova nelle proprie tasche le pagine accartocciate recanti il testo della conferenza che dovrà tenere a Bucarest: «(…) solo che non riconosci la lingua in cui è scritto il testo della conferenza, non riconosci l’alfabeto. Cosa leggerai davanti al pubblico? Non lo sai» (p. 13). Traian, dopo aver sognato di non essere riconosciuto dalla propria madre, a sua volta non riconosce la lingua materna, di cui gli sembra strano perfino l’alfabeto, come se non fosse quello latino. Tuttavia, tale situazione di straniamento linguistico è solo temporanea e Traian ritrova presto la perduta familiarità con il romeno, sentendo che è nella propria lingua nativa che può sperare di ritrovare una patria: «Che lingua è mai questa e perché la comprendo così bene? Perché quando la sento ogni tensione si allenta all’istante? E’ questa lingua, forse, la mia vera patria?» (p. 37). Le proprie radici sono anche e forse soprattutto radici linguistiche ed è da lì che l’esule può ripartire per superare il silenzio, il mutismo, la perdita dell’identità e gli altri risvolti negativi della propria condizione.
Donato Cerbasi
(n. 1, gennaio 2021, anno XI) |
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