Dario Fo, le ragioni del premio Nobel

Dario Fo (1926-2016) è stato insignito del Premio Nobel nel 1997, ma un simile riconoscimento internazionale ha suscitato una grande quantità di polemiche in Italia. Diversi autori e intellettuali – da Alfonso Berardinelli a Giulio Ferroni e a Mario Luzi [1] – hanno avuto difficoltà a capire le ragioni della scelta dell’Accademia di Svezia. In bilico fra critiche gratuite e asserzioni basate su visioni non sempre aggiornate del rapporto fra i generi letterari, si obiettava che gli Svedesi avevano una scarsa familiarità con la letteratura italiana contemporanea o che il teatro non è vera letteratura. Allora Luigi Pirandello non meritava il Nobel nel 1934?…
Insomma, il caso dell’acceso dibattito su Dario Fo premio Nobel ha fatto emergere un aspetto contraddittorio della cultura italiana, che non la rappresenta nella sua totalità, è ovvio, ma che continua ad avere un certo credito se non altro a livello mediatico, per le semplificazioni ad effetto a cui si presta. Cerchiamo qui di delineare le problematiche che vi sono sottese.

La visione monologica di un’unica Tradizione della Letteratura identificata con la Storia letteraria, la confusione fra storiografia e Storia, l’idea di un finalismo che guarda agli eventi letterari nel susseguirsi dei secoli come dati indiscutibili e quasi ontologicamente necessari, sono un errore di prospettiva intellettuale. Al contrario, nella letteratura o in tutte le altre arti e componenti della cultura, si verificano per dato antropologico sempre scelte negoziate e negoziabili, in cui intervengono gusti individuali, intelligenza critica, libertà di giudizio, interpretazioni varie delle tradizioni, ampiezza o limitatezza dei dibattiti, sollecitazioni di costume e intendimenti delle istituzioni.
Tale negoziazione dipende da molteplici fattori contingenti, ma essa implica sempre la diretta responsabilità di tutte le parti in causa: autori, stampa, critici, istituzioni ecc. Invece, per una parte della cultura italiana, che ha pensato alla Storia come un incessante movimento da rincorrere, ciò che si è distinto dalle imposizioni della cronaca, della moda, del potere dei media, è stato spesso ritenuto «sorpassato» o «minore». Questo è accaduto in particolare con la tradizione comico-umoristica [2], quasi costretta ad alimentare la letteratura per l’infanzia [3] (basti l’opera del Collodi), ma anche il raffinato teatro di Ettore Petrolini. Ancora oggi autori come Sergio Tofano, Achille Campanile o Cesare Zavattini, solo per fare dei nomi, non trovano sempre una collocazione adeguata nelle storie letterarie più diffuse.
Al contrario, il caricaturista e autore satirico Albert Engström è stato membro dell’Accademia di Svezia dal 1922 al 1940, anno della sua morte. In quel paese, le aperture della cultura hanno infatti consentito una storiografia letteraria e una preparazione tali da spaziare di norma, e senza eccessivi vincoli concettuali, fra più tradizioni.

Un simile dato di fatto fa comprendere meglio le motivazioni culturali che hanno condotto al conferimento del Premio Nobel a Dario Fo, nel 1997: «una sorpresa», ma proprio quella che gli Accademici di Svezia intendevano fare, come dichiarò all’epoca a un gruppo di amici un autorevole membro di quell’istituzione. Nell’Accademia era dal 1971 l’altrettanto autorevole poeta, critico e autore di cabaret e di teatro, Lars Forssell, morto nel luglio del 2007. Membro della Commissione Nobel, Forssell è stato definito un «gigante» per la sua poliedrica ed enciclopedica cultura, per la ricchezza della sua opera letteraria, molto amata e popolare in Svezia [4]. Impegnato e sensibile alle vicende della realtà politica del nostro tempo, Forssell era pronto a misurarsi con esemplari casi del passato, come nei suoi drammi storici [5], in cui aveva messo a frutto anche la drammaturgia di Brecht. I testi poetici del versatile Forssell – le cui canzoni sono state, ad esempio, interpretate da Leo Ferré e dal gruppo Malta – erano ricchi di tensioni ironiche e aforistiche, di slittamenti dal tragico al comico fino al grottesco e viceversa, in un gioco di immagini fra gnomico e surreale, fra suggestioni della pittura e della danza, fra teatro dei burattini e mondo dei clown. Nel 1953 Forssell aveva pubblicato Chaplin [6], esaltando la figura di Charlot emblema del buffone o del folle che, nel suo profilo da marionetta, rappresenta i sentimenti, i desideri, gli inganni, lo scacco dell’uomo novecentesco: la sua perdita di identità e la morte, inseparabili però dalle riaffermazioni della vita e della fiducia [7]. Nelle oscillazioni del pessimismo, il teatro di Forssell aveva toccato anche punte farsesche e satiriche: nella commedia Borgaren och Marx (Il borghese e Marx) [8], ispirata a Molière.

Fra i tanti riconoscimenti ottenuti da Forssell spicca il Premio Bellman, che prende il nome da Carl Michael Bellman, un classico e grande poeta lirico della letteratura svedese. Bellman (1740-1795) ebbe una vita irregolare e fu un autore satirico e un poeta multiforme dal «virtuosismo mimico e musicale […] largamente attestatoci dai suoi contemporanei» [9]. Vero e proprio giullare moderno, Bellman compose musiche o le riadattò, e poesie da lui stesso recitate o interpretate, raccolte nei celeberrimi volumi Fredmans Epistlar (Epistole di Fredman; 1790) e Fredmans Sånger (Canti di Fredman; 1791), in cui fin dal titolo è evidente la parodia biblica. Comico, esaltazione del basso materiale e corporeo, perfezione delle rime e dei ritmi, veri e propri animati quadretti scenici, elegia, idillio, realismo, concretezza plebea ed eleganza del lessico, accenti arcadici e gotici, varietà dei toni e delle sfumature, si alternano nell’alveo del «classico» sentimento della fuggevolezza dell’esistenza umana e del piacere, nella gioia dello slancio vitale e nella presa d’atto della ineluttabilità della morte. La tradizione e l’amore per l’opera di Bellman sono profondamente vivi nella cultura svedese; e popolari nel senso pieno del termine: i versi e le musiche ne sono noti e memorizzati da colti e incolti.

Lo scrittore Arne Dahl ha dichiarato in «Dalarnas Tidningar», il 26 luglio 2007, che difficilmente Dario Fo avrebbe ottenuto il Premio Nobel nel 1997 senza Forssell. Lo crediamo; ma nell’Accademia di Svezia era pure una grande personalità  internazionale come la poetessa e romanziera Birgitta Trotzig, che aveva vissuto in Italia e ne seguiva la cultura con attenzione e simpatia, ma con anche con sguardo equanime e motivato giudizio critico.
La Svezia può insomma vantare una tradizione di letteratura «giullaresca», di poesia e di satira moderna dalla fine del Settecento, secolo in cui importante fu l’assimilazione del magistero di Swift. Ciò fa intendere perché l’autore, attore, regista, scenografo, musicista, Fo fosse chiamato a Stoccolma, nel 1961, per il suo primo debutto all’estero con Ladri, manichini e donne nude: quattro farse su testi dello stesso Fo e di Feydeau. Da allora non si sono contate le repliche, le messe in scena o le produzioni televisive delle opere teatrali di Fo in Svezia e in Scandinavia, la cui serie l’Archivio Franca Rame Dario Fo ha reso facilmente consultabile on line nella fitta successione cronologica. Inoltre, al momento della notizia del conferimento del Premio, le opere di Fo erano già tradotte e rappresentate da tempo in decine e decine di paesi stranieri [10].
Sture Allén, allora segretario dell’Accademia di Svezia, esprimendo in un’intervista stupore per le polemiche sorte in Italia, ribadì che Fo era candidato da più di venti anni: dal 1975 in particolare, secondo una pubblica conferma di Anders Österling [11]. Proprio Allén, linguista e lessicografo noto [12], sensibile alle piroette verbali di Totò e di Fo, lesse la motivazione nella cerimonia del conferimento del Premio Nobel il 10 dicembre 1997.

Il teatro di Dario Fo vanta capolavori come Mistero buffo (del 1969, ma con rielaborazioni successive) e il Manuale minimo dell’attore [13]: un’opera preziosa, questa, e ricca di originali invenzioni, sapienti re-interpretazioni della nostra storia letteraria e teatrale, ricerche ed acquisizioni filologiche, notizie, insegnamenti sul comportamento, i movimenti e la formazione dell’attore e via dicendo. Se si pensa a che cosa è e significa Mistero buffo – una geniale «scorreria», fra invenzione teatrale e rigore degli studi, nelle tradizioni popolari e colte che hanno costituito l’affascinante storia culturale del nostro paese, e non solo –, il suo straordinario successo internazionale non può meravigliare. Nella «giullarata popolare» tornano alla vita cronache e aspetti del teatro e della cultura popolare del Medioevo, misteri e sacre rappresentazioni, canovacci quattrocenteschi e via dicendo. Tutto questo si incontrava con la ricerca filologica, senza concessioni libresche o intellettualistiche, con un lavoro ad ampio raggio che sapeva far tesoro della tradizione del teatro greco e romano, della Commedia dell’Arte, della farsa, del comico, del grottesco, del surreale e su su fino al cabaret, al teatro di Beckett  e di Ionesco, ma anche del russo Mejerchol’d che, nel 1921, mise in scena a Mosca proprio Mistero buffo di Majakovskij.
Nella cultura popolare la satira consente, in orizzontale e verticale, in sincronia e diacronia, un ampio spazio di combinazioni e il dinamismo fra le tradizioni nell’esplicazione di uno sguardo ludico, teso alla libertà e alla critica. Il teatro di Fo mirava a coinvolgere lo spettatore, provocarlo, farlo divertire, farlo pensare, magari a insegnargli nella traccia del «teatro didattico di Brecht», come si legge nella motivazione svedese. Lontana da esiti naturalistici, l’opera di questo autore puntava a un moderno realismo gnomico e tragicomico in cui la caricatura, l’ironia, il sarcasmo, la parodia servivano e servono a rilanciare un ponte fra soggettività (forte) e oggettività, fra autore, pubblico e mondo.

Nei suoi esiti migliori il teatro di Fo è il tripudio, la festa delle tradizioni e la gioia di riscoprirle e farle rivivere, giacché il passato è morto per i morti di oggi, non per i vivi che vogliono andare avanti e costruire il futuro per sé e per gli altri.
In Italia, il dibattito culturale è spesso falsato da pregiudizi e polemiche settarie, che impediscono una giusta valutazione delle opere letterarie e degli autori. In Fo l’ideologia era parte integrante, strutturale, nel bene e nel male, della sua opera; l’autore-attore era poi schierato politicamente e non ne aveva mai fatto mistero. I testi teatrali di Fo risultano talora viziati da un eccesso di schematismo, di semplificazioni scontate, che vogliono essere «popolari» ma rischiano invece di cadere nella facile demagogia. Malgrado ciò, là dove si raggiunge un equilibrio formale tra le varie tensioni in campo nella sua opera, essi risplendono in piena luce. Allora il giullare, il buffone, il menestrello, che ha creato un antico linguaggio nuovo come il grammelot – paradosso di un discorso che risulta compiuto attraverso il confuso, puro, flusso vocale e musicale di onomatopee, suoni indistinti, parole reali –, incanta il suo uditorio.
L’originale capacità di ri-assumere la ricchezza delle tradizioni italiane ed europee, trasmesse per via orale o di scrittura, faceva risaltare le eccezionali doti interpretative di Fo e ne volgeva il «comico, il tragico, la follia» alla «ragione» dissacrante e liberatoria della satira del potere e delle sue ottuse sicumere [14], come in Johan Padan a la descoverta de le Americhe del 1991 [15].

Pertanto nella motivazione dell’Accademia di Svezia si legge: «L’opera di Fo mette in primo piano la ricchezza multiforme della letteratura», con riferimento alla molteplicità delle fonti del suo teatro – dal mondo classico e rinascimentale fino al Novecento –, al ritmo delle scene, allo scambio continuo con gli spettatori, anche grazie all’improvvisazione. A tutto questo si aggiungono l’«arguzia», la «creatività», l’eccellenza dell’attore, riscatto della dignità ed esaltazione dell’umile e precaria condizione del giullare nell’età medievale, ma non solo.
Le scelte politiche dei membri dell’Accademia di Svezia erano tutt’altro che omogenee e omologate a quelle di Fo, che aveva costruito la sua vittoria con un tenace lavoro dell’immaginazione accompagnato da indagini puntuali e approfondite, il cui spessore fu colto in Svezia. Chi scrive qui ricorda ancora con piacere, per esservi stata presente, una messa in scena di Mistero buffo a Stoccolma nel 1980. In sala girava uno smilzo libretto che non riguardava neanche l’opera in questione: a quella data erano forse tradotti in svedese uno o due testi in tutto di Fo. Il suo volume più importante in svedese era Gycklarens teatern: fyra skådespel, ovvero Il Teatro del giullare. Quattro commedie, a cura di Anna e Carlo Barsotti (Stockholm, Arbetarkultur, 1984). Tuttavia, edizioni italiane dei libri di Fo non mancarono nelle librerie della Svezia prima e dopo il 1997; c’è poi chi dall’Italia mandava copie e copie delle sue opere o degli articoli su di lui agli intellettuali svedesi che desideravano leggerlo e studiarlo. Per tornare, però, a quella rappresentazione di Mistero buffo, ricordiamo la folla in cui si potevano riconoscere volti noti della cultura svedese, e Dario Fo, un interprete superlativo per la semplicità, la concentrazione, la cultura con cui seppe anche rivolgersi e parlare al pubblico entusiasta. Ciò che aveva profondamente colpito quegli spettatori di Mistero buffo, intorno a cui vi furono nelle università e nelle case discussioni lunghe e appassionate, era la fertile commistione fra tradizioni del passato e cultura contemporanea, fra filologia e storia, fra teatro e letteratura, fra disciplina e creatività. In breve, la vitalità del «classico».


Daniela Marcheschi
(n. 3, marzo 2022, anno XII)





* Per una redazione precedente di queste pagine, cfr. Alloro di Svezia. Carducci Deledda Pirandello Quasimodo Montale Fo. Le motivazioni del Premio Nobel per la Letteratura, a cura e con un saggio introduttivo di Daniela Marcheschi, Parma, MUP, 2007.


NOTE

1. Ma la critica è divisa, in «la Repubblica», 10 ottobre 1997. Berardinelli, dopo aver detto di aver visto le opere di Fo in teatro, ma di non leggerlo, dichiarò: «Questo Nobel è il sintomo estremo della cattiva conoscenza che all'estero hanno della letteratura italiana del Novecento. A me Dario Fo non piace neanche come attore. Ma come scrittore è improponibile. Le sue opere le ho viste a teatro, ma non ho mai sentito il bisogno di leggerle, cosa che non mi succede con Shakespeare, ovviamente, ma neanche con Ionesco o Beckett. I suoi non sono testi». Luzi, che riteneva di essere candidato da tempo al Nobel, forse  meno informato dei meccanismi del premio, affermò: «È una dimostrazione di malanimo verso i letterati che erano stati proposti e in particolare verso di me». Infine  Ferroni asserì: «Stimo grandemente l'attore Fo, ma dov'è la sua letteratura? [...] Gli manca la scrittura fuori dell'uso teatrale, i suoi testi non hanno densità stilistica, vivono solo per l'immediato. E mi sembra che il premio sia il suggello ad una letteratura ridotta ad apparenza, messaggio mediatico senza profondità».
2. Tradizione con una sua storia millenaria e una teoresi di notevole profondità scientifica e filosofica. Per  conoscerla meglio, in particolare per gli sviluppi tra Otto e Novecento, sono da leggere le ampie antologie, con note introduttive relative, riproposte dalla rivista «Kamen’», diretta da A. Anelli, e che citiamo nell’ordine dall’indice delle annate: Filosofia/Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Prima selezione): D. Marcheschi, Nota introduttiva; L. Dumont, Le risible da “Théorie Scientifique de la Sensibilité” (1875); G. Trezza, L’Umorismo (1885); G. Arcoleo, da “L’Umorismo nell’Arte moderna” (1885); F. Masci, [Psicologia del Comico] da Elementi di Filosofia (1904); F. Baldensperger, Les définitions de l’Humour (1907) [Parte I], in «Kamen’», 35 - giugno 2009. – Filosofia/Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Seconda selezione): D. Marcheschi, Nota introduttiva; L. Dumont, da Les causes du rire (1862); M. Monnier, da Un Humoriste italien. Salvatore Farina (1882); P. Bellezza, da “Humor” (1900), in «Kamen’», 36, gennaio 2010. – Filosofia/Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Terza selezione): D. Marcheschi, Nota introduttiva; V. Reforgiato, da L’Umorismo nei Promessi Sposi; A. Werner, da “The Humour of Italy”, in «Kamen’», 37, giugno 2010. – Filosofia / Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Quarta selezione): D. Marcheschi, Nota introduttiva; A. Pichot, Notice da Histoire de la Caricature et du Grotesque dans la Littérature et dans l’Art par Thomas Wright; Champfleury, Préface, da Histoire de la Caricature Moderne; O. Cima, da Mezzo secolo di caricatura milanese 1860-1910, in «Kamen’», 38 - gennaio 2011. –Filosofia / Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Quinta selezione): D. Marcheschi, Nota introduttiva; E. Nencioni, L’Umorismo e gli Umoristi; A. Amfitheatrov, Le vie e le sorti dell’umorismo russo, in «Kamen’», 39, giugno 2011. –Filosofia/Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Sesta selezione): D. Marcheschi, Nota introduttiva; P. Gaultier, Scelta da “Le rire et la caricature”; E. Allodoli, La caricatura inglese; L. Refort, Préface, da “La caricature littéraire”, in «Kamen’», 40, gennaio 2012. –Filosofia/Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Settima selezione): D. Marcheschi, Nota introduttiva; R. Deberdt, scelta da “La caricature et l’humour français du XIXe Siecle”; L. Rasi, pagine scelte da “La caricatura e i comici italiani”, in «Kamen’», 41, giugno 2012. – Filosofia/Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Ottava selezione): D. Marcheschi, Nota introduttiva; A. Piccoli Genovese, da Il Comico, L’Umore e la Fantasia o Teoria del Riso come introduzione all’Estetica, in «Kamen’», 42, gennaio 2013. –Filosofia/Scritti sull’Umorismo dal 1860 al 1930 (Nona selezione): D. Marcheschi, Nota sull’umorismo; G. A. Levi, da “Il Comico” (1913): Teoria. Capitolo I. Teorie che definiscono il Comico come un rapporto tra il fatto e il pensiero, in «Kamen’», 44, gennaio 2014. A questi si deve aggiungere, nella sezione Kamen’/Filosofia, la ripubblicazione del capitolo I di C. Lalo, Esthétique du rire (1949), con l’articolo nota di S. Calderoni, L’estetica del riso di Chrles Lalo, in «Kamen’», 46, gennaio 2015.
3. Cfr. D. Marcheschi, La Letteratura per l’Infanzia, in Storia della Letteratura Italiana diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, Milano,  Federico Motta, 2000, vol. XII, Il Novecento. Sperimentalismo e tradizione del nuovo, pp. 516-551.
4.  Cfr. S. Thunvik, En mångsidig kulturgigant, in «Aftonbladet», 26 luglio 2007.
5. Ad esempio Galenpannan: skådespel i åtta bilder, Stockholm, Bonnier, 1964; e Christina Alexandra. Ett skådespel Stockholm, Bonnier, 1968 (ristampa 1987). Il teatro è stato raccolto nel volume L. Forssell, Teater, Lund, Cavefors, 1977, in due parti una delle quali contiene la saggistica dell’autore sull’argomento.
6. Stockholm, Wahlström & Widstrand.
7. Il lettore italiano può subito verificare una simile, continua, fusione anche nella poesia Alceste: epitaffio, tradotta da G. Oreglia nel volume Poesia svedese, Prefazione di S. Quasimodo, Milano, Lerici, 1966, pp. 464-465.
8. Stockholm, Bonnier, 1970.
9. Così M. Gabrieli, Le Letterature della Scandinavia, Firenze, Sansoni, 1969, p.143.
10. La notizia è stata data dal settimanale «L’Espresso», 23 ottobre 1997, p. 78.
11. Cfr. le interviste fattegli da N. Cantaroni in «L’Europeo», 7 novembre 1975 e da C. Ferrari in  «Gente», 21 dicembre 1977.
12. In volumi pubblicati in Italia se ne vedano l’intervento di apertura in  Linguistica matematica e calcolatori. Atti del Convegno e della Prima Scuola Internazionale, Pisa 16-VIII/16-IX 1970, a cura di A. Zampolli, Firenze, Olschki, 1973, pp.3-18; e l’articolo The Linguistic Project of the Swedish Academy, in Linguistica computazionale, vol. 4/5 Studies in Honour of Roberto Busa S. J., promoted by  A. Zampolli and edited by A. Cappelli, Pisa, Giardini Editori e Stampatori, 1987, pp. 23-27.
13. Con un intervento di F. Rame,  Torino, Einaudi, 1987, più volte ristampato.
14. Si parafrasa un noto titolo di D. Fo: Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione con Luigi Allegri, Roma, Laterza, 1990.
15. A cura e con traduzione di F. Rame, Firenze, Giunti, 1992.