Ineffabile celeste: Giacomo Leopardi

Mai si potrà esaurire l'immensità del pensiero di Giacomo Leopardi. È quel mare non visitato da rive di cui scriveva nei suoi versi Emily Dickinson:

«Come se il mare separandosi / svelasse un altro mare, / questo un altro, ed i tre / solo il presagio fossero / d'un infinito di mari / non visitati da riva» [1].

La vita e la poesia di Leopardi si stendono nella distanza che congiunge due immagini sacre: la Luna e la Ginestra, la struggente e virginale bellezza di un pianeta che è anche una dea, e la resistenza caparbia, nelle condizioni più avverse, di una pianta che è anche chiamata la frusta di Cristo, per la forma dei suoi lunghi rami.
Leopardi compose Alla Luna a Recanati, nel 1819, quando aveva solo vent'anni, e scrisse La Ginestra nel 1836, a Torre del Greco, un anno prima di morire, tanto che la poesia fu pubblicata postuma nell'edizione dei Canti nel 1845. Quindi sta qui, tra la Luna e la Ginestra, tra il raggio splendente e la resistenza ribelle, tutta la sua vita di poeta: in mezzo, ci sono un paese soffocante, un padre maniacale e una madre terribile, il fratello Carlo e la sorella Paolina, una biblioteca e una malattia, gli amici di Toscana, e poi ci sono Pietro Giordani, Antonio Ranieri e Fanny Targioni Tozzetti, i suoi grandi amori e i suoi pochi amici.
Leopardi nacque a Recanati nel 1798: fuggì molte volte da quel paese che lo tradiva e lo sminuiva, chiamandolo «eremita» e «saccentuzzo», per approdare prima a Roma e Milano, che non gli piacquero affatto, poi a Bologna, che gli regalò tenere amicizie, ma soprattutto a Firenze e Pisa, le città che amò di più, insieme a Napoli, che lo accoglierà nei suoi ultimi anni, e dove morì nel 1837.

Probabilmente, Giacomo volle fuggire da un clima soffocante non solo dentro casa: le Marche erano Stato della Chiesa, furono dominate dal papato fino a metà Ottocento. Da ragazzo, Leopardi vide sia l'avanzare delle truppe napoleoniche e l'annessione al regno d'Italia sia la restaurazione dello Stato Pontificio in tutto il suo potere, e quando nel 1831 le Marche furono scosse dai moti popolari che cacciarono i delegati apostolici, Leopardi se n'era già andato, per non tornare.


Ma la poesia di Leopardi, a differenza di quella di Manzoni, non è legata alla Storia e tantomeno all'attualità. Se Alessandro Manzoni si allontanò sempre più dalla poesia perché non poteva subordinarla alla Storia, tanto che arrivò a definirsi «sliricato», Leopardi dimostra invece che proprio la poesia è perfetta adesione alla realtà, e non si tratta di una realtà storica, terrena, ma di una realtà eterna, che fonde insieme passato presente e futuro, e canta con gli accenti di tutti gli uomini, come le voci delle fanciulle di Delo nell'Inno omerico ad Apollo.
Simone Weil scrisse nei suoi Quaderni che le poesie perfette sono quelle che abbiano un inizio e una fine ma una durata che si estende nell'eternità, poesie che diano l'impressione di qualcosa di chiuso e limitato e allo stesso tempo di qualcosa che può ampliarsi all'infinito, come una scultura greca [2]. Così è la poesia di Leopardi. Che è un poeta sublime nel senso descritto da Marina Cvetaeva, quando fa un paragone con gli alberi: «la quercia è grande, ma il cipresso, nel suo slancio verso l'alto, è sublime». [3]
Da Leopardi, dalla sua poesia e dalla sua filosofia, ogni secolo futuro avrà qualcosa da imparare.
E, nel suo secolo, è solo Leopardi che si connette, pur nelle diversità, ad altri grandissimi poeti di caratura mondiale che pur influenzati dalla storia che scorreva su di loro sono stati capaci di osservare oltre i disordini e i mutamenti [4]: Hölderlin, Emily Dickinson, Emily Brontë, Baudelaire. La loro attenzione, quel giungere all'uguale distanza sia dalla speranza di cambiare il mondo che dalla disperazione per non poterlo cambiare, si accende nel distacco dal presente, per diventare, come dice Ecuba nelle Troiane di Euripide «canto eterno in bocca agli uomini». Quel distacco è ciò che li connette, e li rende «contemporanei del futuro» [5].

Chi vuol capire davvero Leopardi deve prima di tutto staccarsi da quel tradimento scolastico che lo dipinge come un povero gobbo triste per amore, e ascoltare invece le parole di chi aveva davvero capito quale spaventosa grandezza suggerisse. Come il Gioberti, rapito dalla statura filosofica del poeta tanto da riconoscerlo «ingegno straordinario e universale» [6], o il Collodi, incantato dalla forza delle Operette Morali e dall'idea leopardiana di umorismo come antidoto alle false verità [7], o ancora il Carducci che di Leopardi osservò «gli spiriti e le forme» [8] e poi Matilde Manzoni, che, fece di Leopardi il grande interlocutore del suo Journal, dove confessò di dover leggere i versi di Leopardi con parsimonia, perché ogni volta le pareva che una mano di ferro le stringesse il cuore e le mozzasse il respiro [9].
Una spaventosa grandezza, quella di Leopardi, debito di tutti i poeti successivi, nei diversi destini a loro assegnati anche dai tradimenti che li hanno segnati: da Dino Campana a Sandro Penna, da Giorgio Caproni a Remo Pagnanelli. E fu proprio Giorgio Caproni, in una intervista del 1984, che disse: «Io non sono pessimista, come non lo era Leopardi, il poeta che amo tanto. Per me Leopardi, anche quando si dispera e accusa, è un ‘datore di vita’. È stato lui che mi ha impedito di diventare un nichilista» [10].
Leopardi ha molto pagato il suo porsi contro – il suo tempo, la cultura ufficiale, il padre conservatore, la madre bigotta, lo zio arrogante – con quel ritratto che lo sminuiva, rappresentandolo debole, malato, nichilista e pessimista, quando invece era forte, ribelle, vitale e coraggioso.
«Si pensi alla ginestra che contempla Pompei distrutta e che resiste ancora un po', colorando la terra riarsa e brulla del Vesuvio. La ginestra è per Leopardi la poesia, ma la poesia unita alla filosofia, perché non ci può essere una poesia separata dalla conoscenza, dal divenire delle cose», afferma il filosofo Emanuele Severino [11]. Il poeta di Recanati rivendica la potenza della poesia come l'unica capace di abbracciare l'universo oltre lo spazio e oltre il tempo, e di spalancare lo sguardo sulle illusioni, ma senza presunzione di verità, illusione suprema.

Oltre che allo Zibaldone e alle Operette Morali, che sono grandi opere filosofiche riconosciute tardi come tali dall'accademia, Leopardi affidò il suo pensiero anche ai versi, e i Canti sono un esempio insuperato di «poesia pensante», di poesia filosofica. Ma perché il valore filosofico di Leopardi venisse pienamente riconosciuto in Italia si è dovuto aspettare molto tempo: a capirlo subito furono Nietzsche e Schopenhauer, mentre Croce e De Sanctis ne limitarono fortemente la portata.
Nel cuore del tragico, l'ala della leggerezza. L'ombra di un sorriso sulla bocca della disperazione. Così uno dei maggiori studiosi di Leopardi, Antonio Prete, descrive la sua poetica [12].
Un pensiero, quello di Leopardi, che nella consapevolezza della finitudine, nella fine di tutto, trova quel tutto, e nella consapevolezza della morte trova la passione per la vita, per tutto ciò che è vivente. Per questo un altro poeta, Franco Fortini, attribuisce a Leopardi «un'arcana felicità».
E che cos'è, in fondo, questa arcana felicità? È la poesia. Che accende su questo nulla un raggio immortale, un raggio che non si spenge. Come il raggio della Luna.

Nel primo canto che Leopardi le dedica,  Alla Luna, l'astro d'argento è ancora grazioso e diletto, è Selene dal mantello di stelle, una divinità vicina, partecipe, a cui confidare il proprio dolore, mentre le lacrime rendono tremulo il volto della Luna, e riaffiorano i ricordi che proprio in quanto tali sembrano più belli e meno dolorosi di quel che furono, e qui Leopardi smaschera filosoficamente un'altra illusione che ci accompagna sempre tutti: quella della nostalgia, che spesso è una grande menzogna che maschera i ricordi e li adorna di falsi gioielli, e così il ricordare è una consolazione illusoria.

Ma già poco dopo la luna cambia volto, non è più la graziosa Selene, ma è già una dea infera. «Placida notte, e verecondo raggio della cadente luna»: così comincia L'ultimo canto di Saffo, composta dal giovane Leopardi nel 1822, tre anni dopo Alla Luna.
L'ultimo canto di Saffo sono le parole che Leopardi immagina abbia pronunciato la poetessa greca prima di gettarsi da una rupe per amore, come leggenda vuole. Ma la poetessa greca diventa qui la testimone delle speranze che volano via con la giovinezza. Quello della Saffo dipinta da Leopardi è l'estremo atto di ribellione contro la minaccia ormai chiara dell'infelicità universale: il canto di Saffo termina con un'invocazione alla «tenaria Diva», ovvero a Persefone, la dea degli Inferi che avevano la loro porta a capo Tenario, e Persefone è un'altra faccia della Luna, quella a cui Saffo va incontro e che anche Leopardi, in questa prima fase, vagheggia. Ce ne vuole di coraggio a vent'anni per guardare in faccia tutta la disillusione del mondo. Ma ci vorrà ancora del tempo perché Leopardi completi e rafforzi questo suo coraggio arrivando alla resistenza della ginestra, che spande il suo profumo sulle aride pendici di un vulcano, e diventa il punto di forza del fiorire della vita nonostante tutto.

La cosa straordinaria di Leopardi è che riuscì a fare delle sue difficoltà un monumento poetico immortale, resistendo a ogni imposizione. Viveva in un momento storico molto travagliato e con due genitori difficilissimi come il conte Monaldo, che non voleva lasciare libero quel figlio e lo chiudeva nella sua biblioteca un po' raffazzonata sostenendo che Giacomo non avrebbe mai potuto conoscere il mondo se non attraverso i libri, e Adelaide dei marchesi Antici, donna fredda e anaffettiva, devota a un dio crudele e punitore, e che mai regalò ai figli una carezza. Inoltre, per tutta la vita, soffrì di una malattia, che poi è stata classificata con molti nomi, tra cui spondilite anchilosante, che lo prendeva dai polmoni agli occhi, e non gli dava tregua. Eppure, come testimonia una delle sue poesie più celebri, Leopardi era capace di vedere l'Infinito.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Leopardi è giovanissimo quando scrive questo capolavoro. Ma già è capace di qualcosa di straordinario; di vedere passato, presente e futuro insieme. Immaginando l'infinito oltre la siepe, e accettando quel limite come necessario proprio per immaginare l'infinito, gli sovviene l'eterno – e quindi il futuro – ma anche la stagione presente, e le stagioni morte – cioè il passato – contemporaneamente. È una visione totale, inafferrabile quanto inscalfibile. E riguarda quelle potenze che operano nella nostra vita anche se le ignoriamo: amore, morte, necessità, caos, giustizia universale. In una parola: destino, quello che sfolgora davanti ai poeti che sanno vedere contemporaneamente il visibile e l'invisibile. Come lui, forse solo Hölderlin ed Emily Dickinson hanno descritto così bene questa visione totale.
Alcuni versi di Hölderlin dicono: «Molto ingannano inizio e fine. Ma l'estremo è il segno del cielo».
Ed Emily Dickinson inizia così una sua poesia: «Due abissi: dietro a me l'Eternità / Sotto il mio sguardo l'Immortalità / Ed io al loro confine».
Confine ed eternità, inizio e fine, finitudine e infinito: sono due concetti inseparabili. E poiché il poeta li vede e li riconosce tutti e due, e non li contrappone anzi li concilia, ecco che il poeta, come scrisse ancora la Dickinson, è «colui che distilla un senso sorprendente da ordinari significati», ed è per sé stesso un tesoro inviolabile al tempo.
Leopardi aveva la forza di reagire al male affrontandolo a viso aperto:
«Stanco di far guerra all'invincibile – scriveva al Giordani – tengo il riposo in luogo della felicità».
Ma la rinuncia è soltanto un altro mezzo, ben riconosciuto, di ribellione: la poesia e la letteratura gli sono compagne e alleate. La sventura che si ritrovava addosso era quella che il secolo dopo Simone Weil avrebbe definito come malheur, ovvero l'unione del male che capita – come una malattia – con il disprezzo sociale, che quando vanno insieme sono il vero marchio della schiavitù: ma la Weil avrebbe anche detto che la sventura, proprio perché scaglia l'essere umano nel punto più lontano da Dio, lo getta esattamente ai piedi della croce, e se proprio in questa condizione di sofferenza e di avvilimento l'anima conserva ancora la capacità d'amare, quel varco infinitamente piccolo tenuto aperto dall'amore sarà una fessura sufficientemente larga per consentire a Dio di raggiungerla.
E per Leopardi, che conservò sempre una grande capacità di amare, quel varco era la poesia: Dio, la Natura, gli dèi, si trovavano nei canti, nei versi, nella letteratura. A quel punto, il malheur, la sventura, può trasformarsi in bonheur, che è quell'atroce gioia di ricongiungersi a Dio – dice Simone Weil – o di essere posseduto da un dio, di accogliere la divinità dentro di sé, averne la forza, come diceva Plotino, come accade ai poeti. Quel momento, per Leopardi, fu il più adatto alla poesia: la forza, l'invenzione, l'eloquenza e l'immaginazione prendevano nuovo slancio.

A Pisa, nell'aprile del 1828, Leopardi scrive A Silvia. È il canto della vita e della morte, dunque della verità: Silvia se ne va, portata via dal male, prima di poter vivere appieno la sua gioventù, ma anche prima dell'apparir del vero, che cancella tutte le illusioni. Con Silvia, la natura che per il giovane Leopardi era fonte di quiete e di gioia, diventa crudele: promette all'uomo la felicità ma gli toglie ogni possibilità di raggiungerla. Stavolta, dietro la siepe dell'infinito non si finge nessuna quiete, nessun naufragio è dolce. E alla fine del canto, la speranza indica la tomba nuda: è l'apparir del vero, che cancella le speranze della gioventù del poeta così come la morte ha cancellato la giovinezza di Silvia, che però, proprio perché è morta giovane, non conoscerà l'amara disillusione dell'età adulta. Ed è vero: lo sappiamo tutti che è così, che crescendo svaniscono le illusioni che da giovani ci sembrano vere. E però Leopardi ha il coraggio di dirlo, chiaro e tondo. In versi. L’apparir del vero è un destino che non si può contrastare, nell'illusione di tutte le illusioni che è quella di sconfiggerlo, e solo la morte lo può evitare. Ma lo si può accettare: nelle Operette Morali, nel Dialogo di Plotino e Porfirio, Leopardi aveva scritto: «Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».
Da Pisa, Leopardi deve tornare a Recanati, e questo andirivieni tra le varie città e il suo paese che lo disprezza pare sia un eterno ritorno in prigione. Ma a Recanati Leopardi scriverà ancora i suoi versi più belli; in quel vuoto infernale lo soccorre di nuovo l'immaginazione. Nello Zibaldone, scrive che la misantropia si trova nel mondo, non nella solitudine.
E pur nella disperazione, scrive altri capolavori come Le ricordanze, e Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, e Il passero solitario, che canta da solo e non si cura dei suoi simili. Ma il poeta, che canta solitario, riconosce il dì di festa e sa che finirà presto, riconosce la quiete e sa che la tempesta arriverà di nuovo, ma soprattutto riconosce la bellezza di tutte e due. Che sta nel ciclo eterno delle cose.

E tra il 1829 e il 1830 la Luna ritorna a splendere, silenziosa, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: ma il silenzio della Luna non consola più, anzi è quasi crudele, mentre il pastore le si rivolge in uno degli incipit più belli della poesia di ogni secolo: «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?». E le chiede quale senso abbia la sua vita di pastore, e quale senso abbia il corso immortale dell'astro divino. Ma la Luna non dà cenni: resta lontana e silenziosa.  Vergine Luna, la chiama Leopardi, e aggiunge: non sei mortale, e di quel che dico poco ti importa. Il pastore insiste, le chiede quasi una risposta:«Tu forse intendi questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar che sia, che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante», «E tu certo comprendi il perché delle cose». Ma la Luna non risponde: è una dea immortale, è la vergine Artemide, dea del distacco, della lontananza intoccabile. Il pastore allora si rivolge al suo gregge, invidiandone l'assenza di affanni e noie, e poi conclude che invidiare l'altrui sorte, anche quella di un gregge, anche quella degli uccelli in volo, forse è un errore, perché il giorno della nascita è un giorno funesto per chiunque sia mortale, e la felicità è soltanto degli dèi, come già sapevano gli antichi.
Ma è proprio nel 1830, forte di questa consapevolezza, che Leopardi si infiamma di verità e lascia finalmente Recanati, e stavolta per sempre. Torna a Firenze, dove pochi anni prima era stato accolto dagli amici di Toscana e aveva conosciuto Antonio Ranieri. Perché Ranieri, che fu un uomo mondano, molto bello, in carriera, è tanto importante nella vita di Leopardi? Perché fu la sua fortezza umana, come la poesia fu la sua fortezza divina. Ranieri gli fu sempre accanto: a Leopardi piaceva il suo impeto, la sua franchezza, lo divertivano i suoi modi da Werther. Quando era lontano, gli scriveva:«Ti amo quanto si può più amare».

La capacità di amare di Leopardi era immensa, anche per questo Cesare Garboli scrive: «Non si può sentire la vita più di Leopardi». La sua ribellione passa anche da qui: dal sentire la vita pienamente nonostante tutte le illusioni che porta con sé. Altro che pessimismo e nichilismo: nonostante la malattia che lo perseguitava, nonostante Recanati, la famiglia-carcere, la caducità delle cose, l'inganno dei ricordi, e la sfiducia nel genere umano, anzi forse proprio per quello, Leopardi la vita la bevve. E anche nonostante Fanny Targioni Tozzetti, di cui si innamorò ma che era sposata a un uomo più vecchio di lei, si diceva amica intima di Ranieri e voleva allontanarlo da Leopardi, considerando dannosa quell'amicizia. Ranieri non le rispondeva, e lei tornava ad essere la virtuosa signora borghese dedita al marito. Ritraendola in Aspasia, Leopardi la inventava nuova di zecca: una donna che «nasceva e moriva nei suoi versi», come scrive Pietro Citati [13]. Una Laura leopardiana, di cui sappiamo anche poco, perché Fanny distrusse molte lettere che le scriveva Leopardi: ne restano solo due. Fanny sparì dalla vita di Giacomo come ci era entrata, con una poesia: «Or poserai per sempre, stanco mio cor. Perì l'inganno estremo, che eterno io mi credei».

Il tempo di Firenze era finito. Ranieri torna a prenderlo e lo porta con sé a Napoli, nel 1833. Fu l'ultimo suo viaggio. Napoli lo conquistò: gli piaceva il caos, il chiasso, i colori, le taverne, i bordelli, le sfogliatelle, il caffè e le pasticcerie del centro, camminare tra la folla a Mergellina. Il clima migliorò la sua salute. Gli ultimi suoi anni li visse tra Napoli, Pompei, e la villa che il cognato di Ranieri aveva alle falde del Vesuvio, a Torre del Greco.
Al fianco di Ranieri, forse visse il suo periodo più sereno. Ma la malattia non era sparita: nell'estate del 1836 tornò a tormentarlo, e lui comprese: era giunto il tempo di abitare «nel prato degli asfodeli»: nel mito greco, gli asfodeli erano i fiori dell'oltretomba, citati da Omero quando descrive le ombre dei morti che si aggirano nei prati dell'Ade. Ed è anche il fiore di Persefone, la dea degli Inferi.
Ma proprio nel 1836, quando sentiva vicina la fine, Leopardi scrisse i suoi ultimi canti. Tornò la Luna, arrivò la Ginestra.

La Ginestra è il fiore che resiste, la creatura naturale infinitamente superiore alle invenzioni umane. La Ginestra è a penultima canzone di Leopardi: è il fiore «contento del deserto», come poi si definirà Pasolini, è la frusta di Cristo, paragonabile ai gigli di campo dei Vangeli; fiorisce qui, un'ultima volta chiara e definitiva, quell'attitudine universale del Leopardi che lo pone fuori da ogni tempo, che rende eterne le sue frasi e i suoi versi, universali i suoi sentimenti, i moti del cuore, i paesaggi, la natura, i pianeti. È il rapporto sempre vivo con gli antichi, che lo rende più moderno di tutti i suoi contemporanei, è il senso del sacro che accompagna ogni poesia e filosofia leopardiana, è la forza di accogliere il dono della poesia come si accoglie la possessione di un dio o di una dea.
La Ginestra è quel limitare da cui la voce di Leopardi arriva fino a noi, colma e palpitante di vita proprio sull'abisso della morte. Una grande sfida, quella di una quiete infinita, e serena, che si stende tra una speranza e una disperazione senza che una delle due mai prevalga davvero. Tra«ceneri infeconde» e «impietrata lava»la ginestra esiste e resiste, e colora quello che una volta brulicò di vita sotto il Vesuvio, il vulcano che ancora minaccia la stolta umanità che gli vive sotto.
Per Leopardi, è anche l'occasione per un'ultima ribelle invettiva contro il suo «secol superbo e sciocco», che crede di progredire ignorando il passato. Indomito come la natura che celebra, Leopardi può arrendersi alla morte, ma non alla stupidità: un uomo saggio ed elevato d'animo – dice – non nasconde la propria fragilità e riconosce con dignità la condizione umana, mentre un uomo orgoglioso e superbo che vive di illusioni, e vuole una vita infinita di piacere e la felicità dell'avvenire, è soltanto uno stolto. Come stolti sono gli uomini che pensano di essere stati concepiti per dominare l'Universo: «non so se il riso o la pietà prevale», li frusta Leopardi.
Nell'ultima strofa si spande il profumo dolcissimo della ginestra, che sale verso il cielo: questo fiore umile ma forte, anche se verrà sopraffatto dalla lava che prima o poi lo inghiottirà, piegherà il suo stelo senza opporre più resistenza. È l'apoteosi del coraggio, accettare un destino inevitabile: il fiore del deserto, a differenza dell'uomo, accetta con umiltà il suo destino, senza viltà o superbia, e sopporta con dignità il male che gli«fu dato in sorte».Il testamento di Leopardi è questo sacro coraggio, che è anche suprema ribellione: non solo conoscere quel che è orrendo conoscere, come diceva Pasolini, ma anche amarlo, come lo amò Emily Dickinson dall'altra parte del mondo, nello stesso Ottocento di Leopardi, o come lo amerà Simone Weil il secolo dopo.
Il tramonto della Luna, scritta a Torre del Greco, è l'ultima poesia di Leopardi. «Scende la luna, e si scolora il mondo»: Leopardi dà il suo ultimo saluto alla dea dai molti volti, che sempre lo aveva accompagnato. Ma stavolta immagina il giorno che sta per apparire, l'alba che sorge, e per la prima volta Leopardi accenna lo sfolgorar del sole che inonderà di luce la natura, e renderà lucidi i torrenti: ma non adesso, ora tutto si ferma in un'aurora tenue e scolorita, e la luce della luna che tramonta per lui lascerà posto al buio assoluto, come dalla giovinezza si passa all'improvviso alla vecchiaia, e dalla vecchiaia alla morte. L'indipendenza, la forza, la consapevolezza, la rigorosa verginità mentale che Leopardi ha sempre brandito come una spada, manda un ultimo raggio folgorante, che annuncia il Sole mai celebrato, anche se la vita mortale non conosce aurora:«ed alla notte che l'altre etadi oscura, segno poser gli dèi la sepoltura».

Gli ultimi mesi furono sereni: Giacomo non stava male, tanto che dalla villa di Torre del Greco insieme a Ranieri e alla sorella di lui, tornò a Napoli perché sembrava che l'epidemia di colera desse tregua al popolo martoriato. Ma quando riprese vigore, il 14 giugno 1837 si preparò la ripartenza per Torre del Greco in fretta. Ma non abbastanza: verso le diciassette, Leopardi chiese a Ranieri se poteva chiamare il dottore. Ranieri, preoccupato, uscì immediatamente, incurante del pericolo, e quando tornò con il medico, Leopardi era steso sul letto. Parlarono di come avrebbero vissuto dolcemente una volta tornati nella villa di Torre del Greco, ma il medico sussurrò a Ranieri: «non v'è più tempo».
Dopo la morte di Leopardi, Ranieri si trasformò: fece carriera, fu anche senatore del Regno d'Italia, ma diventò un un uomo cupo, solitario, avvolto in mantelli e sciarpe di flanella, chiuso nella casa di Napoli. Non ci fu più traccia di quel giovane bello e avventuroso a cui Leopardi scriveva biglietti d'amore.
Per tutta la sua vita, e anche a Napoli, Leopardi si tenne lontano dalle chiacchiere letterarie, dalle dispute sui giornali, da quel parlare sempre con ottimismo di tutto: la società, il futuro, il progresso. Non amava quei discorsi, sapeva che quella speranza che abbracciava il presente e si proiettava nel futuro era un'illusione, in quel secolo in cui si era cominciato già a stampare più di quanto si leggesse. Nonostante l'ironia malevola che si faceva su di lui, era orgoglioso di contrapporsi ai saccenti da salotto pronti a seguire ogni moda culturale.
Profetico ed eretico, Leopardi aveva anche pensato ad una lettera da scrivere a un giovane del XX secolo, che però non scrisse mai. Ma è comunque disseminata in un pensiero che nello Zibaldone tocca una miriade di temi, come afferma Raoul Bruni, ricercatore in filosofia all'Università di Varsavia. Che aggiunge: «Nessun autore moderno come Leopardi ci aiuta a comprendere il mondo contemporaneo in tutti i suoi aspetti. E credo che anche per comprendere il futuro che si sta preparando non si potrà prescindere da Leopardi» [14]. A dispetto dei suoi traditori e delle accuse di nichilismo, di Leopardi resta impresso, anche attraverso i suoi versi, quel tratto del suo aspetto fisico che è anche il suo ritratto spirituale, e che Antonio Ranieri descrisse così: «un sorriso ineffabile, e quasi celeste».


David Fiesoli
(n. 5, maggio 2023, anno XIII)




NOTE

[1] Emily Dickinson, Poesie, trad. di Margherita Guidacci, Milano, BUR, 1992.
[2] Simone Weil, Quaderni vol. I, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 2021.
[3] Maria Cvetaeva, Il poeta e il tempo, a cura di S. Vitale, Milano, Adelphi, 2022.
[4] Cfr. Grazia Livi, Narrare è un destino, Milano, La Tartaruga, 2002.
[5] Cfr. Giuseppe Pontiggia, I contemporanei del futuro, Milano, Mondadori, 1998.
[6] Cfr. Gioberti legge Leopardi, filosofo dell'infinito, in «Rivista Internazionale di Studi Leopardiani», Milano-Udine, Mimesis, 14, 2021.
[7] Cfr. Pinocchio la maschera della verità, intervista a Daniela Marcheschi, su Rai Cultura – ww.raicultura.it – maggio 2019.
[8] Cfr. Giosuè Carducci, Degli spiriti e delle forme nella peosia di G. Leopardi, pubblicato per la prima volta nel 1898 per il centenario della nascita di Leopardi e ora ripubblicato a cura di G. de Stefano, Massa, Memoranda, 2019.
[9] Matilde Manzoni, Journal, a cura di Cesare Garboli, Milano, Adelphi, 1992.
[10] Giuseppe Grieco, Non esiste ma nella disperazione l'ho sempre cercato, in «Gente», 13 Gennaio 1984.
[11] Cfr. Emanuele Severino in dialogo con Gianni Bonina, in «Pangea», 22 gennaio 2020.
[12] Antonio Prete, Finitudine e infinito, Milano, Feltrinelli, 1998.
[13] Pietro Citati, Leopardi, Milano, Mondadori, 2010.
[14] Leopardi è stato il filosofo più grande, altro che Nietzsche: dialogo leopardiano con Raoul Bruni, in «Pangea» del 9 ottobre 2018.