Cristina Campo e le infinite corrispondenze

A cento anni dalla nascita, la fiamma al calor bianco di Cristina Campo arde più necessaria che mai. E nel cerchio del tempo, danzano come altre fiamme tutte le sue corrispondenze: non solo quelle, da lei dichiarate e coltivate, con Simone Weil, Hofmannsthal, Emily Dickinson o Djuna Barnes, ma anche quelle che furono a lei avverse, come con Pasolini.

A Cristina Campo, cacciatrice solitaria, piaceva corrispondere: scrivere lettere agli amici fu per lei non soltanto un modo per non cedere a quella solitudine che lei riteneva necessaria – e coltivava – in parte costretta dalla sua debolezza di cuore, ma anche un modo per nutrire e al tempo stesso placare la fiamma viva della sua necessità, che era quella di tessere parole, come la fanciulla di Eliot tesseva il sole tra i capelli [1]. Eliot la vide, quella fanciulla abbandonata, in un bassorilievo, durante un suo viaggio in Italia. Ogni parola di Cristina Campo è un bassorilievo: ne ha la stessa commovente precisione. E Cristina Campo, nata Vittoria Guerrini, subì il primo abbandono con la morte di una fanciulla: Anna Cavalletti, la sua migliore amica, uccisa da un bombardamento alleato su Firenze nel 1943, quando Vittoria aveva vent'anni. Fu il suo primo grande lutto, le rimase addosso come un marchio a fuoco. Anche per Emily Dickinson, una delle genialità da cui la Campo prendeva luce, il primo lutto importante, prodromo di tutti gli altri, fu la perdita della sua amica Sophie Holland, e anche Emily Dickinson scrisse moltissime lettere lungo tutta la sua vita. In una lettera alla signora Holland del 1856 scrisse: “se ogni tanto non fosse caduto qualcuno che io non ho potuto più risvegliare, non vi sarebbe stato bisogno di un altro Paradiso oltre questo di quaggiù”. 
Quel Paradiso, Cristina Campo lo cercò incessantemente, con un furore tale che – negli ultimi suoi anni – la portò ad allontanarsi dalla Chiesa di Roma dopo l'editto che eliminò la messa in latino, per incontrare la chiesa del Russicum, la spiritualità russa e la liturgia bizantino-slava. Anche se fu Elémire Zolla a “trovarle” la chiesa del Pontificio Collegio Russicum a Roma,  quel furore luttuoso con cui la Campo visse la perdita del rito romano minò il forte sodalizio con Zolla, tanto che Cristina distrusse il testamento dove lo lasciava suo erede, ed è per questo che, alla sua morte, molte sue carte – appunti, bozze, manoscritti, corrispondenze – sono andate perdute: gli unici eredi, il fratello e le sorelle dell'amato padre Guido Guerrini, con i quali la Campo mai si era relazionata, non ricordano cosa ne sia stato di quella cassa in cui furono rinchiuse. Probabilmente, scrive Cristina De Stefano nella biografia della Campo [2], furono buttate dagli addetti al trasloco.
Ma altre lettere rimangono, Cristina ne scrisse moltissime: a Leone Traverso, Gianfranco Draghi, Margherita Pieracci Harwell, Mario Luzi, Giorgio Orelli, Alessandro Spina, Margherita Dalmati, Djuna Barnes, María Zambrano, Vittorio Sereni, Marcel Lefébvre, William Carlos Williams [3].  Li raggiungeva ovunque.
Cristina Campo si chiamava in realtà Vittoria Guerrini: nacque il 29 aprile del 1923 da due genitori, Guido ed Emilia, che «agli occhi di Cristina saranno per tutta la vita l'emblema della felicità coniugale. Una condizione che lei osserverà sempre, negli altri, con una sorta di partecipazione. Come da una soglia» [4].
Suo zio, fratello di sua madre, era Vittorio Putti, per lei il più splendido tra i parenti. A quel tempo, era uno degli ortopedici più famosi al mondo: dal 1915 diresse l'ospedale Rizzoli di Bologna che sotto la sua guida diventa un'eccellenza proprio per l'ortopedia. Vittorio Putti era alto e slanciato, con mani lunghe e sottili, e nel 1923 – anno di nascita di Cristina – è ritratto davanti all'ospedale mentre, elegantissimo in abito scuro, cammina al fianco del Duce che invece ha un soprabito tutto stazzonato. L'infanzia di Cristina Campo è come avvolta dall'aura di eleganza e di privilegio che circonda quest'uomo, e certamente la vicinanza di questo zio colto, dedito alla scienza ma anche alla letteratura, che protesse la sorella come un padre, influenzò la visione che Cristina adulta ebbe degli uomini di scienza, una visione giusta, corretta, che manifestava tutta la sua ammirazione verso chi non si faceva prigioniero di una sola disciplina.
Henri Mondor (1885 - 1962), che fu medico chirurgo docente alla Sorbona ed ebbe all'Académie Française il seggio che appartenne a Paul Valéry, scrisse importantissime opere scientifiche e affiancò alla pratica medica e alla ricerca scientifica un'intensa attività letteraria (come i saggi su Mallarmé e Rimbaud): Cristina Campo, in un saggio intitolato Henri Mondor. Poesia e verità, include i suoi libri sia scientifici che letterari in quella categoria di opere che rivelano una verità «indiscutibile quanto semplice, radiosa quanto spoglia, e che è per questo due volte poesia», e definisce lo scienziato Mondor «un uomo dunque competente: che, tornando ogni volta alla poesia dai posti avanzati della verità – la costante presenza della morte, il riaffermarsi invincibile della vita – è in grado di pronunciare la parola esatta, quella in cui in nessun tempo e in nessun luogo si sorride» [5].

La poetessa tedesca Christine Koschel, cara a Cristina Campo che la tradusse, «ha sempre ritenuto necessario salvaguardare il «mondo interiore», il «rispetto per il non riconosciuto e il non riconoscibile», e ha creduto possibile scrivere poesia autentica soltanto a condizione di non lasciarsi prendere dalla «volontà vanitosa di produrre qualcosa», tipica di chi è prono alla società di massa e all'industria culturale che svuotano la parola mercificandola; e di riconquistare la condizione dell'innocenza, di contro alla menzogna, alle trappole dei potenti, all'esilio da noi stessi a cui ha costretto una società che aliena l'essere umano, una società violenta e seminatrice di orrore» [6].
Una società che non riconosce più il sacro, che ha perso l'idea di destino, la capacità di vedere l'invisibile, e non conosce – come la Koschel – il distacco della bellezza e la bellezza del distacco.
«Il poeta quale fondatore: / cozza con la fronte / I cervelli scorrendo di lobo in lobo - / uomo di spada che vaga mendicando - / che la mandria da voti non può permettersi» [7].
«La mente antica non sembra si muovesse se non intorno a questa idea irrecusabile», scrive Cristina Campo, e definisce la sparizione tutta moderna dell'idea di destino «la perdita delle perdite, seme e circonferenza di tutte le altre», quella di cui non si fa il nome, mutilati come siamo «dell'organo stesso del mistero». Attribuendo ai poeti, come attimi di visione, l'assimilazione dell'idea di destino come fosse «un tappeto di meravigliosa complicazione di cui il tessitore mostri solo il rovescio nodoso e confuso», chiarisce che «ciò che fa del destino una cosa sacra è lo stesso elemento che distingue il sacro, lo stesso che distingue la poesia: la sua reclusione, segregazione, l'estatico vuoto in cui si compie». In quel vuoto, il destino si forma «in virtù delle stesse leggi complementari che presiedono al nascere della poesia: l'astensione e l'accumulo» [8].
Astensione: rinuncia consapevole e motivata. Accumulo: ammasso di materiali.
Cristina Campo cita: la stanza di Emily Dickinson ad Amherst; l'esilio di Dante a Ravenna;  Hölderlin nella torre di Tubinga sul fiume Neckar; Proust a Parigi nella sua camera da letto isolata da pareti in sughero; e Djuna Barnes chiusa nel suo appartamento di New York.
Ma possiamo aggiungerne altri: Emily Brontë nella brughiera dello Yorkshire, Giacomo Leopardi a Recanati, Rainer Maria Rilke nel piccolo e solitario castello di Muzot, Anna Achmatova reclusa a Leningrado, Franz Kafka nella casa della sorella a Zürau, Virginia Woolf nella sua stanza tutta per sé, Katherine Mansfield in uno chalet sulle Alpi svizzere, Dino Campana nella soffitta di Marradi, Sandro Penna nella sua casa vicino al Tevere, Guido Morselli nella casa rosa di Gavirate.
Nella sua stanza, Emily Dickinson raccolse e numerò tutte le sue poesie, quasi milleottocento. Dante a Ravenna chiuse la sua Commedia. Rilke nel solitario silenzio del piccolo castello di Muzot concluse le sue Elegie di Duino e scrisse i Sonetti a Orfeo. Hölderlin nella casa-torre sul fiume compose le sue liriche più potenti, come Leopardi nella prigione di Recanati. Campana nella soffitta di Marradi riscrisse a memoria i suoi Canti Orfici. Marina Cvetaeva scrisse questi versi: «A Dio io chiedo / una stanza – qualunque - / un buco – da sola! - / un posto – per me! - / quattro pareti per / il silenzio».
Per Heinrich von Kleist, il momento più fecondo e forse perfino più felice fu durante la prigionia nella fortezza francese di Fort Joux, abbarbicata tra le rocce sul Massiccio del Giura. «Che fai tutto il tempo?» Gli chiedono i suoi compagni di prigionia. «Che faccio? Mai ho goduto di tanta libertà». Chiuso in quella fortezza, Kleist lavorò alla sua Pentesilea, la quale, mentre offre il petto al pugnale, sembra dire che la morte si forgia «sull'eterna incudine della speranza», mentre la disperazione è soltanto il martello che si abbatte.
Quella dei poeti, segnata dai lampi, votata giocoforza alla distanza, è una vita moltiplicata, che «sembra accadere tanto più compiutamente quanto maggiore fu la solitudine del poeta, il suo salto fuori dall'acqua, di salmone controcorrente, senza speranza e senza disperazione» [9].
Pare che Emily Dickinson, negli anni della sua reclusione volontaria, vestisse sempre di bianco, e dicesse: «Il rosso è la normale tinta del fuoco, ma chi osa guardare un'anima al calor bianco?» Per Cristina Campo, che ebbe in Emily Dickinson una delle sue feconde corrispondenze, non era necessario vestirsi di quel colore per bruciare al calor bianco: le bastavano le parole. A differenza della poetessa di Amherst, che ne scrisse molte sottoforma di versi e numerò le sue quasi milleottocento poesie, Cristina Campo ne scrisse assai meno, in forma di poesie, saggi, e lettere, e disse che ne avrebbe volute scrivere ancora meno.

Da bambina, Cristina-Vittoria legge quasi esclusivamente libri di fiabe.
Per i poeti, la fiaba è come il mito: portatrice del destino, il suo linguaggio è pregnante di significato ed è puro come quello della poesia. I poeti vedono il lampo azzurro sull'abito della Moira, della dea del destino, diceva Cristina Campo, ma quel lampo, continua la Campo, lo si vede tutti da bambini, negli stracci delle streghe, tra le fauci di un lupo, negli incantesimi delle fate madrine, nella coda di una sirena, in un soldatino di stagno, in una scarpetta di cristallo, o sul naso di un burattino.
E la fiaba delle fiabe – scrive ancora Cristina Campo –   è la vicenda di un dio o di una dea sopra la terra.
Nella struttura circolare che fiaba e mito condividono, ruota il destino a cui si intreccia la poesia, come dimostra Gianni Rodari.
La poesia, come la fiaba, la vera fiaba, non quelle stravolte da Disney ma quelle che si raccontavano ai bambini prima di dormire, non consola, piuttosto mette in guardia. Aiuta a capire che c'è l'uomo nero, ci sono le streghe, e bisogna farci i conti.
La poesia, come la fiaba, è veglia in solitudine. E come il bambino resta solo dopo il bacio della madre o del padre, che lo proteggono, il poeta resta solo dopo il bacio della poesia, che è la sua fortezza.

Ora non resta che vegliare sola
col salmista, coi vecchi di Colono;
 il mento in mano alla tavola nuda
vegliare sola: come da bambina
col califfo e il visir per le vie di Bassora.
Non resta che protendere la mano tutta quanta la notte;
e divezzare l'attesa dalla sua consolazione,
seno antico che non ha più latte.
Vivere finalmente quelle vie -
dedalo di falò, spezie, sospiri da manti di smeraldo ventilato -
col mendicante livido,
acquattato tra gli orli di una ferita.

(Ora non resta che vegliare sola, Su «Paragone» del febbraio 1965)

Nel 1957 la Campo conosce uno scrittore e intellettuale che la folgorerà: Elémire Zolla. Già famoso, molto più di lei, Zolla si separerà dalla moglie, la poetessa Maria Luisa Spaziani, per stare con Cristina Campo, e lavorare con lei: tutti e due hanno la chiara visione di quel che è invisibile, delle potenze primigenie e del destino, e se lui è uno studioso eclettico dai mille interessi, lei è concentrata sull'approfondimento. Tutti e due lontani dalla cultura ufficiale, fondano una sorta di cenacolo a cui partecipano figure straordinarie di intellettuali come Guido Ceronetti, Roberto Calasso, María Zambrano, e molti stranieri di passaggio in Italia. La vicinanza di Cristina Campo guiderà Zolla verso una ricerca del sacro che lo avvicinerà a Simone Weil e ai mistici cristiani e pagani: la società letteraria lo considererà quasi un tradimento e darà in parte la colpa a Cristina. Ma Zolla scriverà il suo libro più celebre e importante, I mistici dell'Occidente, e a sua volta nutrirà la già fervente spiritualità di Cristina Campo, che nel 1962 pubblicherà il suo secondo libro, Fiaba e  mistero, in cui il destino, l'attenzione, l'arcano, il simbolo, sono i temi di elezione, e come una suite musicale compongono quella visione della vita che la maggior parte di noi non vuole vedere, distratti dal dominio incontrastato dell'io e dalla comodità delle illusioni: denaro, fama, possesso, ricerca della felicità personale.

I genitori di Cristina non apprezzano Elémire Zolla, ne subiscono la presenza imposta da Cristina. La notte di Natale del 1964 muore la madre di Cristina, e poco dopo anche il padre. Cristina è sgomenta, deve lasciare la casa che il Conservatorio aveva dato al padre, si trasferisce a vivere con Zolla in una pensione poco distante dalla basilica di Sant'Anselmo. Il cammino verso la religione è lento: «Con Dio – scrive Cristina – continuiamo a girarci intorno, come due armati di lancia che cercano il punto giusto per colpire» [10]. Ma la lancia colpirà: tra il 1964 e il 1965 qualcosa le parla, e Cristina inizia a passare ore nelle chiese, ascolta i Vespri, si appassiona al rito, seduta nella stessa chiesa in cui sedette trent'anni prima Simone Weil durante il suo viaggio in Italia. Ma proprio in quegli anni, nel Concilio vaticano II, i modernizzatori avranno la meglio, e nel giro di poco il rito tanto caro a Cristina scomparirà, il gregoriano sarà emarginato, il latino eliminato quasi del tutto. Tutto un mondo, di nuovo, scompare, e Cristina Campo, che lo aveva appena scoperto, ne resta atterrita. E mentre Zolla si distaccherà sempre di più dalla religione cattolica, Cristina torna a combattere come una tigre, e per restaurare la liturgia latina organizza raccolte di firme, in una sorta di manifesto a cui aderiranno artisti e intellettuali di ogni paese: Auden, Borges, de Chirico, María Zambrano, Montale, Quasimodo, Maritain, Elena Croce, tra molti altri. Lo scopo è salvare un pezzo di bellezza, eppure la Campo sa che la battaglia con i modernizzatori è persa in partenza. Forse per questo Zolla non sopporta tanto attivismo, e comincia ad allontanarsi da lei.

Cristina Campo è uno dei più feroci critici della modernità: per l'abbandono delle tradizioni, della sacralità, di quel senso del sacro che difende tutte le cose, e la sua lotta sarà strenua. Finché nel 1972 anche lei, come accadde a Simone Weil, si ritirerà dalla prima linea, dopo che con l'approvazione del Novo Ordo Missae la messa tradizionale sarà di fatto vietata. Negli stessi anni, l'invasione del Tibet distruggerà la città sacra di Lhasa, i suoi monasteri, e i suoi monaci, torturati, imprigionati ed esiliati. Per Cristina Campo, così convinta della necessità del sacro, questi avvenimenti hanno una stessa origine: l'aver dimenticato l'ordine eterno del mondo, la sua «garanzia verticale».
Alla fine, a capire Cristina Campo, che sembra così complicata, non saranno né prelati né intellettuali, ma gli autisti dell'autobus e i giornalai con cui lei si intrattiene, e che si entusiasmano alle sue parole: c'era in loro l'ultimo lacerto di quel senso del sacro e del destino che oggi sembra del tutto sparito.
Nella primavera del 1968 Cristina Campo va a vivere in un appartamento, con i suoi gatti. Sempre più solitaria, si realizza completamente solo attraverso la letteratura, e accetta di incontrare gli amici soltanto in questo mondo. Ogni istante è visto e descritto attraverso la letteratura: Dante, Čechov, Pasternak, Simone Weil, Thomas Mann, Emily Dickinson, i cui versi le vennero subito in mente quando morirono i suoi genitori: la morte, il grande enigma. Ed è in compagnia di questi grandi che vive i suoi ultimi anni. Scrive moltissime lettere, unico legame col mondo esterno. Ma l'amore per la letteratura la porterà a scoprire comunque nuovi amici, come la poetessa tedesca Christine Koschel, e l'opera di un'altra poetessa fino ad allora sconosciuta in Italia: l'americana Djuna Barnes, che vive reclusa in un appartamento di New York come lei nel suo appartamento di Roma. Sarà un’altra scoperta che Cristina Campo diffonderà per prima in Italia, ancora una volta, come aveva già fatto con l'opera di Simone Weil e la poesia di William Carlos Williams.
Nel frattempo, anche Zolla la lascia sempre più sola: viaggia, studia l'alchimia e lo sciamanesimo, è spesso lontano, mentre nel 1971 Cristina pubblica il suo terzo libro: Il flauto e il tappeto, in cui ancora una volta il tema centrale è il destino, la poesia, il mistero. Il libro vendette poche copie, e non ebbe nessuna recensione, perché Cristina Campo era considerata una reazionaria dall'establishment culturale post sessantottino e perfino da Pier Paolo Pasolini: quando Cristina entra come consulente editoriale da Rusconi e cura le pubblicazioni di autori come Simone Weil, René Guénon, Mircea Eliade e Levi Strauss, Pasolini parlerà di operazione culturale di destra, una colossale scemenza, vista la statura degli autori pubblicati, che mostra la cecità ideologica di Pasolini. Cristina Campo è certo una conservatrice, ma soprattutto ha orrore della società di massa, della società dei consumi, proprio come Pasolini, a cui la lega la critica al mondo nato con il boom economico, un mondo dove si è persa ogni idea di sacro e di destino. Come Pasolini, considera il progresso come una pericolosa bugia, ma la stessa critica arriva da due posizioni ideologicamente diverse, e questo impedisce alleanza e comprensione, un'alleanza che avrebbe potuto perfino dare i suoi frutti.
Cristina Campo non sceglie di guardare la modernità in faccia come fa Pasolini che la usa apparendo in tv e in tutti i mass-media, ma nemmeno sperimentandola di persona come fece Simone Weil andando a lavorare nelle fabbriche francesi per descriverne le terribili condizioni degli operai sfruttati. Cristina Campo alla modernità volta subito le spalle. Però, per tutti loro, il risultato finale sarà lo stesso: un necessario distacco, a cui arrivano da strade diverse. Pasolini con la bruciante disillusione dell'abiura, Simone Weil dopo un turbine di esperienze vissute sulla propria pelle, e Cristina Campo in un meditato e progressivo avvicinamento alla fede religiosa, in compagnia dei poeti e degli scrittori più amati, e di opere che lei considera colme di destino, come il Dottor Živago di Pasternak, grande amore letterario anche di Anna Achmatova.
Accettare il destino e resistere al destino è una cosa sola, e lo dimostrano proprio le vite di Simone Weil e Anna Achmatova: resistere non significa contrastare il destino, ma accettarlo, guardarlo in faccia. Ma la perdita di quest'idea conduce alla catastrofe, perché al senso del sacro e del limite si sostituisce un illusorio e pericoloso senso di onnipotenza, come sapeva bene anche Simone Weil che criticò dal di dentro la dittatura del progresso infinito e del tempo lineare della Storia.
La Campo, di cui ricorre quest'anno il centenario dalla nascita, è una delle poetesse sublimi del Novecento che allarga i suoi orizzonti fino ad oggi. Studiò da sola, con il padre, e conosceva il greco, il latino e molte lingue europee. Leggere oggi le sue poesie, i suoi saggi, e le sue traduzioni di altri grandi poeti, come Hofmannsthal, Donne, e Simone Weil, apre orizzonti infiniti. È lei che parla di attenzione del poeta, di parola pura, vergine, intrisa di destino e lontana da un mondo che invece il destino non lo conosce più: non si tratta del destino inteso come «essere destinato a...» ma del destino come potenza che limita le nostre vite e va accettata, così come si accettano i nemici, la morte, la gioia, il dolore, le streghe e l'uomo nero. La scrittura della Campo è severa come un genitore, ma pregna di gioia e consapevolezza:
«Due mondi, e io vengo dall'altro», scrisse Cristina Campo, e in questa frase c'è tutta la sua imperdonabile vita, che si chiuse nella notte tra il 10 e l'11 gennaio 1977, tre mesi prima di compiere 54 anni. L'altro mondo a cui si riferisce è quello della fiaba, del mito, della poesia, e del sacro, che lei abitò per tutta la vita.


David Fiesoli
(n. 10, ottobre 2023, anno XIII)




NOTE

[1] T.S. Eliot, La figlia che piange, in Poesie 1905/1920, a cura di M. Bacigalupo, Roma, Newton Compton, 1995.
[2] Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 2002.
[3] Le lettere a Margherita Pieracci Harwell sono racchiuse nel volume Lettere a Mita (Milano, Adelphi, 1999), quelle a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino, nel volume Il mio pensiero non vi lascia (Milano, Adelphi, 2012); il carteggio con William Carlos Williams è racchiuso in Il fiore è il nostro segno. Carteggio e poesie. (Milano, Scheiwiller, 2001); alcune lettere, come quelle a Margherita Dalmati, sono raccolte in Lettere a un amico lontano (Milano, Scheiwiller, 1989). Le altre sono ancora inedite.
[4] Cristina De Stefano, Belinda e il mostro, cit., p. 19.
[5] Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di M. Farnetti, Milano, Adelphi, 2022, pp. 31 - 32.
[6] Daniela Marcheschi, Cristina Campo traduce Christine Koschel, cit., p. 7; cfr. anche Maura Del Serra, Christine Koschel: la purezza armata della parola, «Kamen'. Rivista di poesia e filosofia», vol. VII, n° 12, giugno 1998, pp. 63 – 69.
[7] Christine Koschel, L'urgenza della luce, trad. di C. Campo, a cura di A. Anelli, Firenze, Le Lettere, 2004.
[8] Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1999, pp. 113 – 119.
[9] Cristina Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 179.
[10] Cristina De Stefano, cit., p. 124.