Norman Manea e la lingua romena: figure retoriche di un amore Norman Manea nasce nel 1936 a Suceava, in Bucovina, regione che all’epoca era un contesto vivacemente plurilingue, dove, oltre al romeno, si parlavano anche il tedesco, lo yiddish, l’ucraino, il polacco e il ruteno. Tuttavia, nell’ambiente famigliare del piccolo Norman si parlava in romeno e la prevalenza di tale lingua come sua unica e vera lingua materna fu netta e chiara fin dal principio. Quando, nel 1941, in piena seconda guerra mondiale, la popolazione ebraica della Bucovina fu deportata in un lager in Transnistria, Manea ebbe all’età di soli cinque anni la sua prima esperienza di esilio, vissuta e ricordata non a caso come un esilio anche linguistico. In quel tragico contesto, il bambino imparò lo yiddish dagli anziani e l’ucraino dai bambini del posto e poi, dopo la liberazione da parte dell’armata rossa, frequentò un anno di scuola elementare in russo, sotto le autorità sovietiche. Tornato in Romania nel 1945, continuò la scuola in romeno, ma nel contempo i genitori gli fecero impartire lezioni private di tedesco. Giunto all’età di tredici anni, egli studiò anche l’ebraico per un anno per prepararsi alla cerimonia del Bar Mitzvah e poi imparò il francese negli anni del liceo. Infine, ormai in piena età adulta, Manea imparò naturalmente anche l’inglese, a partire dal suo trasferimento negli Stati Uniti nel 1988. In un simile caleidoscopio linguistico, il legame tra lo scrittore e la propria madrelingua è rimasto un riferimento fisso nelle vicende tribolate della sua vita e una garanzia per il suo senso di identità, tanto che egli ha continuato a scrivere le proprie opere sempre in romeno. La lingua romena come casa e come madre Le immagini alle quali Manea ricorre per rendere l’idea dell’importanza vitale del suo legame con la lingua romena danno luogo a similitudini e metafore che in alcuni punti delle sue opere si infittiscono in maniera significativa. È il caso della pagina de La quinta impossibilità in cui lo scrittore narra del momento in cui, nel 1986, giunto ormai ai cinquant’anni d’età, si decide a lasciare definitivamente la Romania. In quel momento i suoi timori riguardano soprattutto la dimensione linguistica, come si legge a p. 270: «Sapevo che la liberazione avrebbe amputato la libertà stessa. All’aeroporto di Bucarest, nel dicembre del 1986, salivo sull’aereo per Berlino con la certezza di cedere a un mercato sinistro: in cambio del passaporto mi si tagliava la lingua. (…) L’onore di essere senza Patria si accompagnava alla maledizione di diventare muto, come scrittore». Subito dopo, però, ecco anche la consolazione e il rimedio: «Avevo, però, preso con me la lingua, la casa, come una lumaca. Essa avrebbe continuato ad essere per me il primo e l’ultimo rifugio, il domicilio infantile e immutabile, il luogo della sopravvivenza». La lingua, dunque, è una casa e un rifugio che lo scrittore può portare con sé ovunque, anche nell’esilio, come fa la lumaca (o forse, meglio, la chiocciola) con il suo guscio, e questa convinzione attenua il timore di subire il «taglio della lingua». Quest’ultima espressione rende il timore di perdere la propria lingua in quanto codice verbale attraverso l’immagine forte e cruenta dell’amputazione della lingua in quanto organo fisico. È una metafora particolarmente pregnante ed efficace, che implica un gioco di parole reso possibile dal fatto che in romeno la stessa parola polisemica (limba) può designare sia la lingua come organo fisico sia la lingua come codice verbale, analogamente a quanto avviene nelle altre principali lingue romanze (con lingua in italiano, lengua in spagnolo e così via), nelle quali è agevole tradurre l’espressione conservandone inalterata l’incisività. Altre lingue, come ad esempio l’inglese e il tedesco, hanno invece nel loro lessico due termini distinti per le due accezioni di lingua fisica e di lingua come codice verbale (rispettivamente tongue e language in inglese e Zunge e Sprache in tedesco) e dunque in tali lingue la traduzione di quella metafora risulta inevitabilmente difficoltosa e dotata di minore efficacia rispetto all’espressione originale in romeno. Lingua e ossimoro: confronto con Cioran Possiamo passare ora a qualche riflessione sugli ossimori, un tipo di figura che Manea utilizza ancora una volta in maniera molto originale, generando espressioni che possono essere anche molto forti. Questo avviene, ad esempio, quando, ne Il ritorno dell’huligano, Manea si riferisce a Emil Cioran nelle condizioni in cui questi versava nei suoi ultimi anni di vita. Come è noto, Cioran fece delle scelte esistenziali e professionali molto diverse da quelle di Manea. Nato nel 1911 a Rǎşinari, in Transilvania (dintorni di Sibiu), Cioran effettuò il suo primo soggiorno a Parigi nel 1937 per la sua tesi di dottorato e poi vi si stabilì definitivamente, decidendo a un certo punto di scrivere solo in francese. Egli divenne così un intellettuale romeno naturalizzato francese e riuscì a conquistarsi addirittura la fama di maestro di stile della lingua francese. Questo processo non fu né breve né facile e costò a Cioran non solo un’immane fatica, ma anche autentica sofferenza morale e finanche fisica. Vedremo che Manea parlerà di una «infernale operazione di trapianto» alla quale Cioran si era sottoposto, ma è lo stesso Cioran ad usare parole molto forti in riferimento a quella sua esperienza. Nel 1957, in una lettera al suo vecchio amico Constantin Noica, rimasto in Romania, scrive: «Raccontarti per filo e per segno la storia dei miei rapporti con questo idioma d’accatto (…) vorrebbe dire intraprendere la narrazione di un incubo. Quanto consumo di caffè, di sigarette e di dizionari per scrivere una frase un po’ corretta in questa lingua inavvicinabile, troppo nobile e troppo distinta per il mio gusto!». In vecchiaia Cioran fu colpito dal morbo di Alzheimer e Manea lo descrive come un anziano che vaga per i corridoi di un ospedale barbugliando poche parole incomprensibili, ma quelle parole sono finalmente di nuovo in romeno, dopo una vita intera spesa nello sforzo di impadronirsi perfettamente del francese. Queste le parole di Manea ne Il ritorno dell’huligano (p. 278): «Più di mezzo secolo prima, si era liberato, con un’infernale operazione di trapianto, della lingua natale e si era insediato, sovranamente, nel cartesiano paradosso francese. Adesso, tuttavia, biascicava di nuovo le vecchie parole! La lingua romena, così adatta al suo temperamento, dalla quale si era fanaticamente “snazionalizzato”, inaspettatamente lo ha ritrovato nel felice Paese Alzheimer. Biascicava vecchie parole sconclusionate nella vecchia lingua, l’esaltazione apolide era stata sostituita da una dolce senilità prenatale».
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