Silvio Guarnieri in Romania. Dieci anni di vita e di studi a Timişoara

Nel 2022 ricorrono 30 anni dalla scomparsa di Silvio Guarnieri (Feltre, 5 aprile 1910 - Treviso, 28 giugno 1992), uomo di lettere, docente universitario, scrittore, critico letterario e d’arte che diede un notevole contributo alla vita intellettuale del Novecento, dall'esordio presso la fiorentina «Solaria» al decennio trascorso in Romania quale direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Timisoara, fino alle ultime opere pubblicate.
A Guarnieri, Doina Condrea Derer, prestigiosa italianista romena, ha dedicato un importante volume monografico,
Silvio Guarnieri. Universitario in Romania e in Italia (Aracne, 2013), tradotto dal romeno da Paola Polito. L'originale, dal titolo Silvio Guarnieri. Universitar în Romania și Italia, è stato pubblicato nel 2009 sotto l’egida dell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest.
Continuiamo in questo numero la pubblicazione di una serie di estratti tematici dal volume italiano di Aracne, che ringraziamo per la gentile concessione.
Qui il Capitolo II.


In Romania


Oltre all’attività quotidiana della sezione di Timişoara da lui programmata e condotta, comprendente anche lezioni di lingua e letteratura italiana, il giovane Guarnieri tenne corsi di lingua e cultura italiana anche al Politecnico di Timişoara, sempre affollatissimi. Andreia Vanci, della Cattedra di Lingua e Letteratura Italiana dell’Università di Bucarest, accompagnando il Nostro durante un suo ritorno in Romania, nel 1966, dichiarò ai colleghi di aver avuto l’impressione che tutti i timiscioreni riconoscessero e rivedessero con gioia colui che ventotto anni prima era stato non soltanto loro concittadino ma anche insegnante e maestro.


Sui romeni e italiani nel Banato

Fin dall’inizio dell’incarico al servizio dello stato italiano, Silvio Guarnieri prestò attenzione e sostegno ad alcune iniziative romene, entrando in contatto con molti uomini di cultura del luogo. A un anno dal suo arrivo, nel 1939, pubblicò, nel quadro dell’Istituto Italiano di Cultura, la postfazione Romeni e italiani nel Banato al volume di Aurel Cosma, Tracce di vita italiana nel Banato, e curò la presentazione di un libro di Octavian Metea pubblicato dalle Edizioni Fruncea (dove sarebbero apparsi anche dei volumetti di traduzioni di alcune poesie di Ungaretti, nel 1943, e di Montale, nel 1945, a cura di Petru Sfetca). La casa editrice era legata all’omonimo settimanale di informazione politica, economica e culturale, diventato nel 1933 una rivista di cultura sotto la direzione di Nicolae Ivan, che ne assicurò l’apparizione fino al 1944.
Per il suo spirito, la postfazione del novello diplomatico italiano a Timişoara pare essere la risposta naturale all’introduzione apposta da Aurel Cosma al proprio volumetto, venata della retorica mielosa che di regola enfatizza il discorso sulla fratellanza dei Romeni con i discendenti diretti dei Romani. Conformemente all’usanza ancora oggi in vigore – anche se sempre più spesso la reazione degli interlocutori è di una condiscendenza tra l’ammirativo e l’ironico –, Cosma faceva appello alla consanguineità: «Ci lega la legge imperiosa del sangue come pure l’impulso del nostro cuore in cui battono palpiti latini» [1]. In diciassette capitoli sommari, Cosma segnalava diacronicamente – con grandi salti, come fu in effetti – le presenze preromane, romane e italiane, fino in epoca illuminista, quando Francesco Griselini (geografo, storico, disegnatore, cartografo, economista, etnografo, botanico) concluse il suo fruttuoso soggiorno triennale nel Banato. In realtà, Cosma non faceva altro che nominare personalità e avvenimenti di cui il Griselini ha lasciato una solida documentazione in centinaia di pagine pubblicate simultaneamente, nel 1780, in tedesco e in italiano, a Vienna e a Venezia. Forse il lavoro dell’autore romeno avrebbe guadagnato non poco da una maggiore attenzione al lavoro del predecessore italiano. Riferendosi alla zona circostante Timişoara, nella Lettera I indirizzata al comandante imperiale austriaco della città, Griselini scriveva infatti che in un secolo illuminato come il Settecento sarebbe stato utile che qualcuno la descrivesse: la moltitudine di cose memorabili meritava l’attenzione non solo degli scienziati ma di chiunque potesse ricavare stimolo da informazioni reali ed esatte. Bisogna ricordare che il trattato scientifico – perché di questo si tratta, in fondo – ha una cornice epistolare, posta all’inizio e alla fine dei suoi capitoli, non meno ricca di informazioni di tutto il resto.

Allo spirito di queste pagine attinge Silvio Guarnieri nella sua postfazione, capitalizzando anche il surplus che gli derivava dalla grande distanza temporale. Ripercorrendo anch’egli le tappe della presenza dei peninsulari nel Banato, non dimentica di distinguere i motivi delle varie immigrazioni, né la durata di permanenza di ogni ondata, per poi osservare, comparando il livello di civiltà dei nuovi arrivati con quello degli autoctoni, come la romanità comune a romeni e italiani, in condizioni storiche diverse fosse stata per gli occidentali il fondamento del progresso e dello sviluppo, mentre per i romeni aveva costituito soprattutto un fattore di coesione e di autodifesa, agendo da punto di riferimento nella lotta per la sopravvivenza identitaria. Guarnieri prosegue la sua analisi precisando che alle motivazioni commerciali o militari dei tempi dei Romani si erano aggiunte successivamente le mire cattoliche, non meno ambiziose, anche se non prevalenti sulle prime. Sotto gli Asburgo, invece, gli italiani erano andati in gruppi ristretti nel Banato per prestare un’opera ben retribuita: «padroni di un’arte e di una tecnica, non li spingeva fame di terre, ma desiderio di guadagno; si trattava soprattutto di operai molto vicini al piccolo borghese come mentalità ed abitudini, tant’è vero che pochi si stabilirono e che la maggior parte preferì tornare nel proprio paese d’origine» [2].
Legati, per le loro occupazioni, alla città, non ai campi o alla vigna (come erano invece gli altri immigrati), gli italiani liquidavano i loro affari e ritornavano a casa in epoca di ristrettezze, guerre, epidemie, ecc. Quel che dopo un po’ li spingeva a rimpatriare era il fatto che «difficilmente avrebbero potuto adattarsi ad un tono di vita diverso, e spesso inferiore a quello cui erano soliti» (ivi, p. 63); né si potevano dimenticare le condizioni svantaggiate dei romeni transilvani, che, sotto le tante ondate di invasori e dominatori stranieri, erano rimasti «attaccati ad una tradizione che ancora rammentava il punto limite della loro evoluzione» (ivi, p. 59) o venivano risospinti indietro nella scala della civiltà, il che anche spiegava perché – salvo rare eccezioni – i pochi italiani rimasti non fossero stati assimilati da loro ma dai colonizzatori venuti da altrove [3].

Da tutto ciò dipenderebbe anche la valorizzazione discontinua e sfasata delle possibilità di sviluppo culturale e civile create dai ripetuti contatti con gli italiani e, per loro tramite, con l’Occidente, e Guarnieri rammenta come il vescovo Gerardo Sagredo, missionario cattolico in Banato (sec. XI), il generale Enea Silvio Caprara o il conte Luigi Ferdinando Marsigli (sec. XVII), il principe Eugenio di Savoia, il barone e governatore Giuseppe di Brigido (al tempo di Giuseppe II), per non parlare dell’illuminista poligrafo veneziano Francesco Griselini, avessero contribuito «a far rientrare questa regione nella sfera della civiltà occidentale ed a ristabilire quel rapporto, troncato da più di un millennio» (ivi, p. 65), ricostruendo i ponti tra due mondi che avevano avuto un tempo gli stessi usi e governi.
Ma i lunghi secoli di isolamento spiegano la chiusura dei romeni «in una forma di vita precisa e consueta, se pur per certi aspetti primitiva, e da cui non si staccano senza sentire il rimpianto; è la naturale rivolta dei più semplici sentimenti contro la deformazione cui li sottopongono le convenzioni sociali, l’inevitabile lotta tra la mentalità contadina e quella di città, il sospetto con cui chi fu educato in austera e semplice povertà di costumi guarda alla disinvolta spregiudicatezza del nuovo ricco solito ad esasperare ogni atteggiamento di mondanità». (Ivi, pp. 65-66).
Purtroppo Guarnieri – che, a dispetto della sua autoimposta sobrietà, non si esimeva dal ripetere pubblicamente come la Romania significasse per lui molto più di qualunque altro paese straniero – non ritornò più sull’argomento: sarebbe stato il più indicato a dirci in quale misura il ritmo romeno di adattamento ai benefici stimoli allogeni sia andato trasformandosi nel corso di un cinquantennio, a partire dal suo arrivo a Timişoara nel 1938.


Su Badea Cârţan

Così come scritto in copertina, anche il volumetto di Octavian Metea, Viaţa de poveste a lui Badea Cârţan (La vita favolosa di Badea Cârţan) [4], comprende «una presentazione in lingua italiana del Prof. Silvio Guarnieri e tre ritratti del pastore» vissuto nel periodo 1849-1911. Nelle pagine della postfazione, intitolata Nota su Badea Cârţan, l’addetto culturale espone il proprio punto di vista sulla «vicenda un po’ strana del pastore patriota». (Ivi, p. 85). Alcune precisazioni erano necessarie per spiegare una cosa conosciuta a tutti i romeni ma non agli stranieri, e cioè che l’esaltazione delle ascendenze romane dei Romeni si spiegava con il desiderio di indipendenza e differenziazione dai popoli circostanti. «Popolo di pastori e contadini – osserva Silvio Guarnieri –, costretto a vivere sulla montagna e a sfruttare le difficili risorse mentre la pianura era corsa dalle orde dei più diversi invasori, circondato quindi quasi da ogni parte dalle genti slave o slavizzate e naturalmente portato, per rapporti di commercio e di necessari scambi, ad assumerne pian piano il costume e il linguaggio, sottomesso e sfruttato finalmente da padroni più feroci nell’uso delle armi o forti di una più progredita evoluzione civile» (ivi, p. 86). Non meno interessante è l’immagine che il Nostro ci consegna del pastore transilvano di Cârţişoara, il quale, lungo il percorso fatto a piedi fino a Roma, non si lasciò distrarre da quel che vedeva, tanto era concentrato sulla mèta ultima del proprio viaggio, animato da «la decisa fermezza che negli uomini semplici non fa distinto il pensiero dall’azione» (ivi, p. 87).
Degli avvenimenti dell’impresa epica del pastore transilvano, il postfatore mostra di ritenere altamente significativi i giorni passati in carcere, i quali non furono per Badea Cârţan «un’avvilente esperienza» ma, al contrario, rafforzarono la sua determinazione: «nella sua mente i concetti del bene e del male non possono intrecciarsi e confondersi» (ib.).
Con il distacco e l’accondiscendenza di chi occupa una zona decentrata rispetto al referente, Silvio Guarnieri presuppone che, in altre coordinate geografiche, l’ingenuo atteggiamento del pastore potesse anche risultare ridicolo, né esclude la possibilità che i monelli di Roma si fossero divertiti alle spalle del pastore o che il portiere dell’albergo, «tronfio di tante false decorazioni», sorprendendo lo straniero a dormire sotto la Colonna Traiana, lo avesse potuto prendere per «un vagabondo mattoide». (Ivi, p. 89).
Ma il giovane diplomatico italiano comprendeva perché ai romeni lo strano pastore risultasse di fatto ancora molto vicino nel 1939 e apprezzava che essi non rinnegassero le proprie origini contadine ma trovassero nella popolazione rurale la più durevole e più autentica forza della nazione (ivi, p. 90), intuendo il rischio d’improvvisazione cui era esposto il rapido processo di modernizzazione in corso. Infine, considerando che al semplice pastore non si doveva chiedere più di quel che aveva fatto, concludeva che anche per quanti si collochino a un livello superiore e a cui la lettura e la conoscenza libresca della storia romana non pongano problemi, l’impresa di Badea Cârţan rimaneva un modello di perseveranza sulla strada delle conquiste intellettuali.


Altri contributi in ambito storico


In ambito storico, Guarnieri diede anche altri contributi. Alla fine del 1939 apparve il suo articolo Românii şi italienii în Banat [5] e, dopo neppure due mesi, il 4 febbraio 1940, l’articolo Daci şi Romani. Termenii unei probleme româneşti [6], che, in italiano (Daci e Romani), completava come postfazione l’opuscolo di Aurel Cosma Considerazioni sull’origine dei romeni [7].
In poche pagine, Guarnieri vi sviluppa due idee. La prima: che una nazione da poco tempo unificata come la Romania possedesse un’eccedenza di energie e di entusiasmo, «poiché solo una lunga esperienza fa accondiscendenti allo scetticismo» (ivi, pp. 41-42), mentre la libertà di recente conquistata creava illusioni sulla facilità di ogni ulteriore vittoria. La seconda idea si riferiva alla storia appresa sui banchi di scuola, capace di incidere su chiunque, anche nel caso di uno scarso interesse per il passato.
Per i romeni – constata Guarnieri – la storia era stata una lotta per la conquista e la conservazione dell’indipendenza, ma la mancanza di documentazione certa «lascia più facile gioco all’improvvisazione e al sentimento» (ivi, p. 43), fino a contrapporre atteggiamenti diversi, dall’esaltazione dei Daci primitivi, ma coraggiosi e orgogliosi, capeggiati da un Decebal leggendario, all’esaltazione dei potenti Romani, che non avevano bisogno dell’aura romantica di una disperata prodezza. A suo avviso, gli eventi storici mostrano che, come in tante altre situazioni, i fatti non sono mai nettamente definibili, e a questo proposito ricorda le relazioni tra gli antenati dei romeni prima della conquista romana, relazioni che avevano facilitato e rafforzato la colonizzazione, e parimenti ricorda la migrazione, sulle orme dei soldati, delle popolazioni impoverite della Penisola, alla ricerca di mezzi di sussistenza, come i mastri romani e non romani (ma che avevano adottato i costumi dei Romani) giunti ai confini dell’impero a insegnare agli autoctoni come costruire fortezze e macchine da guerra.
Nonostante tutto ciò, Guarnieri, come molti altri, trova sorprendente l’assimilazione della lingua e delle usanze romane da parte dei Daci e avanza due ipotesi: che il fenomeno fosse stato possibile per via della sconfitta definitiva dei Daci, a differenza della molto più difficile conquista dei Galli o dei Germani; che i condottieri eletti dopo la fine di Decebal e dei suoi comandanti, a caccia di privilegi e di condizioni migliori ottenibili dai conquistatori, avessero accettato ogni cosa, lingua e costumi inclusi.


Il volume Adevărata faţă a Italiei (La vera faccia dell’Italia)

Molti altri articoli affidati alla stampa del paese ospitante dimostrano l'effettiva partecipazione di Guarnieri al movimento culturale e d’idee che vi era in corso; alcuni furono inclusi nel volume che riprende il titolo dell’articolo Adevărata faţă a Italiei (La vera faccia dell’Italia), pubblicato su «Luptatorul bănățean» nel novembre 1944 [8]. Il libro omonimo [9], dedicato «alla memoria di Marcel Griffon», testimonia, come scriveva Florian Potra, che Silvio Guarnieri indirizzava anche dall’estero la propria attenzione alla patria. Una nota finale ci informa che la raccolta di articoli, considerata dall’autore una sorta di «diario appassionato», comprende 20 testi, note, articoli, lettere, saggi, scritti tra il novembre 1944 e il luglio 1945, i primi nel quotidiano «Luptatorul bănățean», nei settimanali «Tineretul luptător», «Lupta patriotică», «A világ», «Oglinda» e nel bimensile «Vrerea» (Adevărata faţă..., op. cit., p. 165).
Dalla stessa nota apprendiamo che i temi erano stati trattati anche in occasione di un ciclo di conferenze dal titolo Noua Italie (La nuova Italia), tenute da Guarnieri nella sede timisciorena dell’Istituto di Cultura Italiana tra il novembre 1944 e l’aprile 1945. Vi sono incluse anche le fonti storiografiche italiane e francesi, oltre alle trasmissioni delle emittenti radiofoniche italiane e alle proprie constatazioni.
I materiali, redatti dall’autore nella lingua materna, furono tradotti da Florian Potra e Nicolaie Toia, che probabilmente rividero anche i testi scritti da Guarnieri direttamente in romeno, come farebbe pensare la presenza di costruzioni un po’ forzate o modellate sulla lingua italiana.
Trattandosi di interventi miranti ad avere un impatto politico immediato, lo stile è conforme allo scopo, come già si evince dall’incipit del primo articolo: «Per 21 anni la propaganda fascista ha gonfiato le presupposte realizzazioni del regime di Mussolini in Italia» (ivi, p. 7). Per ristabilire un giusto ordine di grandezze, soprattutto agli occhi di coloro che «hanno creduto e sostenuto – sulla base di questo astuto programma – che l’Italia sia stata fatta e rifatta dal fascismo», Guarnieri ricorda che, nel quotidiano «Tribuna», il professor George Calinescu aveva mostrato agli ingenui che “è sempre esistita un’Italia grande, l’Italia di Dante e di Michelangelo, di Galileo e di Verdi” (ib.), della cui gloria il fascismo aveva approfittato.
In questa prima assunzione di una posizione pubblica dopo la caduta della dittatura in Italia, Guarnieri definisce lo stato corporativo fascista «una farsa grottesca, stato rivoluzionario solo sulla carta, in realtà pensato per irreggimentare un gran numero di funzionari fascisti ambiziosi o scioperati» (ivi, p. 8), e accusa il regime di aver privato della libertà i cittadini, informando che soltanto nei primi quattro anni di “governo semidittatoriale” il numero delle vittime era salito a mille.
Alle dichiarazioni fino ad allora ufficiali Silvio Guarnieri contrappone l’Italia del passato, «culla del cattolicesimo, creatrice dell’umanesimo» (Revoluții și reacțiuni în Italia modernǎ [Rivoluzioni e  reazioni nell’Italia moderna]), in Adevărata faţă..., op. cit., p. 35) o l’Italia moderna.
Negli articoli successivi, il diplomatico italiano passa in rassegna aspetti del fascismo reale, del tutto diverso da quello ufficiale: l’aggressione espansionistica (Italienii n-au luptat [Gli italiani non hanno lottato]), la manipolazione delle tradizioni care agli italiani (Balilla), e passa in rassegna le vittime – don Minzoni, Matteotti, Amendola, Pilati, Gobetti, Rosselli, Gramsci, a fianco di altre centinaia di persone (v. gli articoli Matteotti, Gramsci, Bruno Buozzi, Morţi pentru libertate [Morti per la libertà]).
Al dittatore italiano Guarnieri riservò due articoli: Doua discursuri (Due discorsi), del gennaio 1945, e Mussolini, del maggio 1945, ambedue inclusi nel volume Adevărata faţă a Italiei.
In un altro studio analitico, ben documentato, sostenuto da date storiche verificabili, è radiografata la situazione del 1845, non molto tempo dopo il cambiamento di regime; in esso Guarnieri non si limita a una presentazione descrittiva, come potrebbe erroneamente suggerire il titolo, Lupta italienilor împotriva fascismului (La lotta degli italiani contro il fascismo) [10].


Su Luigi Rozzi e Bruno Buozzi

Tra le figure esemplari, viene immortalata (Numarul 202.133 povesteşte, reportage [Il numero 202.133 racconta, reportage]) [11] quella dell’ingegnere Luigi Rozzi, prelevato dalle SS nella sua residenza di Sesto San Giovanni (Milano), concentrato dapprima a Mauthausen, fatto girare per altri quattro lager e poi ricondotto a Mauthausen, dove resistette a tanta «crudeltà organizzata, a un così deciso disprezzo per ogni valore umano» (Adevărata faţă a Italiei, cit., p. 98). È questa un’altra delle rare occasioni in cui Guarnieri lascia intravedere un palpito affettivo oltre la corazza dell’asettico autocontrollo: «E Rozzi se ne va, sorridente, un po’ commosso. Ci abbracciamo; provavamo la durezza della separazione; in quei dieci giorni sentimmo penetrare dentro di noi i suoi dolori, sentimmo crescere dentro di noi gli spasmi della sua rivolta; cercammo con slancio e dedizione di risarcirlo con il nostro amore». (Ivi, p. 105).
Altra figura esemplare di vittima del fascismo è evocata in due pagine [12], là dove si parla del mastro meccanico Bruno Buozzi, segretario generale della FIOM, sindacato degli operai metallurgici italiani. Ben conosciuto da Mussolini ai tempi della sua esperienza socialista, Buozzi era stato costretto a emigrare negli anni difficili, dopo lo scioglimento del Parlamento, quando tutti i partiti tradizionali erano stati dichiarati fuorilegge. Fatto prigioniero in Francia dai tedeschi, era stato inviato nelle prigioni italiane e, dopo una breve parentesi di libertà alla caduta della dittatura, era ricaduto di nuovo nelle mani dei tedeschi, a Roma, dove morì al fianco di molti altri.


Altri articoli

Chiaroveggente, intuendo quel che sarebbe accaduto dopo vent’anni di costrizioni e di repressioni, l’articolo dell’aprile-maggio 1945, Retorica şi entuziasm (Retorica ed entusiasmo) [13], Guarnieri segnala il pericolo delle deviazioni a valore compensatorio dopo la liberazione dell’Italia: straripamenti sentimentali, patetismo, lacrime, ecc. Proprio per indicare quale fosse il valore da attribuire ai trionfalismi, l’autore invita alla censura dei toni accesi, alla misura, penetrato anch’egli, come la maggioranza degli italiani educati da secoli di cultura e umanesimo, dallo spirito di quel che essi chiamano decoro.
Del resto, un mese prima, nel marzo 1945, Guarnieri aveva offerto un esempio di come andassero vissuti i cambiamenti, i momenti di svolta, riferendo di una scena vista a Belgrado e considerata emblematica. Nel reportage Trei zile la Belgrad (Tre giorni a Belgrado) [14], egli, oltre ad esprimere ammirazione per la dignità con la quale i serbi avevano vissuto la guerra e con cui stavano avviando la ricostruzione, rende omaggio alle migliaia di italiani fatti prigionieri sul fronte orientale, molti dei quali, quando era stato possibile, si erano affiancati ai partigiani di Tito, come nel caso della celebre «Divisione Garibaldi». Nella capitale serba il Nostro aveva visto un battaglione di connazionali fatti prigionieri, obbligati a lavorare nelle fabbriche di materiale bellico della Jugoslavia liberata dai partigiani locali. In quelle condizioni avverse, il loro aspetto esteriore (misero ma il più possibile curato) e la loro giovialità erano sorprendenti: «Erano uomini giovani e meno giovani, vestiti in modo sommario, alcuni quasi straccioni, le giacche troppo larghe o troppo attillate, strappate, rappezzate, le scarpe scalcagnate e i pantaloni completamente sformati. Marciavano cantando; non volevano nascondersi, ma anzi mettersi in mostra, miseri e stracciati, dopo una giornata di duro lavoro, ben rasati, petto in fuori, il berretto tirato indietro sulla nuca, sorridenti, gettavano occhiate e inviti alle donne in strada. La gente usciva sulle soglie, guardava; le donne sorridevano rispondendo ai sorrisi; tra l’ammirazione e la sorpresa, fors’anche con un filo di risentimento, di invidia, gli uomini mormoravano: che vuoi, sono italiani!»
Animato dagli stessi sentimenti è anche l’articolo sui giorni trascorsi a Budapest (aprile 1945), in cui si apprende dell’aiuto prestato da un colonnello sovietico a Timişoara per trasportare il cibo e i giacigli necessari a un gruppo di 400 italiani (uomini, donne e bambini) che si trovavano in Ungheria. Erano rimaste impresse al Guarnieri le parole del militare, che diceva di aiutare volentieri gli italiani perché questi si erano comportati bene con i russi non molto tempo prima, “nonostante il fascismo li avesse costretti a una guerra maledetta” (ivi., p. 41).


Su Antonio Gramsci e Giacomo Matteotti

Come già detto, Guarnieri consacrò molti scritti alla denuncia del fascismo, a partire dalla presentazione di alcune vittime illustri, come Gramsci o Matteotti. Il primo, la cui storia, «come anche quella del suo partito, è la storia di un’eroica sconfitta» (Adevarata faţă a Italiei, cit., p. 83), era stato commemorato con l’articolo Antonio Gramsci, 8 ani de la mortea lui (Antonio Gramsci, a 8 anni dalla morte) [15], ripreso poi con il titolo Antonio Gramsci [16].  Il secondo, definito un «socialista moderato» (ivi, p. 22), era stato evocato nell’articolo Giacomo Matteotti [17]. I due antifascisti costituirono anche il tema di alcune delle conferenze che Guarnieri tenne all’Istituto di Cultura nel Banato, poi pubblicate come segue: Lupta italienilor împotriva fascismului (La lotta degli italiani contro il fascismo) [18], Bruno Buozzi [19], Morţi pentru libertate: Giacomo Matteotti şi Carlo Rosselli (Morti per la libertà: G. Matteotti e C. Rosselli)  [20].
Del momento di transizione verso una società democratica parlò in Prin suferinţe se cladeşte o lume nouă (Attraverso le sofferenze si costruisce un mondo nuovo) [21], e nel già citato articolo Retorica şi entuziasm.
Il risultato del referendum storico italiano che aveva penalizzato la monarchia fu salutato dal diplomatico italiano in Romania con O noua republică, Italia (Una nuova repubblica, l’Italia) [22],  e, nello stesso spirito, con gli articoli Însemnari despre istorie (Annotazioni sulla storia) [23], e Note despre istorie (Note sulla storia) [24].


Articoli sulla letteratura italiana

Ma al pubblico romeno Guarnieri portò notizie di prima mano anche relativamente al campo letterario della Penisola, con Eugenio Montale [25], con Prezentarea (Presentazione) del già menzionato volume Poeme de Eugenio Montale (poesie scelte e tradotte da Petru Sfetca), con lo studio Cultura italiana în faţa fascismului (La cultura italiana di fronte al fascismo) [26], oltre che con il ciclo di conferenze Italia nouă (La nuova Italia), iniziato, come già detto, nell’autunno del 1944 presso l’Istituto che Guarnieri dirigeva, e poi proseguito nell’anno successivo. Lo studio Tineri prozatori italieni (Giovani prosatori italiani)[27], ripreso col titolo leggermente modificato di Tineri naratori italieni (Giovani narratori italiani) [28], familiarizzò gli interessati alla cultura italiana con i nomi di alcuni artisti che ormai erano nell’attenzione di un largo pubblico della Penisola.
A ciò si aggiungano la presentazione di un poeta e prosatore di successo, coll’articolo Aldo Palazzeschi [29], e il consistente studio Enrico Pea (apparso nel volume collettivo Saggi di Filologia e di Filosofia) [30].
Come scrittore, Guarnieri si presentò al pubblico romeno con un frammento del romanzo Satul tatalui meu în timpul invaziei  (Il villaggio di mio padre durante l’invasione) [31] e con un estratto dall’Autobiografia giovanile di un anonimo scrittore contemporaneo, apparso col titolo Monumentele uitarii (I monumenti dell’oblio), nella traduzione di Florian Potra [32].


Articoli sulla letteratura romena

In direzione opposta, come diffusore della cultura romena nel proprio paese, Silvio Guarnieri pubblicò nel 1940, in un almanacco, Uso dei Romeni e una presentazione della narrativa moderna romena, apparsa dapprima col titolo Romania su «Tempo», IV, n. 75 e col titolo Rumänien su «Tempo» (Deutsche Ausgabe), I, n. 5, poi continuata (stavolta recensendo Il segreto del dottor Honigberger di Mircea Eliade) nel 1941 su «Tempo», V, n. 84 e su «Tempo» (Deutsche Ausgabe), II, 9, dimostrando interesse per Mircea Eliade prima che questi diventasse di notorietà mondiale (anche come narratore e non solo come storico delle religioni), e dando altresì prova di non voler sacrificare la cultura di valore in nome del proprio credo politico.
Il narratore transilvano Pavel Dan venne presentato da Silvio Guarnieri in «Letteratura», V, n. 4, ottobre-dicembre 1941, quattro anni prima che Eugène Ionesco (Eugeniu Ionescu) lo facesse conoscere ai francesi traducendo e pubblicando Le père Urcan [33].






Doina Condrea Derer
Traduzione a cura di Paola Polito

(n. 5, maggio 2022, anno XII)



NOTE

1. Aurel Cosma, Tracce di vita italiana nel Banato, con una Nota di Silvio Guarnieri, Timişoara, Edizione dell’Istituto di Cultura Italiana in Romania, Sezione di Timişoara, 1939, p. 5.
2.   Silvio Guarnieri, Nota, nel volume di Aurel Cosma, op. cit., p. 62.
3.   I Sassoni: Saşii (di origine germanica, venuti nei sec. XII-XIII in alcune zone della Transilvania) e gli Şvabi (tedeschi, francesi, italiani, spagnoli, bulgari, venuti nel sec. XVIII in Banato e in alcune zone della Transilvania).
4.   Timişoara, Editura Fruncea, 1939.
5.   (Romeni e Italiani in Banato), «Curentul literar», 31 decemvrie 1939, pp. 8-9.
6.  (Daci e Romani. I termini di un problema romeno), «Curentul literar», 4 februarie 1940, p. 4.
7. Timişoara, Edizione dell’Istituto di Cultura Italiana in Romania, Sezione di Timişsoara, 1940, pp. 41-48.
8. I, n. 63, 25 noemvrie 1944.
9.   Timişoara, Editura frontului antifascist al italienilor din România 1945, 167 pp.
10. «Lupta patriotică», II, 21 maiu e 8 iulie 1945.
11. Rievocazione di Luigi Rozzi, in « Lupta patriotică  », II, 4 iunie e 1 iunie 1945.
12. Rievocazione di Bruno Buozzi, in « Luptatorul bănățean », II, n. 223, iunie 1945.
13. «Vrerea», VI, nn. 7-10 , aprilie-maiu.
14. «Lupta patriotică», III, n. 11, martie e n. 15, aprilie 1945.
15. «Luptatorul bănăţean», II, n. 193, aprilie 1945.
16. «Lupta patriotică», II, 2 maiu 1945.
17. «Luptatorul», II, n. 230, 13 iunie 1945.
18. «Lupta patriotică», II, 21 maiu 1945.
19. «Luptatorul bănăţean», II, n. 224, iunie 1945.
20. «Oglinda»,  iunie-iulie 1945.
21. «Vrerea», VI, nn. 5-6, martie 1945.
22. «Banatul», n. 124, 8 iunie 1946.
23. «Vrerea», VII, nn 6-8, iunie-august 1946.
24. «Vrerea», VII, nn. 9-10, septemvrie-octombrie 1946.
25. «Lupta patriotică», III, n. 9, februarie 1945.
26. «Revista Fundațiilor Regale», XII, n. 3, noemvrie 1945.
27. «Vrerea», VII, nn. 1-2, februarie, e n. 3, martie 1946.
28. «Revista Fundațiilor Regale», XIII, n. 4, aprilie 1946.
29. Pubblicato nelle pagine delle rivista «Vrerea» (VII, nn. 11-12, noemvrie-decemvrie 1946) e continuato nei numeri successivi (VIII, nn. 1-2, ianuarie-februarie 1947).
30. Saggi raccolti e pubblicati a cura di un comitato editoriale, Bucuresşti, Bucovina, I. E. Torouțiu, 1946.
31. «Vrerea», VI, nn. 1-2, ianuarie 1945.
32. «Vrerea», VII, nn. 4-5, aprilie-maiu 1946.
33. Marseille, Jean Vigneau, 1945.