Pier Paolo Pasolini: Ciò che è orrendo conoscere

Pasolini adorava la madre, Susanna Colussi. Hanno vissuto sempre insieme, fino al suo assassinio, nel 1975. Pare sia stata lei, la maestra elementare, a introdurlo alla poesia fin da piccolo, e lui, nelle poesie, la definisce Capinera Solitaria, Madre Maestra. Quella di Pasolini per la madre non era solo una suprema adorazione: per lui la madre rappresentava la sorgente, l’origine di ogni cosa, una divinità arcaica, lunare e virginale. In una delle sue opere cinematografiche più celebrate, Il Vangelo secondo Matteo, è infatti Susanna Colussi a interpretare la Vergine, la Madre di Cristo. Pasolini, in fondo, è come se fosse nato solo da sua madre: il padre, Carlo Alberto Pasolini, che era un militare fascista con il vizio del gioco, fu definito da Pier Paolo «passionale, sensuale e violento di carattere, represso fino al conformismo più definitivo», ma lo definisce anche povera creatura venuto al mondo per fare pena e dare pena, e poi morto per delusione. Accenti che tradiscono un affetto contrastato, e definiscono quella sorta di tragedia greca che per Pasolini fu la vita familiare.
Pasolini nacque cento anni fa, il 5 marzo 1922, a Bologna, nel quartiere di Santo Stefano. Morì assassinato nel Giorno dei Morti, il 2 novembre del 1975, vicino a quel mare di nessuno che bagna il Lido di Ostia. E fu sepolto nel paese da cui era venuto, nel cimitero di Casarsa della Delizia, in quel Friuli che amava ma da cui non era stato abbastanza amato.
Se si vogliono osservare i segni, come gli antichi aruspici osservavano il volo degli uccelli, la vita di Pasolini sta scritta anche qui, nei nomi e nei luoghi che la delimitano.
Il quartiere di Bologna in cui nacque è intitolato a Santo Stefano, che è un protomartire, cioè il primo cristiano ad aver dato la vita per testimoniare la fede in Cristo, come Pasolini ha dato la sua dopo aver testimoniato ferocemente la sua fede in un possibile riscatto dell'umanità: e come Santo Stefano fu lapidato, così Pasolini fu ammazzato di botte, che gli spezzarono lo sterno, dieci costole, e il fegato.
Casarsa della Delizia ha già nel nome tutta la contraddizione con cui Pasolini lottò, quella tra la durezza riarsa e la delizia immaginaria di una vita contadina, in quei campi antichi che il poeta celebrava non solo nei suoi versi ma anche come possibile salvezza per un ritorno a un'esistenza più a misura d'uomo e di necessità primarie, lontana da quel consumismo che aveva iniziato a divorare il mondo.
E infine il Lido di Ostia, una pianura marittima che fu anche il set del Pasolini regista, oggi piagato dalla corruzione e set soltanto turistico o per la demolizione di costruzioni abusive, a testimoniare quella sconfitta che Pasolini negli ultimissimi anni della sua vita sentiva sulla sua pelle, e che poi proprio lì lo uccise.

Pasolini fu considerato sfrontato, blasfemo e provocatore, ma Gianfranco Contini, quando lo incontrò per la prima volta nel 1946, disse: «Non credo di aver mai assistito a un tale spiegamento di timidezza». Ancora oggi, Pasolini è uno dei poeti e degli intellettuali di cui è più difficile parlare. Eppure, è uno di quelli di cui si parla di più. Come si risolve questa contraddizione? Soltanto penetrando nelle sue, di contraddizioni, e unendole attraverso la sua opera. Compito difficile perché, quando si tenta di farlo si viene attaccati anche da chi Pasolini lo ama. Ma, forse, il peggior modo di omaggiare Pier Paolo Pasolini è idolatrarlo, farne un santino, un'icona, e dunque un personaggio, chino a ogni interpretazione.
A seconda del modo in cui lo si uccide, Pasolini è fascista o comunista, ha fatto dei bei film ma ha scritto dei pessimi romanzi, è un versificatore modesto, o un elzevirista micidiale. A destra o a sinistra, lo hanno definito populista, reazionario, perverso, deviato, affetto da delirio di onnipotenza, perfino un uomo al servizio del capitalismo, come dissero i giovani del '68. C’è chi ritiene gli Scritti corsari il suo miglior libro e chi considera Petrolio, magma feroce e incompiuto, il massimo romanzo del secondo dopoguerra. E invece, l'implacabile Pasolini ha fatto e scritto di tutto per minare alla base ogni giudizio. E ha lavorato per fare emergere ogni contraddizione, del potere o della società, senza mai assolvere sé stesso. L’opera di Pasolini è costellata di trappole, ma per evitarle e guardare alla sua opera come si guarda un bosco fitto di alberi, è necessario capire che Pasolini fu prima di tutto un poeta, e del poeta aveva l'indole, l’urgenza, la dissennatezza, la ferocia, e il senso del sacro. Lo capì Laura Betti, l'attrice che fu la sua musa, quando disse: «Per vivere venti anni con Pier Paolo ho dovuto compiere determinate scelte. Pagare un prezzo molto alto per un compenso altissimo e cioè l’odore della poesia».
Un altro scrittore antiborghese e furente, il francese Léon Bloy, cattolico anticonformista, riferendosi a Lautréamont scrisse tra Ottocento e Novecento: «Il segno del grande poeta è l'incoscienza profetica, la disturbante facoltà di proferire, al di sopra degli uomini e dei tempi, parole inaudite di cui egli stesso ignora la portata. Questo è il misterioso marchio dello Spirito Santo su certe fronti sacre o profane».
E Pasolini quel marchio ce l'aveva. Ma se oggi, qui e ora, in questo mondo di adesso, si legge Pasolini solo nella prospettiva pasoliniana più fervente, ovvero quella del saggista fustigatore che vuol cambiare il mondo, il risultato sarà disperazione, rabbia e tristezza, perché le sue profezie più crude si sono avverate, perché le sue speranze sono crollate, e con le sue anche le nostre, e perché quel cambiamento che con la sua opera Pasolini auspicava non c'è stato, è fallito. Ma se si legge Pasolini come poeta, con occhi leopardiani, che vedono oltre il qui e ora, al di là dello spazio e del tempo, ci si accorge che la letteratura e la poesia raccontano un'altra storia, raccontano il moto circolare degli eventi, della vita: non cambiano le cose qui e ora o tra dieci o tra cent'anni, perché il loro Tempo ha la maiuscola, è eterno, e quell'eterno racconta, fin dall'antichità. Così, davanti al Pasolini poeta che ha raccontato il mondo, rabbia e disperazione svaniscono, perché il valore luminoso della testimonianza e la certezza dell'immortalità prevalgono sul dolore per le cose che svaniscono.
Come scrisse il critico letterario Gianni Scalia, «si è ripetuto troppe volte che Pasolini lascia un vuoto nella cultura e nella società italiana. Ma Pasolini viveva e scriveva in un vuoto: quel vuoto pieno di buchi che è la vita nella società del capitale, l'atroce e mostruosa religione della vita quotidiana». E contro quella lottava strenuamente.

Se il poeta Leopardi è la ginestra che resiste in mezzo alle ceneri e alla lava nera del vulcano, e accetta il suo destino spandendo un profumo dolcissimo, il poeta Pasolini è il vulcano che esplode. Un vulcano sempre attivo che non può rinunciare a sputare lava, perché, come ha scritto Daniela Marcheschi, per Pasolini la verità è tutto quello che resta fuori dall’ingranaggio dell’omologazione, tutto quello che non si piega all'appiattimento morale e culturale imposto da un mostro sociale come la società dei consumi, che lui avversava con tutto sé stesso, e la verità diventa quella della poesia,  scrive Pasolini: «la vita che assume su di sé, in sé, la gioia di goderne e il dolore della catastrofe». E allora, nonostante Pasolini sia il vulcano che erutta lava, sa anche lui che è la ginestra quella verità che resiste nelle avversità, e quella ginestra, come per Leopardi, si chiama poesia.
Ma quella del vulcano Pasolini è una lava che nella sua visione può essere distruttiva quanto rigenerante, o forse rigenerante proprio perché distruttiva. Pasolini, continua ancora la Marcheschi, grida la verità, grida la denuncia: denuncia a voce spiegata la rovina della Storia italiana e occidentale, per giungere ad affermare che «il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia» e fino a chiudere la poesia Alla mia nazione del 1961 con questo verso: «Sprofonda in questo tuo bel mare, e libera il mondo».
Forse, a differenza di Leopardi, Pasolini non ha la grazia di accettare destini, non tanto il suo ma quello dell'umanità: dove Leopardi giunge a quella chiarezza che nella consapevolezza delle illusioni alleggerisce l'animo, perché guarda più lontano, Pasolini resta prigioniero di un tempo presente, lineare proprio come una colata di lava, e il suo grido di denuncia non si affida soltanto al tempo eterno della poesia, ma vuole incidere sul presente, e cambiare il futuro, vuole che la sua arte, la sua letteratura e il suo cinema, abbiano un valore civile tale da incidere le menti e lo sguardo di chi presta attenzione a quei versi, a quelle parole, a quelle immagini. Eppure, due anni prima di morire, Pasolini affermerà: «Per me, gran parte del futuro è passato. Neppure uno dei desideri si è realizzato». Leopardi, invece, era arrivato a vedere passato presente e futuro insieme.
Che cosa significa questo? Che Leopardi aveva capito che un poeta è giocoforza al di sopra dei tempi, perché la poesia nasce e vive in un tempo senza tempo che è quello della letteratura e del mito, ovvero delle sole costruzioni umane che avvicinano al divino, e al sacro: Elena, nell'Iliade, dice che Zeus ha riservato a lei e a Paride una dura sorte affinché divengano canto per gli uomini. Ed Ecuba, nelle Troiane di Euripide, dice: «Ma se il dio non ci avesse precipitati in un dolore così profondo, non saremmo canto eterno in bocca agli uomini». Ovvero, poesia.

L'errore di abbandonare la letteratura, per uno che vede il sacro, è imperdonabile. E Pier Paolo Pasolini il sacro lo vedeva e se lo portava addosso come un marchio a fuoco. Eppure decise che il cinema era un linguaggio più internazionale, più consono a quel che voleva esprimere. Ma anche se abbandonò il romanzo, non smise mai di scrivere poesie.
La sua produzione letteraria continuò in forma di versi, e dopo l'uscita del romanzo Teorema, che prima era stato un film sequestrato per oscenità nel '68 della liberazione sessuale, ritornò al romanzo soltanto molti anni dopo, con quella che doveva essere la sua opera monumentale, il libro definitivo: Petrolio. E lì la letteratura si vendicò. Il romanzo, il suo più forte, profetico e terribile, quello che doveva avere duemila pagine e doveva far tremare il mondo, rimase incompiuto, non finito, perché Pasolini fu ammazzato e il suo corpo massacrato. Quel romanzo che doveva essere la summa di tutte le sue memorie, come disse lui stesso, Pasolini non lo vide, lui che aveva fatto dello sguardo la sua forma d'arte, così come deve essere non solo nel cinema, ma anche in letteratura. Le 522 pagine di Petrolio, la grande opera che doveva essere un inferno dantesco sull'involuzione dell'Italia contemporanea, furono pubblicate quasi vent'anni dopo la morte di Pasolini. Un libro che forse doveva essere lo svelamento del famoso «Io so ma non ho le prove», e che per alcuni fu il vero motivo del suo omicidio. E così, non è con quel libro incompiuto che la letteratura di Pasolini celebra il suo trionfo: è con la poesia, nei suoi versi o per immagini, perché lì si avvicina a quel che deve essere, ovvero letteratura assoluta.

Che cos'è la letteratura assoluta?  È quella che  Roberto Calasso, nella sua opera monumentale di undici volumi, definisce così: «la letteratura nella sua forma più acuminata, e intollerante di ogni bardatura sociale», e la attribuisce a Baudelaire, a Kafka, a Hölderlin o a Mallarmé, che diceva «La letteratura esiste, sola, ad eccezione di tutto»: è la letteratura che si sottrae a ogni autorità, che non è schiava di nessuna morale, che rifiuta qualunque dogma, che non si preoccupa della propria utilità nel mondo né di veicolare messaggi o buone cause, e nemmeno di avere uno scopo. Elémire Zolla, quando gli chiesero perché scrivesse, rispose che «lo scrittore vero scrive perché scrive, ha il fine in ciò che fa come lo fa, senza nessun rapporto con le finalità generali dell'esistenza, con le convenienze dell'economia, della politica, della moralità o dell'immoralità».  E Giorgio Manganelli scriveva: «Non c'è letteratura senza diserzione, disubbidienza, indifferenza, rifiuto dell'anima». E Pasolini era senza dubbio un disubbidiente e un disertore, ma non un indifferente: voleva dimostrare la libertà della letteratura. Ma la letteratura non ha bisogno di dimostrare la sua libertà perché è libera di per sé, perfino ai tempi in cui veniva commissionata dai signori, o controllata dai regimi: dalla Grecia, dal Medioevo o dal Rinascimento, e anche dalle dittature del Novecento, è arrivata a noi senza catene. Thomas Mann scrisse che i più importanti campi dello spirito umano, comprese arte, poesia e filosofia, «sussistono al di sopra e al di fuori dello Stato, e assai sovente gli si contrappongono».La letteratura assoluta si pone contro il dominio della società. E Pasolini si contrapponeva allo Stato, ma non a quella società che avversava: voleva che il sociale, le classi subalterne soprattutto, prendessero consapevolezza.
Invece la letteratura guarda più in alto della coscienza individuale e del mondo sociale, anche quando agisce su coscienze e società: la letteratura non ha bisogno di vincere o convincere, perché mette l'uomo in contatto con il sacro, perché perpetua quel contatto con l'invisibile, ovvero con le potenze universali ed estranee all'ordine umano e sociale, un contatto perduto quando i moderni hanno sostituito al divino la società, quella società avversata da Pasolini, quella che considera sacra solo se stessa, considera sacro soltanto il corpo sociale come un insieme che tutto spiega e comprende e che dunque può utilizzare il mondo a proprio piacimento, per i propri bisogni, dimenticando così i limiti imposti dal sacro, da quelle potenze invisibili che continuano ad agire comunque. Leopardi le chiamava Natura, Luna, Infinito o Ginestra. Dino Campana, Notte. Alessandro Manzoni, Provvidenza. Gli antichi Greci le chiamavano Zeus, Ananke, Nemesi, Artemide, Afrodite, Dioniso. Ma si chiamano anche Tempo, Necessità, Destino, Amore, Morte, Giustizia Universale, Caos. E Simone Weil le chiamava Dio.

La letteratura assoluta è la testimonianza di quei poeti, scrittori, scrittrici che sono attraversati dall'esperienza sconvolgente del sacro, che vedono e hanno a che fare con quelle potenze che continuano ad agire anche se le ignoriamo. Noi l'abbiamo già incontrata, quella letteratura assoluta. È quella di Emily Brontë, Emily Dickinson, Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Giacomo Leopardi. E la incontriamo anche in Pasolini. Ma con una differenza.
Armate e lucenti come vergini guerriere sono apparse Emily Brontë ed Emily Dickinson, nell'Ottocento fioco di lumi, e poi Virginia Woolf e Katherine Mansfield, nel Novecento delle promesse spezzate: vissero e scrissero sempre in presenza della realtà, ma con lo sguardo distaccato della letteratura. La loro castità mentale, la loro altissima solitudine – come quella di Leopardi o di Hölderlin – infonde una granitica serenità. Anche loro – come Leopardi e Hölderlin – furono offese, considerate malate, pazze, depresse, o colpevolmente ignorate dal loro tempo, ma di fronte a loro non ci fu violenta persecuzione, dichiarata repulsione, ci fu casomai distacco e timore, diffidenza, incomprensione e pettegolezzo, e perfino una certa inquietudine, come davanti a un enigma.
Ma a Pasolini è stato riservato un trattamento peggiore: la persecuzione, la violenza, l'assassinio, la morte. Perché? Pasolini non voleva essere un enigma, non voleva né castità mentale né solitudine; era tentato di trasporre la perfezione della letteratura fuori di sé, quasi come se potesse trasformarsi in perfezione del mondo, attraverso la denuncia della sua irrimediabile imperfezione, atteggiamento che peraltro lo consacrò alla fama. Ma anche a un destino più atroce, sottoposto ai fraintendimenti più osceni.

Disse Pasolini in un'intervista Rai con Carlo di Carlo del 1968: «Ho abbandonato il romanzo, non la poesia, per dedicarmi quasi esclusivamente al cinema. Ho sostituito cioè il racconto romanzesco col racconto cinematografico. In principio ho creduto si trattasse della scelta di una nuova tecnica, ma poi mi sono accorto che si trattava della scelta di una vera e propria lingua, forse realizzando con questo il mio avventuroso e un po' scapestrato desiderio di abbandonare la nazionalità italiana. Scrivendo con la lingua del cinema, mi esprimo con un'altra lingua che non è più italiano, ma una lingua internazionale».
In questa affermazione c'è tutto il dolore, e anche l'errore fatale, di Pasolini.
Per prima cosa, le differenze tra cinema e letteratura sono proprio tecniche, perché i linguaggi di cinema e letteratura, come della musica e del teatro, sono uno e uno soltanto: quello delle Muse, che attraversano il poeta – cantore, scrittore, teatrante, aedo, profeta – in modo che possa cantare in un tempo che diventa eterno, il destino mortale degli uomini. In fondo, è ancora questo che fanno – o dovrebbero fare – la letteratura e le arti in genere: affinare le percezioni al di là dello spazio e del tempo, laddove si incontrano le voci e gli accenti di tutti gli uomini, com'è scritto nel canto poetico delle fanciulle di Delo nell'Inno omerico ad Apollo.
In secondo luogo, l'abbandono della nazionalità italiana attraverso la lingua internazionale del cinema è la maschera dell'enorme, gigantesco bisogno di riconoscimento, di compagnia, e di amore, che spezzava l'afflato sacro di Pasolini, quel riconoscere il sacro che si vedeva intorno e che però voleva disperatamente e forzatamente incarnare: non in sé stesso, perché era un uomo umile, ma nei ragazzi di borgata, nei proletari, nei romanzi, nel cinema, nelle donne, in Mamma Roma, nell'accattone, per trasmetterlo al mondo. Invece, il mondo gli si è rivoltato contro: l'apparir del vero, la visione, la possessione e la profezia sono un segreto che si può svelare solo con la letteratura, in qualunque forma la si veicoli, ma senza la pretesa di uscire fuori dalla letteratura, senza la pretesa che serva al mondo, perché spesso dietro la pretesa di servire al mondo c'è la vanità della speranza che il mondo ti risponda.  Invece il mondo non vuole salvatori, non vuole qualcuno che gli dica: eccomi, ascoltami, io posso dirti la verità, posso salvarti. Altrimenti non ci sarebbe un Cristo in croce. Dunque, il poeta lo sa, e agisce proprio sul piano della croce.

Prendiamo i fiori in un prato: portano bellezza e anche verità nel mondo, ma senza pretendere che tutti vengano a vedere e ad ammirare quel bello e quel vero. Non servono all'utile, e questo Pasolini lo sapeva bene, quando scrive: «Anch’io, come un fiore, niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo!». La lietezza che arriva dopo lo scoraggiamento è leopardiana, è la ginestra che sopravvive alle avversità.
Quindi Pasolini lo sapeva, era molto consapevole di questo. Ma voleva anche essere un intellettuale organico, il poeta delle classi subalterne, quando invece – nella sua veste di poeta/profeta – apparteneva al sacro, alla letteratura assoluta, quella che non ha nulla a che fare con nessun gruppo sociale, quella che sa entrare nel cuore dell'enigma e nell'enigma di un prato che è al tempo stesso qui e nel cosmo.
Pasolini, quando vagheggiava un uomo primitivo innocente nei suoi viaggi in Medio Oriente e in Africa, sognando un passato premoderno e preindustriale, un passato di purezza che non ritorna, rischiava alla fine di fornire ragioni a chi di quel passato voleva disfarsi, e lo accusava di essere un reazionario, un nostalgico, che rimpiangeva un'Italia ignorante, povera, arretrata. E invece Pasolini, in una lettera a Calvino dei primi anni Settanta, poi raccolta negli Scritti Corsari, scrisse: «tu dici che rimpiango l'Italietta, ma allora non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto un'inquadratura dei miei film. L'Italietta è fascista, piccolo borghese, democristiana, è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, tormentato, linciato per quasi due decenni: vuoi che io rimpianga tutto questo?». Ma poi ammette: «devo sfondare le pareti dell'Italietta e sospingermi in un altro mondo: il mondo contadino, sottoproletario e operaio, il mondo della classe dominata, che non coincideva affatto con l'Italia. È questo mondo contadino pre-nazionale e pre-industriale che io rimpiango». La sua nostalgia era per quella che chiamava l'età del pane, dove i consumi corrispondevano ai bisogni, non al di più, non al superfluo. Perché è il superfluo la vera povertà.
Pasolini – come Leopardi – sa che la nostalgia è soltanto una lusinga che abbellisce il passato, e infatti definisce stupido il lamento di chi, come lui, non sa accettare la giusta fine di un mondo.

Dopo una lotta strenua per fare della letteratura una leva di cambiamento sociale, Pasolini si rende conto di aver sempre saputo che non è quello il compito della letteratura, e scrive la sua ultima raccolta poetica, e il suo ultimo romanzo. Presentando la sua ultima raccolta di poesie, Trasumanar e organizzar, scrive che la libertà è intollerabile all'uomo, e che bisogna resistere contro ogni tentazione di letteratura-azione o di letteratura-intervento, attraverso l'affermazione caparbia, e quasi solenne, dell'inutilità della poesia. Trasumanar e organizzar è l'ultimo atto in versi di Pasolini, ed è quando Pasolini si arrende a quel che aveva sempre saputo, e cioè che quella del poeta senza confini è una solitudine cosmica, e accettarla significa entrare in diretto contatto con quel cosmo sconfinato, che è il dio. Trasumanar è un neologismo dantesco, una parola inventata da Dante nel Paradiso, e significa trapassare la natura umana, trasformandola per avvicinarsi a una natura più alta, alla natura divina. Ma forse l'altro verbo, organizzar, che appare in deciso contrasto, fa capire che la constatazione dell'inutilità della poesia, della solitudine del poeta, dell'impossibilità di un profeta di appartenere al suo tempo, non fu per Pasolini quasi un sollievo, come per Emily Dickinson o per Emily Brontë, e nemmeno una fortezza, come per Leopardi: fu l'orlo della disperazione, che è l'altra faccia della possessione.
«Caro Dio, liberaci dal pensiero del domani» – scrive Pasolini nella poesia intitolata Preghiera su commissione – «Caro Dio, facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi». E i gigli dei campi del Vangelo sono anche la ginestra del Leopardi. Ma Pasolini non riesce a ergersi solitario sulle pendici del vulcano, a vivere come i gigli dei campi, è contaminato dall'attualità, dalla denuncia, dalla ferocia. Non bastano i richiami a Omero, ai tragici greci, ai classici: Pasolini intitola una sua poesia Patmos, come quella di Hölderlin, che poi è l'isola greca in cui secondo la tradizione cristiana Giovanni scrisse l'Apocalisse: ma se il Patmos di Hölderlin si interroga su quanto sia vicino ma difficile da trovare il dio, il Patmos di Pasolini è una poesia sulla strage di piazza Fontana.
Nell'estate del 1971, l'anno in cui pubblica Trasumanar e organizzar, disse a Enzo Biagi che lo intervistava: «La parola speranza è completamente cancellata dal mio vocabolario, Io sono un contestatore globale. La mia disperata sfiducia in tutte le società storiche mi porta a una forma di anarchia apocalittica».

Nel 1975, l'anno della sua morte, Pasolini aveva scritto: la sua celebre abiura «Ora tutto si è rovesciato, la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta quanto falsa tolleranza». E Pasolini sapeva che tolleranza significa in sostanza concedere qualcosa che comunque non si approva, non si considera degno di dignità. Significa, come diceva Thomas Mann, «accogliere il diverso ma annientare la diversità». Alla tolleranza come il più ingannevole esercizio del potere, Pasolini reagì ancora una volta, un'ultima volta, con le sue opere più implacabili: l'ultimo romanzo, l'incompiuto Petrolio, veemente atto d'accusa contro la società neocapitalista e gli aspetti più oscuri del '900 italiano, e l'ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma. In cui, come scrisse Natalia Ginzburg, l'idea della morte è ritagliata fuori da ogni idea della vita, e ogni idea della vita è per sempre assente. L'esatto contrario della ginestra profumata che chiuse la vita di Leopardi.
Cassandra, la profetessa mai creduta, va incontro alla morte con una quiete inscalfibile perché «solenne fu il giuramento degli dei», e capisce così che il suo destino personale si collega all'accadere universale. Anche il poeta Pasolini è un profeta mai creduto: pensiamo a quando, nella poesia Alì dagli occhi azzurri, già nel 1964 scriveva: «Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camice americane». E alla fine, probabilmente, anche Pasolini come Cassandra va incontro alla sua morte, anche lui la sentiva arrivare.
Padre David Maria Turoldo, celebrando il funerale, si rivolse alla madre di Pasolini, Susanna, stigmatizzando i tradimenti che suo figlio aveva subito proprio dai benpensanti uomini di religione, e affermò che Pasolini «portava sull'intero corpo i segni di un orrendo e assurdo ecce homo contrapposto a Cristo». Ma Pasolini non era contrapposto a Cristo: gli somigliava. Per Pasolini Cristo era l'archetipo più alto di ogni possibile rapporto con il mondo. Ed è proprio quel rapporto con il mondo che lo ha tradito. Quel bisogno di essere ascoltato, quella necessità di far capire le illusioni di un mondo che precipitava verso l'abisso, erano a loro volta un'illusione che Pasolini faticò ad accettare.

Il corpo, la fisicità: Ernesto Ferrero ha scritto che Pasolini cercava il divino nella fisicità, nel corpo offeso degli uomini. Forse per questo scriveva e parlava, parlava dappertutto, quasi cercasse di rendere la parola fisica, palpabile, erotica, penetrante.  Ma il corpo e la conversazione – nei salotti come in tv e oggi nella rete – sono uniti da un legame rovesciato, fatale e ambiguo: quando la conversazione perde ogni leggerezza e si fa densa, accusatrice e violenta, cancella il corpo. Di fronte a una conversazione che fa l'aria pesante, il corpo sparisce, non lo si guarda più. In una conversazione che si stende leggera, invece, il corpo parla, e seduce. Stendhal affermò che l'arte leggera della conversazione fu dissipata per sempre dai mariti con l'avvento di Napoleone, che fece diventare di moda la pruderie, il bigottismo che ammazzò l'arte della conversazione. Ma con il 1968, nella seconda metà del Novecento, dopo imperi e dittature soggioganti, tutto questo sembrava superato, c'era aria di liberazione sessuale, di ribellione, di progresso, di cambiamento e di libertà. Negli anni Sessanta e Settanta, intorno a Pasolini c'erano spesso donne da sole, senza marito o senza il marito, come Laura Betti, Dacia Maraini, Oriana Fallaci, Elsa Morante e Maria Callas, e come sua madre Susanna: donne a cui fu legato per tutta la vita da un rapporto lastricato di dolcezza come l'inferno dalle buone intenzioni. E intorno a Pasolini c'erano anche molti mariti senza donne, come Franco e Sergio Citti, e Ninetto Davoli, di cui si innamorò.
Ma la leggerezza si era perduta. Per Pasolini, l'arte della conversazione era uno spillone da puntare verso il mondo dopo esserselo cavato dalla testa come faceva Fedra quando se lo toglieva dai capelli per bucare le foglie di mirto guardando Ippolito tutto nudo che si allenava sotto la sua finestra, e sappiamo che il mirto era la pianta sacra ad Afrodite, la dea dell'amore. Quell'arte della conversazione diventata pugnale e spillone trafisse Pasolini proprio perché aveva preso il posto di quella lieve commedia della società che prima della ghigliottina e di Napoleone manifestava in maniera più leggera, come una piuma, l'opposizione all'autorità stabilita. Del resto, Pasolini non parlava nei salotti sontuosi di qualche Madame, ma parlava dentro il salotto spoglio e penetrante della televisione, o in quello cartaceo dei giornali, che prende fuoco facile. Della televisione Pasolini conosceva la doppia lama, il doppio taglio: eppure la usò, nonostante ogni volta gli allargasse la ferita. Credeva fosse l'unico modo e l'unico mezzo per poter conversare violentemente in faccia proprio a quei mariti diventati borghesi e che secoli prima avevano bruciato la piuma leggera dell'arte del conversare, aprendo la strada alla violenza del bigottismo a cui adesso Pasolini contrapponeva la violenza della trasgressione. Tanto vale approfittare del Novecento per scaricare la verità nel tubo catodico – pensava forse Pasolini – sapendo bene che quel tubo diventerà l'arma di una morte violenta. E invece, quella conversazione si rivela un esercizio inutile: un esorcismo che non funziona, e finisce con la morte dell'esorcista. 
Su questo bisognerebbe riflettere quando si accusa Pasolini di essere apparso fin troppo dentro quello strumento demoniaco che lui avversava con tutto sé stesso. Ci ha provato, senza sapere che nel secolo dopo quel tubo catodico avrebbe preso le sembianze liquefatte di una rete che, mentre dà l'illusione della libertà, mette il cappio al collo. Pasolini non avrebbe nemmeno potuto immaginarla, sarebbe stato il peggiore dei suoi incubi: un possibile spazio di libertà in cui gli uomini potevano stabilire relazioni orizzontali senza padroni, che invece diventa un potere economico politico e sociale oligarchico e verticale, concentrato nelle mani di pochissimi, così restringendo le nostre prospettive democratiche, il confronto reale, la comprensione, l'informazione.
Ma di fronte a tutto questo, a sconfiggere la pesantezza della tv e la dittatura della rete, resta sempre un'altra via: quella della poesia, la letteratura assoluta. Quella che da Omero a Saffo, da Leopardi a Hölderlin, da Dino Campana a Sandro Penna, da Pasternak alla Achmatova, va incontro al dio senza la pretesa non solo di salvarsi, ma neanche di salvare. E così facendo, salva, perché non può essere più fraintesa. Al limite, può essere ignorata.

 Ai mariti senza donne, Pasolini preferiva i ragazzi. Poveri, proletari. Era un Ippolito al contrario. Se nella tragedia di Euripide Ippolito era devoto soltanto alla vergine e intoccabile Artemide e disprezzava l'eros, la carne, il sesso, le donne e tutti i doni di Afrodite, Pasolini al contrario credeva nel sesso, nella sua funzione catartica ed egualitaria, livellatrice delle differenze, Pasolini al contrario di Ippolito adorava le donne, anche se era eccitato dagli uomini, e intitola una sua poesia del 1961 Sesso, consolazione della miseria. Ma ha ignorato l'intoccabile e il distacco, la castità mentale, i regni di Artemide, vergine lunare. E come Ippolito, finirà in tragedia. La speranza di Pasolini nella nascita di un nuovo mondo dove il sesso ha l'odore della leggerezza, della spietatezza e di una rivoluzione proletaria, sarà disattesa. Pasolini – senza il distacco necessario – non profetizza più, non vede più lontano, lo inganna la fata morgana del suo bisogno di credere. In Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano scrive che sia il raffinato che il sottoproletariato sono fuori dalla storia, «in un mondo che non ha altri varchi che verso il sesso e il cuore, altra profondità che nei sensi». Non andrà così, e Pasolini se ne renderà conto proprio nell'ultimo suo anno di vita: saranno proprio il sesso, il cuore e i sensi a essere neutralizzati, dissacrati, oggi imprigionati in una rete falsamente libera e anestetizzati in pillole, quindi privati di quella forza liberatrice e liberatoria che giustamente Pasolini vedeva possibile. E invece, quel moralismo d'accatto che Pasolini condannava resisterà e prolificherà, sia nel raffinato che nel sottoproletario, ma abbigliato di un luccicante vestito di finto progresso e finta libertà, tanto che alla fine il sottoproletario invece che restare fuori dalla storia, verrà cancellato dalla storia, nell'avvicinarsi di tutte le classi a un ceto medio-basso che è diventato un magma informe: oggi nessuno lo nomina nemmeno, il sottoproletario, è diventato invisibile.

A Casarsa, Pasolini scrive la prima poesia all’età di sette anni, dedicandola alla madre. Il suo sguardo sulla vita e sulla società contemporanea sarà sempre da poeta. L’analisi da lui effettuata sul presente storico è un’analisi fatta da un poeta, da colui che, grazie alla scelta della parola, apre finestre sul mondo.
Sarà la successiva scoperta di Marx a immergere Pasolini nella storia, nelle dinamiche storiche e sociali che avvolgono l'individuo.  Siamo alla produzione de Le Ceneri di Gramsci (1957), da molti considerate le sue poesie capolavoro per la capacità di innestare l’ideologia marxista sulle sue predisposizioni giovanili, soprattutto su quel Cristianesimo che Pasolini intende come mito primigenio. Segue L’usignolo della Chiesa Cattolica (1958) in cui si fa più evidente il contrasto tra il desiderio di una vita arcaica e la volontà di non negarsi del tutto alla storia, ai mutamenti della società.  Ma negli anni Sessanta, con La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964) Pasolini sente che allo spietato avanzare della civiltà del capitale non è più possibile contrapporre quelli che lui riteneva i miti «positivi» di un tempo, e l’elegia lascia il posto all’invettiva, fino a Trasumanar e organizzar (1971), la raccolta in versi che apre gli anni Settanta, in cui Pasolini sente la poesia come fallimento totale, non avendo più nessuna funzione salvifica.

Pasolini scandalizzò la sinistra ancorata agli schemi del neorealismo con il suo libro Ragazzi di vita, il clero conservatore con il film Il Vangelo secondo Matteo, gli italiani innamorati della società dei consumi paragonando il consumismo a una forma di totalitarismo. Scandalizzò il potere politico smascherando i suoi giochi di Palazzo, e scandalizzò i giovani del ‘68 che scendevano in piazza a manifestare, quando si schierò dalla parte dei poliziotti figli del popolo e contro i sessantottini figli di borghesi. Scandalizzò le donne e i progressisti quando scrisse sul «Corriere della Sera» un lungo articolo intitolato Io sono contro l'aborto. Ma come ha scritto Gianni Scalia, «Pasolini non era scandaloso, Pasolini si scandalizzava. E lo scandalizzato è un tollerante che non tollera, non sopporta e non si sopporta, si nega convivendo, si estrania abitando insieme».
A Pasolini dobbiamo un infinito coraggio, la sete di giustizia, la crudeltà sferzante che ci ha ricordato che l'avanzare può essere un declino.  «Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi»: questo disse Pasolini nella sua ultima intervista, che rilasciò a Furio Colombo il 1° novembre 1975. Il giorno dopo, era domenica, il corpo di Pasolini era già su un tavolo dell'obitorio della polizia di Roma.  L’uomo che subì 33 processi, costretto a presentarsi nelle aule di tribunale infinite volte dal 1950 al 1975, l’uomo solo contro tutti alla fine è diventato un divo, quasi un’icona. Ma certi politici, intellettuali o giornalisti, sembra non si rendano neanche conto di citare l'uomo che avrebbe considerato ignobile il mondo in cui sguazzano e il modo in cui ci sguazzano.

Oggi, una retorica insopportabile accompagna spesso il nome di Pasolini, e quelli che lo celebrarono e lo compresero davvero, anche avversandolo, sono quasi tutti morti. Franco Battiato nelle sue canzoni scrive versi che Pasolini avrebbe sottoscritto totalmente, come nel brano Patriots: «Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso». Paolo Poli diceva di Pasolini: «aveva un senso di colpa che io non ho mai conosciuto», e Guido Ceronetti che non lo sopportava, disse: «Si sentiva in lui l’uomo indifeso, non l’uomo puro. Indifeso, lo era realmente. Sentiva la presenza del male, era più lucido via via che la sua brutta sera si avvicinava, e ai suoi ultimi scritti non manca il sortilegio triste di una fortissima premonizione». Lo avevano capito, avevano ascoltato quella voce contro, perché erano contro anche loro: ma Paolo Poli aveva conservato quell'arte di conversare leggera come una piuma e appuntita come una lancia, Ceronetti aveva un cinico e distaccato disprezzo per l'umanità e ne fece la sua arma intellettuale, e Battiato esercitava l'arte suprema del distacco anche quando usava i mezzi di diffusione di massa. Erano consapevoli tutti e tre che il mondo non vuole salvatori, ma lo si può raccontare, con la letteratura, il teatro o la musica, con ironia o con cinismo, con dolcezza o crudeltà, ma sempre con il distacco necessario per accettare e sfidare, palpitando di vita sulla cima di un arido vulcano, quel che Pasolini chiamava «ciò ch'è orrendo conoscere».


David Fiesoli
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XII)




NOTE

[1]
Corrado Stajano, Pasolini all'inferno, «Tempo», A. XXVII, Milano, 3 febbraio 1965, pp. 28-30.
[2] Gianfranco Contini, Testimonianza per Pier Paolo Pasolini, in Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Torino, Einaudi, 1989, p. 391.
[3] Laura Betti, «Lettera a Tullio De Mauro», Cine/teca, 11 maggio 1977, p. 64.
[4] Roberto Calasso, L'ardore, Milano, Adelphi, 2021, p. 315.
[5] Gianni Scalia, La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, a cura di P. Alfieri, R. Corsi, S. Massa, Pesaro, Portatori d'acqua, 2020, p. 33.
[6] Daniela Marcheschi, Sciascia e Pasolini: intellettuali, aporie, verità, in Pasolini e Sciascia. Ultimi eretici, a cura di F. La Porta, Venezia, Marsilio, 2021, p. 29
[7] Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti, S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 364.
[8] Pier Paolo Pasolini, Alla mia nazione, in Poesia in forma di rosa (1961-1964), Milano, Garzanti, 1964
[9] Cfr. Enzo Biagi, Dicono di Lei, Pasolini, intervista, «La Stampa», 4 gennaio 1973.
[10] Roberto Calasso, La letteratura e gli dèi, Milano, Adelphi, 2001, p. 28.
[11] Elémire Zolla, Minuetto all'inferno, Torino, Aragno, 2004, p. 12.
[12] Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 1985, p. 218.
[13] Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico, Milano, Adelphi, 2004, p. 166.
[14] Si veda l'intervista su cittapasolini.com del 21 settembre 2020.
[15] Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis, Mondadori, Milano, 2014, p. VII
[16] La lettera di Pasolini a Calvino, con il titolo Quello che rimpiango, uscì sul «Corriere della Sera» del'8 luglio 1974, poi in Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 2008, pp.51-55.
[17] Pier Paolo Pasolini, Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 1971.
[18] Enzo Biagi, L'innocenza di Pasolini, «La Stampa», 27 luglio 1971.
[19] Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 2003, p. 72.
[20] Natalia Ginzburg, Il Salò di Pasolini, «Il Mondo», 4 dicembre 1975.
[21] L'orazione funebre di padre Turoldo venne poi inserita nel volume Pasolini in Friuli, con il titolo Chiediamo scusa di esistere, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1976.
[22] Su «La Stampa» del 14 settembre 2018
[23] Pier Paolo Pasolini, Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano in La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961.
[24] Gianni Scalia, La mania della verità, cit., p. 18.
[25] Nel pomeriggio del 1° novembre 1975 Pasolini rilasciò a Furio Colombo un’intervista di cui pensò anche il titolo: Siamo tutti in pericolo. Avrebbe dovuto rivederla il giorno dopo, ma il destino volle diversamente. L’intervista, uscita poi l’8 novembre 1975 su «La Stampa-Tuttolibri», fu riproposta con una premessa di Furio Colombo su «l’Unità» del 9 maggio 2005. Ora in Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 1723-1730.
[26] Franco Battiato, Up patriots to arms, Battiato-Pio, 1980.
[27] Paolo Poli, Alfabeto Poli, a cura di L. Scarlini, Torino, Einaudi, 2013, p. 105.
[28] Guido Ceronetti, Quale dei suoi articoli lo ha ucciso?, in «L'Espresso» del 19 novembre 1978.
[29] Pier Paolo Pasolini, Supplica a mia madre, in Poesia in forma di rosa, cit.