Norman Manea tra identità romena e retaggio ebraico

La Bucovina dove Norman Manea nacque e trascorse la propria infanzia (con la terribile parentesi degli anni trascorsi nel lager in Transnistria durante la seconda guerra mondiale) era una regione vivacemente multiculturale e plurilingue e a tale interessante e composita situazione dava certamente il proprio importante contributo anche la componente ebraica della popolazione, nell’ambito della quale si parlavano, oltre al romeno, lo yiddish (per le necessità della vita quotidiana) e l’ebraico (per le funzioni e i rituali di tipo religioso). Questi tratti linguistico-culturali riguardavano anche la famiglia del piccolo Norman, il quale, però, fin da quelle prime fasi della sua vita legò la sua identità alla lingua romena in maniera indissolubile ed esclusiva.

La preparazione al Bar Mitzvah

Un momento cruciale nel quale si rinsaldò questa sua scelta fu quando, giunto all’età di tredici anni, dovette prepararsi alla cerimonia religiosa del Bar Mitzvah, che tradizionalmente segna per gli adolescenti ebrei l’uscita dall’infanzia e l’ingresso nella vita della comunità come membri a pieno titolo. In quel periodo i suoi genitori gli fecero dare lezioni a domicilio da un maestro incaricato di insegnargli le basi della dottrina religiosa insieme ai fondamenti della grammatica dell’ebraico. Lo scrittore ha ricordato quell’esperienza in un magnifico racconto intitolato Il maestro, compreso nella raccolta Varianti di un autoritratto (titolo originale: Variante la un autoportret), pubblicata da Il Saggiatore nel 2015. L’adolescente protagonista del racconto si mostra fin dall’inizio riottoso verso quell’impegno; del resto, egli pensa che i suoi genitori glielo abbiano imposto non sulla scorta di una vera convinzione, ma semplicemente per rispettare una consuetudine. Già in occasione della prima lezione egli prova antipatia e disprezzo per l’insegnante, che descrive come una figura patetica e grottesca e che definisce come un «buffone» (p. 70), un «ciarlatano erudito» (p. 73) e un «insopportabile grammatico» (p. 83). I contenuti delle lezioni gli appaiono come «stravaganti anticaglie» (p. 71), «buffonate» (p. 72), «pompose stravaganze» (p. 73) e «pappagalleria senile» (p. 73). Il maestro gli si imprime nella memoria come un importuno che gli «inagriva tre pomeriggi la settimana coi suoi frutti ammuffiti» (p. 79).
L’indifferenza e la riluttanza che il ragazzo nutre verso l’istruzione religiosa sono tutt’uno con l’avversione che prova per il connesso insegnamento della lingua ebraica. Con un originale ed illuminante accostamento di termini, Manea parla di un rifiuto interiore da parte del ragazzo di quegli esercizi di «linguistica divina» (p. 78). La parte grammaticale delle lezioni non gli interessa e non lo attira più di quella propriamente religiosa, anzi, lo esaspera con il suo andamento ottuso e ripetitivo: «Di nuovo lunedì mercoledì giovedì: coniugazione, declinazione, aggettivi, numerali, attributo, complemento, predicato, vocabolario, traduzione, composizione» (p. 78). L’apprendimento forzato, libresco e artificioso dell’ebraico non ha nulla di paragonabile a quello spontaneo e felice del romeno come lingua materna nei primi anni di vita.
Gli sforzi del maestro sono vani anche quando prova ad uscire dagli schematismi della grammatica e a motivare l’allievo con riflessioni sui rapporti tra lingua e cultura di un popolo: «Ogni popolo può essere capito dalla sua lingua e dalla sua grammatica. Guardi gli inglesi, nobili e democratici: sia il re che lo spazzino scrivono Io con la maiuscola. E noi… per noi non esiste il “lei”. Chiamiamo tutti per nome. E ognuno è in rapporto diretto con Dio, senza intermediari…» (p. 80). L’alunno non riesce proprio a provare simpatia ed interesse per quella lingua che deve studiare per obbligo e che gli viene propinata in modo arido e noioso da un insegnante che egli non stima e non ama. Per il restìo adolescente taluni aspetti della grammatica dell’ebraico appaiono persino degni di una ripulsa accompagnata da osservazioni ironiche: «La lezione del giovedì si era svolta come al solito, limitata alla coniugazione dei verbi irregolari… i verbi di una lingua così rigorosa risultavano, manco a dirlo, quasi tutti irregolari» (p. 75). Finanche i suoni della lingua gli risultano sgradevoli, inducendolo a parlare di una «fonetica anacronistica» (p. 83).

Il campo estivo della gioventù comunista

Conclusa la fase preparatoria, il Bar Mitzvah del ragazzo viene finalmente celebrato nelle debite forme. Una settimana dopo «l’uomo novello» (p. 87) parte per il suo primo campo estivo internazionale della gioventù comunista. Egli deve affrontare un lungo e disagevole viaggio in treno fino a Lipova, nel distretto di Arad, all’altra estremità della Romania. Resta un giorno e una notte su un sedile di legno polveroso, mentre il treno lungo il tragitto raccoglie gli altri giovani «pionieri» del socialismo. Giunto a destinazione, si accorge che sua madre gli ha messo in valigia, tra le altre cose, un astuccio contenente gli accessori tradizionali che ogni pio ebreo utilizza per le preghiere quotidiane di rito. Il ragazzo teme che gli altri possano vedere quegli oggetti e decide di tenerli ben nascosti nel fondo della valigia chiusa durante la sua permanenza al campo: «Scopre in ritardo, sul fondo, nascosto tra gli asciugamani, l’astuccio di seta rossa. Richiude in fretta, per non essere visto, e gira con furia la chiavetta. Quegli oggetti non li avrebbe più toccati, tutto era finito, non avrebbe continuato la mascherata!» (p. 88). Egli vorrebbe addirittura distruggere quegli oggetti, anche se poi in realtà non trova il coraggio e il modo di farlo: «Doveva gettare subito o, meglio, bruciare, se ne avesse avuto il coraggio, quelle antiche cinture stregate. Lo avrebbe fatto nei giorni seguenti! Ma temporeggia, non trova il momento opportuno» (p. 88).
Finito il campo, il giovanissimo protagonista affronta un altro estenuante viaggio ferroviario per tornare a casa. Giunto alla stazione della sua città, dove lo attendono i suoi genitori sulla banchina, egli, prima di scendere dal vagone, si libera in fretta e furia degli accessori sacri che ha ancora nel bagaglio: «Ebbe ancora il tempo di aprire la valigia per trarne l’astuccio di seta. Sentì sotto le dita il cubo, le cinture, il fruscìo dello scialle lucente. La mano gli tremava sopra l’esplosivo rimasto troppo a lungo nascosto. Contatto timoroso, pericoloso. Furioso, gettò l’involucro sotto il sedile» (p. 93). Torna quindi a casa con i propri genitori, i quali, quando disfano il suo bagaglio, non gli chiedono nessuna spiegazione dell’assenza degli oggetti di culto, come se non avessero notato niente. Essi sembrano accettare le scelte e gli orientamenti del figlio. Quest’ultimo, d’altra parte, anche se non lo dice ancora apertamente, non è rimasto granché soddisfatto nemmeno dell’esperienza del campo della gioventù comunista, che ha suscitato in lui molte perplessità e un principio di amara delusione. Egli ha avuto in effetti un primo assaggio di quegli aspetti perniciosi del sistema comunista che sperimenterà con una portata ben maggiore nei decenni a venire: la rappresentazione manipolata dei fatti, lo scollamento tra i proclami ideologici e la realtà con tutti i suoi problemi, il clima di sospetto e di diffidenza tra le persone, il controllo ossessivo ed invadente della vita dell’individuo anche nei suoi aspetti più intimi, l’apertura e la lettura da parte di censori delle lettere ricevute ed inviate dai partecipanti al campo e così via. L’adolescente si rende conto che quell’esperienza lo ha fatto crescere in maniera veloce e traumatica (fino a farlo sentire addirittura vecchio) e cerca rifugio e sollievo nella solitudine e nell’introspezione: «Evitava i luoghi affollati, le piazze, gli stadi, si teneva lontano dalle sale di riunione, dalle chiese, dai cinema. Si portava dietro, posatore e stoico, la  sua povertà, le sue ferite, la sua grandezza, la sua vecchiaia sopraggiunta – chi l’avrebbe detto – così in fretta: incredibile, in soli due mesi gli aveva cambiato il passo, la voce, il sorriso, le diottrie» (p. 94).
In fin dei conti, ci sembra che gli elementi autobiografici del racconto facciano scorgere nel protagonista lo scrittore da ragazzo, che rivelava già in nuce alcuni tratti fondamentali di quella che sarebbe stata la sua personalità in età adulta, tra cui l’agnosticismo in ambito religioso e l’avversione per il comunismo (come per ogni altra forma di totalitarismo) in ambito ideologico.

Scrittore romeno e basta

Norman Manea è tornato a riflettere sulla sua identità di scrittore romeno e sul suo retaggio ebraico (oltre che su numerosi altri temi) anche nel volume che raccoglie le sue conversazioni con Edward Kanterian, intitolato Corriere dell’Est (titolo originale: Curierul de Est) e pubblicato da Il Saggiatore nel 2017. A un certo punto (p. 115) Kanterian gli chiede se si considera ancora uno «scrittore romeno» (ossia romeno e basta, senza l’aggiunta di nessun altro termine o specificazione). Manea risponde ricordando un episodio emblematico accaduto negli anni settanta del secolo scorso, quando due suoi racconti furono pubblicati in Israele in un’antologia intitolata Gli scrittori ebrei di lingua romena. La cosa da un lato gli fece piacere (anche perché fino ad allora aveva pubblicato soltanto un libro in Romania e non era ancora accaduto che dei suoi testi venissero pubblicati all’estero) ma dall’altro lo irritò fortemente proprio a causa del titolo del volume: «Scrittori ebrei di lingua romena? Come sarebbe? Per caso l’agenzia ebraica internazionale mi ha mandato in Romania a scrivere in romeno? Perché ci sia anche uno scrittore ebreo di espressione romena? Sono nato in Romania, sono uno scrittore romeno, la mia appartenenza etnica riguarda me e nessun altro» (p. 115). Sulla propria identità lo scrittore non ha dubbi, e se torna periodicamente a riflettere su di essa come se fosse qualcosa di problematico ciò è dovuto non tanto ad una sua propria esigenza interiore quanto alle sollecitazioni che gli vengono da altri (intellettuali, critici, giornalisti, intervistatori e simili).
Egli non ama le etichette imposte alle persone dall’esterno con l’intento di individuare gruppi e categorie a parte. Continuando la sua risposta a Kanterian, egli fa riferimento, a tal proposito, alla situazione degli Stati Uniti, ossia del Paese dove si è stabilito fin dal 1988: «Arrivato in America, constatai con mio grande stupore che il Jewish writer aveva il suo posto accanto a women writers, black writers, gay writers, Catholic writers. Ognuno con il suo piccolo spazio, allineato accanto ad altri piccoli spazi. Ne rimasi sbalordito» (p. 115). Manea prosegue ribadendo quello che per lui è da sempre il fondamento dell’identità di uno scrittore, ossia la lingua: «A mio parere, quel che definisce lo scrittore è la sua lingua. È questa la materia con cui lavora. Se uno scrittore scrive in inglese, è uno scrittore americano o inglese, se è un gay o una lesbica, un ebreo o un cattolico, un buddista, un comunista, un pacifista non importa, sono problemi suoi. E se questo si percepisce in quello che scrive, benissimo. Se non si percepisce, va bene lo stesso» (p. 115). Con la mite ironia che gli è così congeniale, lo scrittore, come se si guardasse con gli occhi altrui, prova a ricombinare in vari modi i tre elementi principali della sua vicenda esistenziale (l’essere romeno, l’essere ebreo, l’essersi stabilito negli Stati Uniti): «Ebbene, cosa sono io? Sono uno scrittore romeno che abita a New York, nato in una famiglia ebraica. Sono uno scrittore americano di lingua romena, come tanti altri scrittori americani di tutte le lingue, cinese, vietnamita, hindi. Uno scrittore ebreo di lingua romena emigrato in America? Sì, coinciderebbe con il tipico destino di un ebreo est-europeo» (p. 117). La risposta a tali interrogativi da parte di Manea non può essere altro che una commovente dichiarazione d’amore alla lingua romena, base imprescindibile e garanzia indiscutibile della sua identità di uomo e di scrittore: «Il romeno è la lingua con cui sono venuto al mondo, poi la lingua della mia educazione e delle prime lezioni imparate, la lingua dell’amore, dell’amicizia e della famiglia in cui sono cresciuto (…). Era ed è rimasto in gran parte la lingua della mia interiorità, ha vissuto con me e dentro di me in tutte le tappe formative, ovvero durante la mia intera vita, compresa la vecchiaia» (pp. 117-118). Anche se lo scrittore conosce varie altre lingue, nessuna di queste può mettere minimamente in discussione la preminenza assoluta che ha per lui il romeno: «In nessun’altra lingua ho vissuto altrettanti stadi di percezione, istruzione e pensiero. E in nessun’altra lingua ho messo alla prova la mia creatività allo stesso modo. È la mia lingua, dunque, è il mio io. Cosa potrebbe darmi più di questo? (…) È la lingua del mio scrivere, in essa lavoro con me stesso, i miei pensieri, le mie emozioni e le mie parole. (…) Non sono proprio uno scrittore bilingue, anche se parlo e scrivo in altre lingue. Lingue imparate, tuttavia, non udite nel ventre di mia madre» (p. 118). Più avanti, invitato da Kanterian a riflettere su un’eventuale ridefinizione della propria identità dopo il trasferimento in Occidente, Manea spiega: «Ero un ebreo romeno quando sono partito e tale sono rimasto. Si è aggiunta la valenza americana di un nuovo domicilio e le sue inevitabili influenze. L’autore romeno ha seguitato a scrivere in romeno, dunque è rimasto uno scrittore romeno, a prescindere dal peso fluttuante dei suoi temi e dei suoi interrogativi» (p. 131).
Per quanto riguarda l’America, essa non è diventata per lo scrittore una seconda patria o una patria d’adozione, ma è considerata da lui come un confortevole albergo dove trascorrere quello che egli continua a chiamare il suo «esilio». Il Bard college, dove egli insegna e vive ormai da moltissimi anni, si trova nella valle del fiume Hudson, in uno scenario naturale paradisiaco che gli ricorda la natìa Bucovina, così com’era negli anni della sua prima infanzia. «Solo che qui manca la lingua romena» (p. 236), conclude tuttavia lo scrittore. Dopo aver rappresentato più volte nelle sue opere la lingua materna come un rifugio, come una casa che si può portare con sé anche nell’esilio, analogamente alla chiocciola che reca con sé il proprio guscio, Manea ci regala qui una nuova stupenda immagine: la lingua come parte integrante del paesaggio, ossia di quella casa più grande che è per ciascuno la propria terra natìa. Lo scrittore esule ha potuto portare il romeno con sé nella propria interiorità, ma non può ritrovarlo in un paesaggio americano, per quanto esso possa somigliare a quello dei suoi luoghi d’origine. Si tratta di un’ennesima, struggente prova dell’importanza vitale che ha per Norman Manea il rapporto con la lingua romena, rapporto che è profondo, esclusivo, bellissimo, continua fonte di immagini sublimi che si imprimono nella mente e nel cuore del lettore.


Donato Cerbasi
(giugno 2018, anno VIII)