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Silvio Guarnieri nei ricordi degli intellettuali italiani che lo hanno conosciuto
Nel 2022 ricorrono 30 anni dalla scomparsa di Silvio Guarnieri (Feltre, 5 aprile 1910 - Treviso, 28 giugno 1992), uomo di lettere, docente universitario, scrittore, critico letterario e d’arte che diede un notevole contributo alla vita intellettuale del Novecento, dall'esordio presso la fiorentina «Solaria» al decennio trascorso in Romania quale direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Timisoara, fino alle ultime opere pubblicate.
A Guarnieri, Doina Condrea Derer, prestigiosa italianista romena, ha dedicato un importante volume monografico, Silvio Guarnieri. Universitario in Romania e in Italia (Aracne, 2013), tradotto dal romeno da Paola Polito. L'originale, dal titolo Silvio Guarnieri. Universitar în Romania și Italia, è stato pubblicato nel 2009 sotto l’egida dell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest.
A partire da questo numero iniziamo a pubblicare una serie di estratti tematici dal volume italiano di Aracne, che ringraziamo per la gentile concessione. Qui la prima parte del Capitolo I.
Guarnieri nella prospettiva dei contemporanei
Andrea Zanzotto e la sua testimonianza
Al poeta Andrea Zanzotto dobbiamo una presentazione tanto equilibrata quanto veridica di Silvio Guarnieri uomo e letterato, pronunciata a Feltre il 4 dicembre 1992. [1] Il famoso poeta, al quale Guarnieri fu legato da una solida e duratura amicizia, ricorda la corrispondenza tra loro intercorsa nel lontano 1954 sul tema del dogmatismo. Dalla sua testimonianza risulta come, a dispetto delle diverse posizioni di partenza (dovute a una differente formazione), i due futuri amici sostenessero più o meno lo stesso punto di vista.
Nel suo articolo, scelto non a caso per aprire la serie di rievocazioni, Zanzotto esprimeva la convinzione che il tempo, ottimo vanificatore di stereotipi, avrebbe tributato un’importanza sempre maggiore alla figura del letterato Guarnieri. E ricordando non senza polemica il luogo comune che voleva il Feltrino colpevole di una certa ingenuità utopica, si chiedeva come ciò fosse possibile, vista la sua partecipazione continua, mai accondiscendente, ai dibattiti culturali, il costante aggiornamento, tutt’altro che superficiale, di cui aveva sempre dato prova non soltanto in campo letterario, ma anche filosofico e sociologico, nelle scienze umane in generale, senza perdere mai interesse per l’essenziale.
Il volume Per Silvio Guarnieri. Omaggi e testimonianze
Quando Guarnieri, in conformità a un nobile costume universitario italiano, dovette ritirarsi dall’attività accademica al compimento dei settant’anni, i professori e gli studenti dell’Istituto di Letteratura Italiana dell’Università di Pisa chiesero ad alcune personalità di punta della cultura, tra cui molti scrittori, di rendergli omaggio con testimonianze o materiale inedito: ne risultò un volume miscellaneo di quasi duecento pagine, Per Silvio Guarnieri. Omaggi e testimonianze (Pisa, Nistri-Lischi, 1982), a cura di Giancarlo Quiriconi e con la prefazione di un altro accademico vicino al Guarnieri, Luigi Blasucci. Come nota il prefatore, lungi dal convenzionalismo tipico degli scritti gratulatori, il volume riesce a illustrare non soltanto la varietà (e bisognerebbe aggiungere anche la qualità) degli amici di Guarnieri, ma anche la ricchezza spirituale del festeggiato.
Memorabile è l’osservazione circa il fatto che, «se il destino avesse concesso loro vita più lunga», non sarebbero mancati dalla lista dei testimoni i nomi di Comisso, Gadda, Vittorini (ivi, p. 7). Buon conoscitore della biografia di Guarnieri, Blasucci ricorda l’ambiente del gruppo di intellettuali che era solito riunirsi tra le due guerre al caffè delle «Giubbe rosse», «il più importante caffè letterario di Firenze». [2]
Questo è anche il motivo per cui la sezione Omaggi si apre con i sei versi rivolti da Eugenio Montale il 2 gennaio 1977 al segretario del PCI, il conte sardo Enrico Berlinguer, e affidati dal poeta a Guarnieri perché li trasmettesse al destinatario. Non si saprà mai, salvo l’eventualità di tardive testimonianze, quale fosse stata la reazione del politico. In ogni caso, nel contesto che a noi interessa, è significativo che il grande Montale scegliesse il suo più giovane amico come messaggero in una questione così delicata: in pochi versi, il poeta attirava l’attenzione sulle conseguenze della linea politica adottata da Berlinguer, il quale, come si sa, non fu solo il promotore dell’eurocomunismo ma anche, sul piano degli affari interni, del compromesso politico con la Democrazia Cristiana. Visto che Silvio Guarnieri non era l’unico a cui affidare l’ingrata missione, si può supporre che il poeta genovese volesse manifestare anche a lui il proprio dissenso.
Il volume contiene testi inediti di diciassette prosatori e poeti tra cui Romano Bilenchi, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici, Mario Luzi, Vasco Pratolini, Giovanni Raboni, Andrea Zanzotto. Altri diciannove firmatari si soffermano o su un momento biografico o su un qualche aspetto della personalità del festeggiato. In ognuno dei contributi troviamo informazioni inedite e preziose, cui si aggiungono molti apprezzamenti sulla base di testimonianze autentiche.
Partendo da una o più circostanze di vita, alcuni evidenziano le molte imprese di Guarnieri critico, scrittore, professore, presidente e membro di importanti giurie letterarie, militante politico, per molti troppo ottimisticamente idealista, ma per tutti sempre onesto, e non soltanto quando si trovò in disaccordo con la linea del partito al quale aveva aderito da giovane e al quale, nonostante le grandi delusioni e l’emarginazione di cui fu fatto oggetto, sarebbe rimasto fedele tutta la vita. In fondo, pareva trattarsi piuttosto di una fedeltà alla parola data, da intendersi come fedeltà a se stesso. Dalle testimonianze raccolte nel volume risultano le pregnanti qualità dell’uomo: la probità, l’equilibro nel giudizio, l’affabilità nei confronti di tutti, l’impeccabile distinzione dei comportamenti.
Secondo il critico letterario Gian Carlo Ferretti, la chiarezza e la totale dedizione (Lucidità e passione è il titolo del suo articolo) hanno caratterizzato l’approccio alla cultura, e quindi anche alla letteratura, di Guarnieri, dimostrata soprattutto nel volume L’intellettuale nel partito (Padova, Marsilio, 1976). Ferretti ricorda che negli anni ’50, quando l’Italia era lontana dall’avere un’industria culturale, Silvio Guarnieri pose sul tappeto la questione della condizione sociale dell’intellettuale, del rapporto tra il mercato e gli autori, intuendo il pericolo dei condizionamenti, da una parte, e dell’isolamento elitario, dall’altra; domande poste senza imbarazzi di sorta proprio nel periodo della massima rigidità ideologica instauratasi in tutta Europa. Il merito era tanto più grande quanto più, all’inizio degli anni ’50, sfuggiva la gravità della questione, e G.C. Ferretti precisa polemicamente, a distanza di decenni, come «ancor oggi non manchino letterati che continuano a considerare disdicevole e inopportuno ogni accostamento tra condizione sociale dello scrittore e opera, tra mercato e letteratura, pur se esso condotto senza schematici determinismi e con tutte le necessarie mediazioni». (Lucidità e passione, in Per Silvio Guarnieri…, cit., p. 118).
Guarnieri e Antonio Tabucchi
Non senza civetteria narcisista, nelle pagine evocative Lettore attento e curioso, il romanziere di successo nonché apprezzato specialista di letteratura portoghese Antonio Tabucchi ci mette a parte di qualcosache forse poteva dirci soltanto lui, e cioè che, all’Università di Pisa, Guarnieri fu l’unico docente a prendere sul serio le sue preoccupazioni di scrittore e a incoraggiarlo, e aggiunge scherzosamente di non sapere «se essergli grato di quella indulgenza o serbargliene unsano rancore» (ivi, p. 168), nel dubbio che, se fosse stato invece scoraggiato, avrebbe probabilmente intrapreso una carriera più redditizia. Ma, riconosce Tabucchi, i consigli del suo mentore si erano rivelati «preziosi».
A proposito delle molte discussioni intrattenute col suo professore soprattutto sul rapporto intellettuali-potere, lo scrittore sottolinea le loro diverse posizioni: «Io – confessa Tabucchi – ero (sono) flaubertiano, per la mia viscerale simpatia per coloro che hanno spiato il mondo da dietro i vetri della finestra, Guarnieri stendhaliano. E poi mi lasciavo attrarre non tanto dalla pars construens, ma dalla pars destruens in sé e per sé». (Ivi, p. 170). L’ultima frase, piuttosto esplicita, evidenzia per contrasto la principale caratteristica del Maestro: il coinvolgimento, la partecipazione diretta alla vita civile, di cui assumeva in pieno i rischi, dai quali infatti non fu risparmiato.
Non ci sarebbe nulla da commentare né ci sarebbe bisogno di andare a cercare significati nascosti tra le righe se non avessimo invece la possibilità di confrontare questo testo con la testimonianza autobiografica di Guarnieri intitolata Antonio, nel volume apparso postumo a cura di Antonia Guarnieri e con la prefazione di Franco Petroni. [3] In una quarantina di pagine, con la meticolosità di sempre e con l’ossessione della resa fedele dei fatti come visti al microscopio, il professore vi ricostruisce la parabola della propria amicizia con Tabucchi, offrendoci anche un resoconto che completa l’immagine che di lui abbiamo come uomo e docente.
La differenza d’età, di 33 anni, tra il maestro e il discepolo (a Bucarest, in una conferenza della primavera del 2008, Tabucchi si riferì esplicitamente al Guarnieri come a il mio maestro) non impedì l’affermazione tra loro di una solida amicizia, del tipo di quelle che di regola si stabiliscono soltanto nell’adolescenza. Non solo: il ricordo degli anni in cui la frequenza degli incontri (magari anche soltanto per un lungo giro in bicicletta) era diventata quasi quotidiana è reso con candore giovanile. Viene da chiedersi se l’assenza di grandi amicizie nella preadolescenza e negli anni successivi non spieghi l’attaccamento totale di cui Silvio Guarnieri fu capace nella maturità e nella vecchiaia. La dedizione, l’intensa partecipazione affettiva non pervennero tuttavia a offuscargli il giudizio. Prossimo alla partenza definitiva da Pisa, per andarsi a ristabilire nella cittadina natale del nord-est italiano, si domandò come sarebbe stata la sua vita senza le frequenti, animate discussioni con Tabucchi: «egli era talmente entrato nella mia vita, anche nella più intima, che un fatto, un evento, un episodio che mi avessero toccato acquistavano per me un valore soprattutto in quanto ne avrei parlato con Antonio; in quanto mi si offrivano come un nuovo mezzo per suscitare l’interesse e la reazione di Antonio». (Ivi, p. 267). A sua volta, Tabucchi stimolava l’interesse dell’amico con il suo talento nello scovare situazioni, uomini d’eccezione o semplicemente insoliti, con la sua predisposizione a gustare lo spettacolo vario e attraente del mondo.
Di origini modeste, ma di comportamento distinto, rafforzato dal matrimonio con una discendente della casa reale portoghese (una donna di grande finezza e semplicità, a giudizio di Guarnieri), Tabucchi aveva in comune con l’ex professore non solo il comportamento, ma anche l’interesse per la letteratura moderna, sul piano estetico, e per gli aspetti sociali, sul piano politico. Sull’esempio del Maestro, infatti, s’iscrisse a un certo punto al PCI e aiutò i giovani di Vecchiano, dove risiedeva, in azioni culturali che coinvolsero anche il professore.
Guarnieri ne era entusiasta, avendo la sensazione che il discepolo, «approfittando della mia esperienza e conformandosi sul mio esempio» (ivi, p. 265), ripetesse l’esperienza da lui vissuta negli anni ’50 a Feltre. A un certo punto, tuttavia, l’ex studente declinò una responsabilità accettata il giorno precedente, adducendo il motivo che non se la sentiva di far fronte a situazioni percepite come un’imposizione, e poco dopo non riconfermò l’adesione al partito – nel senso che non rinnovò la tessera; l’ex mentore comprese che non sarebbe stato possibile distoglierlo da quella decisione, pur ricevendo l’assicurazione che «le sue scelte politiche restavano quelle di un tempo; e così i suoi legami di amicizia con i compagni di Vecchiano non venivano troncati; [...] solo egli voleva ricuperare integralmente la propria libertà di decisione e di azione; voleva essere libero di discutere e anche di dissentire dalle scelte del partito; non voleva in nessun modo sentirsi legato da un impegno, costretto ad una disciplina» (ivi, p. 286).
Sul piano pragmatico, le posizioni dei due avevano coinciso solo all’inizio – più esattamente nel periodo della «generosità giovanile» di Tabucchi, che, a un certo punto, indignato dell’ingiustizia di cui Guarnieri era stato oggetto, spinse quest’ultimo a presentarsi a un nuovo (l’ennesimo!) concorso per lo strameritato e mai ottenuto titolo di professore ordinario. In seguito, per quel che lo riguardava, avrebbe tratto insegnamento da tali circostanze, badando a che la propria carriera universitaria non fosse ostacolata da simili umiliazioni, come finemente osserva il Maestro: «In tal senso io gli servivo come un punto di riferimento che gli dava qualche sicurezza ma che al tempo stesso lo costringeva a un confronto, a un ripensamento. [...] io andavo sempre più presentandomi a lui per quel che ero, per quel che era la mia condizione, per quelli che erano i miei risultati pratici, o che non lo erano, in quel mondo delle lettere del quale pure facevo parte, come in quello universitario; cosicché il mio non poteva non risultare anche a lui un caso anomalo” (ivi, p. 260).
Se teniamo conto di questi elementi riferiti in modo così equilibrato, senza recriminazioni, nella penultima evocazione guarnieriana de Le corrispondenze, non possiamo non chiederci se Antonio Tabucchi non li avesse presenti egli stesso, più o meno coscientemente, quando, nel rendere omaggio a Guarnieri, si chiedeva retoricamente se non portasse al Maestro «un sano rancore» per il fatto di essere stato da lui incoraggiato a diventare scrittore. Rancore per questo, o perché il professore l’aveva assecondato con entusiasmo in campo politico? Comunque, nell’intervista concessa a Bucarest a Cristian Cercel per «Observator cultural», Tabucchi definì positivamente Guarnieri come «un gramsciano». [4]
Le testimonianze di Stefano Agosti e Sergio Antonielli
Ritornando al volume gratulatorio, solo chi non conosca neppur solo in parte l’opera di Silvio Guarnieri si sorprenderebbe del fatto che il suo riferirsi a una scala di valori prevalentemente etici, anche nel discorso sull’arte, sia stato messo in evidenza dalla maggioranza di coloro che hanno voluto lasciare testimonianza scritta del loro rispetto.
Nell’evidenziare l’inquietudine che attraversa l’opera critica di Guarnieri – incentrata sul rapporto soggetto-scrittura, e perciò tesa a indagare se e in quale misura l’opera rappresenti il pensiero e la personalità dello scrittore –, Stefano Agosti, sulla scia di Zanzotto, ne definisce il percorso come «eminentemente etico», dandone una lettura lukácsiana (Testimonianza per Silvio Guarnieri, in Per Silvio Guarnieri…, cit., pp. 89-90).
Ai «valori indiscutibili» cui si riferiva il critico Guarnieri nella propria analisi di scritti di rilievo (come quelli di Vitaliano Brancati, Alberto Moravia, Guido Piovene, Vasco Pratolini e, soprattutto, il romanzo Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini) fa cenno anche Sergio Antonielli nelle raffinate pagine suggestivamente intitolate La critica del Super-io. Portando prove del legame quasi fraterno tra Vittorini e Guarnieri (il quale a Milano era ogni volta ospite dell’amico) e delle loro fruttuose dispute, Antonielli, squisito prosatore, critico e storico di alta reputazione, professore di letteratura moderna all’Università di Milano, prende decisamente le distanze da coloro che si erano affrettati a porre etichette. C’era da rimettere in discussione il pericoloso genere critico del tipo «lo scrittore avrebbe potuto… avrebbe dovuto»; perciò Antonielli sottopone ad attentissima analisi la presentazione fatta da Vittorini sul risvolto del volume Utopia e realtà (Torino, Einaudi 1955), dove Silvio Guarnieri è definito un «critico assillante». Ben sapendo che il testo vittoriniano mirava a evidenziare il rigore morale del Feltrino, Antonielli si sofferma soprattutto sul qualificativo, acutissimo, il cui senso rinvia al convincimento – sempre esternato da Guarnieri – che all’artista corra l’obbligo di sottoporsi costantemente a un severo esame di coscienza. Visto che il percorso etico-politico di Guarnieri mantenne sempre a suo fondamento il «tema del rapporto fra realtà apparente e realtà altra, o ulteriore, o profonda» (ivi, p. 94), Antonielli riflette che questi avrebbe voluto ammirare le opere degli scrittori – specie se a lui legati affettivamente – «nella luce di una letteratura ideale» (ib.).
Il critico osserva che Guarnieri era assillante, teso, sempre in allerta, non soltanto nell’analisi degli scritti altrui ma anche in ciò che lo riguardava personalmente, quando il discorso si faceva autoreferenziale: «bisogna concludere che il dover essere non è per lui una questione di metodo critico, bensì una morale scelta di fondo, quanto meno un’invincibile abitudine» (ivi, p. 95) e per questo motivo, aggiunge il critico, gli autori presi in analisi da Guarnieri sarebbero «tutti raffrontati a un’immagine ideale di loro stessi» (ib.). In altre parole, ad Antonielli preme sottolineare come il Feltrino non si situasse col suo metodo critico nella posizione distaccata del piccolo demiurgo, ma a fianco degli altri, e trova conferma a questa impressione personale nelle frasi con cui Silvio Guarnieri, parlando delle proprie Cronache feltrine (Venezia, Neri Pozza, 1969), tratteggiò il ritratto dello scrittore realista modello: «[…] sono anzitutto il segno della mia volontà di impadronirmi di una realtà in tutti i suoi aspetti sino in fondo, perché essa non possa essere messa in dubbio, scalfita anche solo da dubbi o da riserve; ed al tempo stesso della mia meraviglia, della mia pena nello scoprirla, nel confermarla a me stesso quale essa è». (Ib.).
La conclusione cui giunge Antonielli è che Guarnieri, con l’ossessione dell’autosuperamento, tenne conto di una propria immagine ideale, misurandosi ogni giorno con essa, e chiedendo anche agli altri di procedere allo stesso modo. Nella posizione di critico, egli fu non tanto un giudice delle mancanze altrui, quanto uno scrittore pronto ad attirare l’attenzione di tutti, oltre alla propria, sulla necessità di conformarsi al proprio ideale umano; in altre parole, così come desidererebbe il Super-io.
Italo Calvino, Luigi Baldacci e Fernando Bandini
Anche Italo Calvino, a proposito della prosa mista di «narrativa e saggistica» praticata da Guarnieri, confessa: «ha contato per me fin dagli anni della mia formazione letteraria perché mi è giunta attraverso la vibrazione morale e la calorosa fiducia umana che egli è sempre riuscito a comunicare» (Una zona Guarnieri, in Per Silvio Guarnieri…, cit., p. 111). Infatti, nella «mappa» del suo «scrivibile», la «zona Guarnieri» era quella che lo portava all’esperienza «vissuta e riflettuta fino in fondo» e che, secondo Zanzotto [5], l’aveva influenzato nella stesura del suo romanzo La giornata di uno scrutatore (Torino, Einaudi, 1963).
La prospettiva ideologica introdotta dal Nostro nella propria analisi del testo «non invade mai il campo a danno delle risultanze del discorso letterario» (L’impronta di Guarnieri, in Per Silvio Guarnieri…, cit., p. 101), conclude Luigi Baldacci nel riferire le opinioni guarnieriane su Le sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi e sull’Elegia dell’Ambra di Ardengo Soffici, dopo aver introdotto il suo intervento gratulatorio con affermazioni importanti: «L’impronta che ha lasciato Silvio Guarnieri nella nostra critica non è effimera. Ho sott’occhio Condizione della letteratura [Roma, Editori Riuniti, 1975]. È il libro di uno storico del Novecento, di una qualità e di una vocazione quali raramente si riscontrano». (Ivi, p. 98).
Anche il poeta e critico letterario vicentino Fernando Bandini – come indicato dal titolo del suo intervento (Una vocazione socratica, in Per Silvio Guarnieri. . . , cit., pp. 102-104) – parla per Guarnieri di vocazione, riferita però ad altri campi: la vocazione all’apostolato, in quanto per il settantenne festeggiato l’insegnamento non aveva mai dovuto avere altro scopo se non di persuadere della verità; e anche la vocazione oratoria, diventata mitica in occasione di un omaggio che Guarnieri rese a Vittorini in una piazza pubblica, ma che molto più frequentemente ebbe occasione di dimostrare durante i corsi di Letteratura italiana moderna e contemporanea tenuti alla Facoltà di Lettere di Pisa, con un’udienza mai in seguito uguagliata da alcun altro docente. Non senza orgoglio, in una delle sue ultime visite a Bucarest, il professore diceva agli amici romeni che il capiente anfiteatro in cui aveva sempre tenuto le sue lezioni era stato diviso, dopo il suo pensionamento, in due aule distinte.
Romano Luperini e la sua testimonianza
La figura dell’insegnante e dell’esegeta – che ha lasciato negli allievi «una traccia incancellabile» (Silvio Guarnieri, professore dell’Università di Pisa e critico letterario, in Per Silvio Guarnieri…, cit., p. 156)– è ampiamente rievocata da Romano Luperini, il quale fu presentein aula nel lontano 1960, quando il grande storico letterario deldopoguerra, Luigi Russo, annunciò agli studenti il nome di colui alquale aveva affidato il nuovo insegnamento di Storia della Letteraturaitaliana moderna e contemporanea.
In un clima abbastanza scialbo, caratterizzato da immobilismo (l’idealismo di Croce continuava a condizionare le posizioni anche all’inizio della seconda metà del secolo scorso), il nuovo arrivato «portava nelle sue lezioni un rigore morale e una tensione umana e politica, che assunsero per noi il valore di un’alternativa» (ivi, p. 150). I suoi corsi non denotavano soltanto un’applicazione fruttuosa, una competenza nel decifrare le opere e nel ricostruire l’itinerario degli scrittori, ma anche una capacità di «distanziazione critica, talora spietata» (ivi, p. 151), il che spiega anche perché i migliori studenti, riconoscendolo come maestro – anche di vita – abbiano elaborato le loro tesi di laurea con lui tra il 1960 e il 1965, provocando la gelosia di alcuni suoi colleghi, che non si astennero da penose ritorsioni contro i laureandi (ib.).
Guarnieri stette sempre a fianco degli studenti, interessandosi alla loro evoluzione professionale e di carriera, come anche alle loro preoccupazioni e difficoltà, al punto che, in un’epoca in cui i giovani italiani contestavano in massa il corpo docente, occupando scuole e università, a lui fu chiesto di collaborare alla rivista «Nuovo impegno» di Pisa, portavoce della celebre contestazione del 1968. Gli studenti di allora, apprendiamo da Luperini, lo seguivano con entusiasmo: «Ci affascinava la sua intransigenza. […] In lui il passaggio dal testo alla vita era continuo. Anzi, a veder bene, il testo interessa a Guarnieri solo per confrontarsi con l’uomo, per giudicare l’uomo e, con esso, un periodo storico (ma l’uomo gli preme più della storia)». (Ivi, pp. 152-153). Il moralismo di Guarnieri – precisa acutamente l’ex allievo – «non era quello di un marxista ortodosso che cerca il ‘realismo’ o un’ideologia politica progressista», ma «di un ermeneuta che fa reagire le domande del testo con le proprie» (ivi, p. 153). La dimostrazione risiederebbe, secondo Luperini, nella promozione guarnieriana dell’umanismo degli ermetici fiorentini collaboratori di «Campo di Marte», e soprattutto dell’estetica degli artisti raccolti negli anni ’30 intorno alla rivista «Solaria», che coltivavano l’amor vitae e apprezzavano l’inclinazione ludica di Svevo, Comisso (da loro scoperto), Gadda (come autore dell’Adalgisa) o Palazzeschi, cioè degli scrittori che «prendono di sbieco la vita onde trarne maggior piacere», inclinazione dimostrata anche dall’interesse «per il mito solariano dell’America barbarica, ma felice» o per «l’adolescenza vista come meravigliosa avventura». In altre parole, i giovani apprezzavano che il loro professore non soltanto condividesse il programma della sua generazione, ma che lo trasmettesse anche alla successiva (ivi, p. 154).
A differenza tuttavia di molti con i quali ebbe in comune fino al 1945 fede politica e programma, Silvio Guarnieri non si convertì alla critica riduttiva di tipo neorealista, concentrata soltanto sulla letteratura di ideologia ritenuta progressista, che doveva trasmettere ottimismo ad ogni costo. Ma se la sua opzione si dimostrò, nei primi lustri del dopoguerra, ben ispirata, perché portava nella storiografia e nella critica letteraria aria fresca, diversa, bisogna riconoscere che la pratica di un percorso di tipo esclusivamente contenutistico era già datata negli anni ’70. Allora, specialisti e studenti s’appassionavano per l’intero ventaglio di metodi d’analisi testuale ispirati dai formalisti russi (giunti soltanto allora alla meritata fama mondiale), dalla psicanalisi, dallo strutturalismo, dalla critica delle varianti, dalla semiotica. La marginalizzazione di Guarnieri si produsse anche nell’ambiente dei letterati di sinistra che avevano assimilato rapidamente le nuove direzioni, innestandole sull’estetica di Georg Lukács. Solo così si spiega perché sia passato sotto silenzio il volume L’intellettuale nel partito (Padova, Marsilio, 1976), situazione deplorata post factum da Luperini.
In effetti, restando fedele al proprio programma, alla propria assiologia, con l’ossessione della coerenza, Guarnieri continuò a praticare lo stesso tipo di critica, senza aggiornamenti metodologici e senza ricorrere all’armamentario terminologico divenuto ormai usuale. Così accade che nelle sue pagine di storiografia o di critica letteraria manchino riferimenti testuali, anche quando il corpus in oggetto appartenga al genere lirico. Non essendo interessato al dettaglio, egli seguiva in un autore, da una parte, la capacità d’introspezione, la coerenza e la forza morale, e, dall’altra, sorprendentemente per chi come lui era ossessionato dall’ordine, «l’elemento anarchico e ludico» (ivi, p. 153). Romano Luperini si limita ad alludere soltanto a questo stato di cose, ma avanza in cambio un’ipotesi di tipo psicanalitico là dove afferma: «Gli autori che Guarnieri più segretamente apprezza sono proprio quelli che disobbediscono al principio di realtà, per seguire quell’istinto del piacere che il loro critico invece ostinatamente si interdice». (Ivi, p. 154).
La fedeltà del professore alla concezione scelta negli anni della giovinezza aveva condotto alla frattura, ma i suoi ex studenti compresero, se non allora, in seguito, che chi etichettavano come moralista, o come solariano attardato, era pari a ogni altro uomo, e cioè – come scrive Luperini – «sempre qualcosa di più dell’ideologia che professa» (ivi, p. 151).
Adesso possiamo dire che, nel tempo, si sono rivelati adeguati i giudizi di valore da Guarnieri espressi già fin dal suo esordio di critico su alcune opere letterarie passate inosservate o poco apprezzate al loro apparire, che egli ebbe incontestabili meriti nella critica di ricezione di nuove opere letterarie, esercitata nel periodo interbellico e successivamente, e che gli autori da lui sostenuti con articoli e saggi furono in seguito riconosciuti da parte degli specialisti, senza eccezioni. Parimente – come rilevato da molti esegeti – le riserve formulate da Guarnieri rispetto a scrittori che si compiacevano in opere a effetto disfattista, ripetitive o prive di coerenza interiore, furono col tempo condivise da molti altri critici, obbligati a ricredersi.
Carlo Bo e Marco Forti
Alcuni dei firmatari del volume Per Silvio Guarnieri riferiscono della già ricordata ingiustizia commessa dal mondo universitario nel respingere il Nostro al concorso per professore ordinario. Benché avesse pubblicato volumi e studi di riferimento, e nonostante i suoi corsi raccogliessero la maggiore udienza, nei suoi venti anni di attività accademica (che poi neppure contarono ai fini pensionistici) egli rimase semplice professore associato all’Università di Pisa, con uno stipendio sensibilmente inferiore ai suoi reali meriti.
Rendendo pubblico il «rimorso e per sé e per la tribù» di appartenenza, lo storico e critico letterario Carlo Bo dichiara ne Il guardiano del faro degli anni lontani (in Per Silvio Guarnieri…, cit., pp. 105-106): «È toccato al Guarnieri qualcosa di più doloroso e di amaro: non solo è stato messo da parte, alla fine gli si è sempre scelto qualcuno che valeva molto meno e che davvero non poteva vantare lo stato di servizio della sua vita» (ivi, p. 105), ma il professore fu anche trattato con crassa ingratitudine: lui che, guidato da una matura capacità di discernimento e dal proprio gusto artistico, aveva riconosciuto sopra a tutti e sostenuto con argomenti adeguati al loro valore autori come Gadda, Montale, Vittorini e Bonsanti, venne omesso in molte bibliografie e storie letterarie (ib.). Oltre al merito di aver preparato la ricezione di alcuni tra i più grandi scrittori italiani della prima metà del secolo XX – merito che «gli deve essere riconosciuto toto corde» (ib.) –, Guarnieri ebbe anche quello di scrittore, critico e professore, «maestro segreto, ispiratore di tante generazioni di giovani». (Ib.)
Ripercorrendo così questa prima parte di testimonianze lasciate da personalità indiscusse della cultura italiana degli ultimi decenni del secolo XX, deduciamo che in ogni campo (persino in quello politico), se pure accreditato per il suo prestigio e la sua autorità, Silvio Guarnieri fu alla fine lasciato in una posizione secondaria, cui si aggiunse anche una forma di autosegregazione – operata in totale buona fede, e da lui apertamente riconosciuta – soprattutto a causa del suo attaccamento a un credo politico.
Non tanto per gli interventi storico-letterari o per la sua critica di ricezione, da vero «guardiano del faro», gli rende omaggio Marco Forti nelle otto dense pagine intitolate Guarnieri per Montale (in Per Silvio Guarnieri…, cit., pp. 119-126), quanto per il suo contributo alla decifrazione di alcuni versi del poeta genovese e, fatto insolito, per il ruolo svolto nell’amicizia con questi: «Fino a qualche anno fa, a nostra conoscenza, il lavoro critico di Guarnieri su Montale si limitava alla nutrita testimonianza biografico-critica Creare a noi il nostro destino, […] e alla parte dedicata a Montale stesso nel vastoscritto Motivi e caratteri della poesia italiana da Gozzi a Montale»,ma – precisa lo studioso – significativo è stato soprattutto il «tenace eprezioso esercizio di maieutica montaliana» (ivi, p. 119). Ripercorrendole memorie lasciate dal Feltrino, a partire da quelle circa le celebridiscussioni del periodo 1930-1937 alle «Giubbe rosse», Forti osservaquanto l’immagine del grande poeta offerta da Guarnieri differiscada quella ricavabile a posteriori dall’opera montaliana o dall’esegesi adessa consacrata: «Fin da allora Guarnieri indicava la forza perentoria,la capacità di giudizio esistente nell’uomo Montale, le scelte di gusto,di costume, le norme di vita, che non solo fossero tali da costruireil senso della sua opera, ma anche fossero tali da suggerire in essauna possibilità di intervento nella particolare realtà storica di queltempo». (Ivi, pp. 120-121). E l’asserzione è sostenuta dal critico conampie citazioni dagli scritti guarnieriani.
Forti dichiara di non condividere pienamente né l’opinione secondo cui Guarnieri avrebbe offerto della poesia di Montale un’immagine eticizzata e modellata con eccesso di spirito storicista, né l’idea che per lui il primo volume di versi montaliano, Ossi di seppia, avrebbe avuto non soltanto un valore riassuntivo e conclusivo dell’intera poesia italiana del primo quarto di Novecento, ma anche un valore estetico superiore a quello delle raccolte successive. Pur rivendicando una «scala di valori» diversa da quella del festeggiato, Forti riconosce che proprio l’impulso etico e storicista fu alla base di un’amicizia che aveva come corollario il «frutto più pregiato ed intenso, vale a dire il rapporto di fiducia reciproca durante il quale Guarnieri ha sempre incalzato l’amico poeta con discussioni e sollecitazioni all’impegno militante, fin dagli anni ’30 e poi nei decenni successivi» (ivi, p. 123). Di incontestabile utilità – ritiene Forti – fu anche la corrispondenza tra i due, contenente una lunga lista di risposte puntuali del poeta alle domande che Guarnieri gli pose nel corso di due anni, e che risultò in un vero e proprio autocommento montaliano. Per ricorrere al linguaggio critico letterario di quaranta-cinquant’anni fa, si potrebbe dire che le risposte in questione costituiscono un’autentica poetica esplicita verso la quale l’esegeta spinse Montale.
Altri ricordi e contributi documentari
Su questa materia, condizionati a loro volta dal proprio orientamento politico, alcuni studiosi ritengono che negli apprezzamenti critici di Guarnieri si avverta il peso del sostrato ideologico. Circa le posizioni di Silvio Ramat, ad esempio, la scrivente ricorda come, in occasione di una conferenza ch’egli tenne presso l’Istituto Italiano di Cultura di Bucarest il 25 ottobre 2007, alla domanda su come giudicasse il contributo di Silvio Guarnieri alla spiegazione di parti oscure dei versi montaliani grazie alla famosa corrispondenza con il poeta, il critico s’affrettasse a imputare al collega il fatto di essere rimasto irreggimentato politicamente «quando nessuno lo era più»: affermazione del tutto corretta, ci sembra, ma in qualche modo sviante, visto che la domanda posta riguardava l’analisi testuale, la maieutica, e non la biografia guarnieriana. Ramat tenne anche a precisare che, se ad alcune richieste di chiarimento il poeta aveva risposto in modo esplicativo, ad altre «Montale aveva risposto a modo suo», depistando l’amico.
Comunque sia, è importante ricordare che è solo grazie all’iniziativa intrapresa dal Feltrino mentre era professore a Pisa che disponiamo oggi di moltissime lettere indirizzategli da Eugenio Montale (nei periodi 29 aprile-22 maggio 1964 e 29 novembre 1965-12 febbraio 1966), le quali offrono spiegazioni puntuali, utili a chiarire l’occasione e la semantica di molti versi. Le risposte alle domande concisamente formulate riguardavano i volumi di versi del 1939 e del 1954, ad eccezione del ciclo di Silvae e dei Madrigali privati. Inoltre, in occasione di una conversazione riferita da Guarnieri, il poeta soddisfece solo verbalmente ad alcuni punti interrogativi riguardo i componimenti di Satura.
Tutta questa parte documentaria è entrata a far parte del volume – ancora indispensabile – Montale commenta Montale (Parma, Pratiche, 1980), curato da un allievo di Guarnieri, Lorenzo Greco. L’iniziativa e i risultati sono notevoli, non solo perché da allora si sono sapute più cose circa le ispiratrici dei versi di Occasioni e Bufera, che spiegano la ricorrenza del motivo della separazione e, in parte, l’istituzione del celebre tu montaliano; il contributo esplicativo è immenso per molti altri aspetti, nonostante, come suggeriva Silvio Ramat e come è ormai risaputo, il poeta abbia deviato il senso di alcune domande e spostato l’interesse dal fattuale o biografico al soggettivo, verso la sfera dell’ambiguità, estesa all’insieme della propria opera e ai suoi sensi derivati, simbolici. Le domande di Guarnieri – spiega Forti – «mirano, in genere, a una precisa o puntuale comprensione fattuale di certi aspetti decisivi delle poesie, spesso necessari a coglierne il ‘clic’, il momento risolutore. Il critico nelle sue domande si rivela in genere pragmatico, quasi sempre rivolto a penetrare il significato di un testo, piuttosto che a metterne a fuoco il metro, la forma, l’ambito di quello che conviene chiamare il significante». (Ivi, p. 124). Anche se talvolta pare stridente (M. Forti utilizza l’eufemistico ossimorica) la differenza tra il tono del critico letterario, desideroso di rigore matematico, e quello del poeta, esistenzialista e metaforico, dal loro scambio di repliche «si sono sprigionati barlumi, scintille di reale comprensione critica della poesia e dell’opera montaliana» (ivi, p. 126).
Giorgio Pullini e Alessandro Bonsanti
Al letterato Guarnieri, che già dagli anni ’50 sorprendeva per la familiarità con tutti i grandi scrittori italiani e con quelli che solo più tardi avrebbero acquistato fama, ma soprattutto per gli imbattibili criteri di valutazione, rende omaggio anche lo specialista di cultura moderna italiana Giorgio Pullini con Una piccola aneddotica memoria (sempre in Per Silvio Guarnieri…, cit., pp. 161-164). Assistente del filologo e critico letterario Raffaele Spongano, universitario a Padova, Pullini era colpito dalla «insaziabile sete di aggiornamento» di Guarnieri (allora insegnante in un istituto magistrale), davanti al quale – scrive – «restavo sempre un po’ indietro». Alle sue domande perentorie a proposito di un qualche libro, il giovane era obbligato a rifugiarsi dietro evasivi «‘l’ho visto’, ‘l’ho sfogliato’, ‘lo leggerò» (ivi, p. 163).
Neppure la qualità dell’atto critico guarnieriano è mai stata messa in dubbio dal più giovane collega: «Sapevo ormai di un Guarnieri politicamente impegnato, ma non ritrovavo quasi mai nei suoi criteri di giudizio il calco degli schemi ideologici della critica della sua parte; né, d’altronde, vi trovavo i luoghi consacrati della tradizione, crociana o rondista o ermetica che fosse” (ivi, p. 163). La spiegazione che Pullini ne offre è la presenza in Guarnieri di un metro di valutazione fondato sull’esigenza di una sincerità «esente da ogni scopiazzatura o presunzione intellettualistica, da ogni formalistica convenzionalità (donde la sua frequente predilezione per gli ‘inizi’ degli scrittori)» (ib.).
L’amico Alessandro Bonsanti, esponente di punta del gruppo di «Solaria», evidenzia invece nel suo Un portolano per Silvio Guarnieri (ivi, pp. 107-110) la verve polemica di Guarnieri, evocando le vacanze trascorse in gioventù a Feltre, come «ospite del mio nuovo amico, o meglio della sua famiglia, della sua casa» (ivi, p. 108), così come lo furono Gadda, Giorgio Pasquali, o anche Montale e Mosca (ivi, p. 109). Bonsanti ricorda un giovane padrone di casa cordiale ma tagliente nelle discussioni, soprattutto con Vittorini, al quale, da questo punto di vista, assomigliava: «Veneto e Sicilia si toccavano attraverso la lunghezza dello stivale, che era presente in loro sotto altri aspetti di continue diversità; la penisola improvvisamente si raccorciava, anzi si rattrappiva fino a rimanere la semplice barriera puramente formale e in realtà inesistente attraverso la quale gli schermidori che si esercitano tentano di colpirsi con stoccate sanguinose, ma in realtà inoffensive fuori degli ambiti di competenza». (Ivi, p. 110). Per il più anziano Bonsanti, la critica di Guarnieri era «una schermaglia aggressiva dove l’arma è l’idea, e dove il compito del critico è soprattutto di stanarle, queste idee, senza malevolenza per l’avversario» (ib.).
Gino Geròla e Stefano Giovanardi
Maggiori informazioni sulla militanza civile di Guarnieri si ricavano dall’intervento di Gino Geròla che, in Da Pisa a Col Falcon. Con vivissima coerenza (ivi, pp. 127-129) osserva come l’impegno delNostro si sia dispiegato, oltre che negli scritti, anche nei fatti, come nelcaso dell’uso gratuito trentennale di una proprietà di famiglia concessoal PCI per farne la sede di una colonia per bambini di famiglie operaie.
Delle qualità umane di Silvio Guarnieri, Geròla menziona il senso del dovere, la costanza, l’onestà, la decisione, il desiderio di rinnovamento, una rara capacità di comprensione, lo spirito di solidarietà, l’umanità. «Ha certo i suoi limiti, le sue insufficienze, le sue crisi anche lui. Ma, nel contrario con gli altri, non le lascia quasi mai venire a galla. Agli altri bisogna dare, oltre che ricevere, senza pretendere per questo di essere al di sopra di nessuno. [...] Si tratta di valori che, in un tempo come il nostro, non si incontrano tanto facilmente. Conoscere l’uomo che li porta, credo possa fare bene a tutti». (Ivi, p. 129).
Presentando in un quotidiano italiano il volume di ricordi guarnieriani sui letterati di «Solaria» apparso quattro anni prima, L’ultimo testimone. Storia di una società letteraria, Stefano Giovanardi, nel suo articolo in memoriam, Silvio Guarnieri, l’ultimo testimone di «Solaria» – Fu uno scrittore senza nostalgia, osserva come il memorialista non conoscesse il semitono, l’arte di dire e non dire, le infinite sfumature del grigio; per lui le cose erano sempre bianche o nere, animato com’era da una profonda fiducia, traslata integralmente dal cattolicesimo alla politica, che lo aveva reso uno scomodo compagno di viaggio.
Dobbiamo convenire con le parole di Giovanardi, sapendo che quel pensiero solido, che aveva immunizzato Guarnieri da iperboli e da nostalgie, permeò anche le sue testimonianze pubbliche quando si trovò a essere l’ultimo sopravvissuto del mitico gruppo delle «Giubbe rosse». Il desiderio espresso dall’«ultimo testimone», che la tensione e le aspirazioni cui aveva consacrato la propria esistenza avessero un’eco,presuppone, secondo Giovanardi, la stessa nobile, rarissima moralità.
Doina Condrea Derer
Traduzione a cura di Paola Polito
(n. 4, aprile 2022, anno XII)
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