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Mihai Mircea Butcovan e le parole dell’intolleranza
Parole come pietre «Terroni» italiani e stranieri Nel romanzo Allunaggio di un immigrato innamorato il protagonista, l’allora giovane romeno da poco stabilitosi in Italia, ha una storia d’amore con Daisy, rampolla di un’agiata famiglia brianzola. Quando la ragazza lo invita per la prima volta a cena dai suoi, lo prepara all’impatto con la loro mentalità leghista, ostile ai meridionali e a quelli che negli anni Novanta venivano detti «extracomunitari» (all’epoca lo erano anche i romeni). Il giovane immigrato parla già bene l’italiano e i genitori di Daisy non si accorgono che è romeno; essi escludono anche che egli sia un italiano del sud ed esprimono liberamente i propri pregiudizi, come l’ospite poi racconta: «Sì, lo so che non va bene, ma i tuoi hanno escluso che potessi essere “da Roma in giù” e hanno detto molte cose sui terroni e sugli extracomunitari. Non ebbi il coraggio di difendere le rispettive categorie» (Allunaggio, p. 63). Per il termine «terrone» i dizionari della lingua italiana offrono ipotesi etimologiche diverse e anche valutazioni differenti sul suo uso; ad esempio: per il vocabolario Treccani (versione online su www.treccani.it) la parola è usata dai settentrionali per riferirsi ai meridionali in maniera spregiativa oppure scherzosa, mentre il nuovo dizionario De Mauro (versione online su https://dizionario.internazionale.it) ne indica, forse più realisticamente, un uso solo spregiativo. Nel romanzo di Butcovan il termine compare in bocca ai personaggi nella sua forma brianzola quando parlano in dialetto; quando essi dicono «terùn» il dialetto locale non suona più sapido e familiare ma diventa torvo e minaccioso. Ad ogni modo, l’epiteto, che venga proferito in italiano o in dialetto, è tanto carico di connotazioni negative quanto pronto per essere adoperato includendo nel suo referente categorie di persone sempre nuove. Quando, infatti, la storia sentimentale tra il giovane straniero e Daisy finisce in malo modo, la ragazza gli rivolge una sequela di insulti, tra cui «terrone romeno» (Allunaggio, p. 10): così le due categorie, meridionali ed extracomunitari, sono infine accomunate sotto la stessa sprezzante etichetta. Tutti i «baluba» del mondo Nel racconto In Padania, sognando Mutu la voce narrante è quella di un ragazzino che frequenta una scuola dove nelle classi sono presenti anche bambini rom provenienti dalla Romania e bambini stranieri di varie altre nazionalità. I suoi genitori, insieme a quelli di altri scolari, hanno forti pregiudizi verso rom, stranieri e anche italiani meridionali. Vorrebbero che almeno ci fosse nella scuola una sezione frequentata da bambini solo italiani, possibilmente settentrionali (una forma di apartheid, insomma). Un genitore, partecipando a una riunione con altri genitori in una tavernetta, pretende che nella sezione A della scuola non vengano inseriti bambini stranieri, e un altro aggiunge: «e nemmeno terroni». Se gli italiani meridionali vengono etichettati con il classico epiteto, i rom sono detti «baluba». Un certo Giuanin, infatti, così esprime la propria posizione nei loro confronti: «Dobbiamo mandarli via quei baluba. Quelli che rubano nelle case e rubano i bambini e ammazzano la gente… zingari comunisti mangiabambini», dove si nota che al pregiudizio etnico si aggiunge quello ideologico, forse perché quei nomadi vengono dalla Romania, Paese dove vi fu per decenni un regime comunista. Quanto al termine «baluba», esso è in se stesso nient’altro che il nome di un’etnia di lingua bantu della Repubblica Democratica del Congo. Il nuovo dizionario De Mauro aggiunge però che nei dialetti lombardi la parola è usata con valore spregiativo per indicare una persona rozza e incivile. Evidentemente il termine, da semplice nome di un’etnia africana, è stato trasformato, con superficialità ignorante e malevola, in un epiteto ingiurioso rivolto agli africani in genere e poi ulteriormente esteso a tutti coloro (compresi, ad esempio, i rom) verso i quali si nutrono ostilità e discriminazione in base alla provenienza, all’appartenenza etnica, ai tratti somatici, al colore della pelle. La parola può poi riferirsi anche agli italiani accomunati agli stranieri disprezzati per la loro presunta inciviltà e rozzezza, a cominciare dai meridionali. Difatti il bambino che fa da voce narrante nel racconto ha una zia meridionale, la quale è chiamata proprio «baluba» da suo cognato (il padre del bambino): «Lo zio ha sposato una pugliese. Papà chiama anche lei, quando non c’è la zia, baluba. “Maschile o femminile, sempre baluba è” mi disse papà quando gli chiesi se anche mio cugino fosse un balubo». Neanche i legami di parentela valgono a superare l’ottusità del pregiudizio. E come il termine «terrone» può essere esteso dagli italiani del sud agli stranieri (lo abbiamo visto in Allunaggio con «terrone romeno»), così il nome di un’etnia africana, divenuto parola offensiva, può essere usato per etichettare negativamente più categorie di persone, inclusi gli italiani meridionali che vengono assimilati agli africani, considerati come dei nordafricani e così via. Infatti, nel racconto il papà del bimbo ha una maglietta con la scritta «Tegn dur contro il sud magrebino», comprata ad un raduno leghista dove si gridavano slogan come «Fuori i terroni dall’Italia, fuori l’Italia dalla Padania, fuori la Padania dall’Italia, e fuori l’Italia dall’Europa». Vita (e morte) da «magut» Nel racconto In volo sopra la città il protagonista è un ingegnere romeno che è rimasto disoccupato nel suo Paese perché la fabbrica dove lavorava ha chiuso. Nel mese di maggio, dopo aver amaramente celebrato la Festa dei Lavoratori, egli saluta la moglie e i figli e parte per l’Italia. Giunto a Milano, deve accontentarsi di fare il manovale e di lavorare sulle impalcature dei cantieri edili, senza regolare contratto e in condizioni di scarsa sicurezza, a rischio della propria stessa vita. Solo dopo un anno gli viene fatto sottoscrivere un contratto. Evidentemente – sembra ricordarci Butcovan – non ci sono soltanto le fabbriche italiane che chiudono per essere dislocate in Romania o in altri Paesi dell’Europa dell’est, lasciando i dipendenti italiani disoccupati, ma ci sono anche fabbriche che chiudono lì e ingegneri e altre persone qualificate costrette a venire in Italia e a lavorare duramente in condizioni di pesante sfruttamento. Al protagonista del racconto è ben presto chiara la struttura gerarchica del settore edile: «Poi ho scoperto la struttura dei cantieri: appalto, subappalto, imprenditore, caporale, manovale e magut». Egli comprende di essere sull’ultimo gradino di tale scala gerarchica, quello designato col termine dialettale lombardo «magut». La parola indica il manovale di infimo livello, il lavoratore non qualificato ed ultimo arrivato, costretto ad accettare il lavoro nero, precario, sottopagato, pesante e pericoloso. Il termine è spregiativo e condensa pregiudizi sociali ed etnici. Sociali perché esprime disprezzo per chi si sottopone alla dura fatica del lavoro manuale svolto nelle condizioni più penalizzanti (come se in tal caso non valesse il motto «il lavoro è onore» e come se fossero le vittime a dover essere stigmatizzate e non piuttosto i loro carnefici). Ed etnici perché quel tipo di lavoro in quelle condizioni è riservato non solo agli italiani svantaggiati, ma sempre più spesso anche a stranieri provenienti da tanti Paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e dell’Europa orientale, stando a quanto si evince dal racconto stesso. A volte, comunque, a passare dalla parte degli sfruttatori sono alcuni stranieri stessi, privi di scrupoli, come, nel racconto, il romeno Radu, che si è arricchito proprio facendo il «caporale», cioè il reclutatore di manodopera con modalità illegali per i cantieri edili. Il triste fenomeno del «caporalato», nato come reclutamento illegale di braccianti agricoli nelle campagne del meridione, si è da tempo esteso al settore edile nelle città del nord.
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