Ana Blandiana: Libertà va cercando, ch’è sì cara

Quando ho scelto, con un entusiasmo quasi esaltato, la terzina sulla libertà del «Canto di Catone» come punto di partenza di questo intervento, l’ho fatto per una sorta di slancio nostalgico, nel ricordo dello stato d’animo in cui ho vissuto per una buona metà della vita, quando la libertà – che mancava – era il valore supremo per il quale potevi rischiare la vita.
Basta che io pensi alle migliaia di romeni – ma ciò avveniva sicuramente anche negli altri Paesi dell’Est – che sono stati fucilati o presi e condannati a duri anni di prigione, mentre tentavano di varcare illegalmente la frontiera per arrivare nel «mondo libero», per rammentarmi la pregnanza, inimmaginabile in condizioni di libertà, della nozione di libertà di allora.
Basta che pensi alla condizione, stranamente prestigiosa, dei poeti sotto il comunismo, poeti i cui libri di poesia, quando non erano proibiti, si vendevano in decine di migliaia di esemplari, poiché in poesia si conservavano, come in miracolosi contenitori, le ultime molecole di libertà, che i lettori cercavano affinché li ispirassero e potessero così sopravvivere. Come dei cavalieri senza macchia e senza paura, i migliori tra i poeti evolvevano sul filo del Gulag con la sciabola estratta dal fodero contro la censura e, anche se potevano essere in qualsiasi momento abbattuti, il timore di fronte a loro da parte di quelli che detenevano il potere totalitario era molto più grande del timore che essi nutrivano verso il potere, poiché i lettori gli si stringevano intorno così come si serrano i palmi delle mani attorno alla fiamma di una candela perché non venga spenta dal vento.
Basta che pensi alla resistenza mediante la poesia che ha funzionato nelle prigioni della Romania negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, quando in assenza del lapis e della carta, vietati, ogni verso presupponeva almeno tre artefici: chi lo componeva, chi lo trasmetteva attraverso i muri con l’alfabeto Morse e quelli che lo mandavano a memoria, la poesia essendo un concentrato di libertà che essi assumevano come un farmaco, per restare in vita.
E quale omaggio più specifico e più rivelatore potrebbe portare un poeta dell’Est, contemporaneo di quel fervore, a Dante – il primo e il più penetrante fra i poeti d’Europa – se non la descrizione del modo in cui si vedeva la luce della libertà nel buio e il modo, così sconcertante, in cui essa è diventata, dopo la dissoluzione del buio, invisibile? Poiché la libertà è visibile soltanto nella forma vettoriale della liberazione. Essa viene avvertita soltanto nella misura in cui è minacciata. Fintanto che non è contraddetta da nulla, essa diventa invisibile, impalpabile, viene dimenticata. Ce ne ricordiamo e la riscopriamo solo nel momento in cui comincia a scomparire. Portando tale pensiero fino alle sue estreme conseguenze, potremmo addirittura dire che la libertà non può essere realmente compresa se non quando essa non esiste.

Parecchi anni fa ho organizzato presso il Memoriale delle Vittime del Comunismo, a Sighet, in Romania, una conferenza internazionale del PEN Club sul tema «Tra la libertà fisica e quella spirituale» invitando scrittori ex-detenuti politici di diversi Paesi dell’Est, ma anche – uno, individuato per caso – dal Portogallo di Salazar. Il dibattito, estremamente interessante, ha portato, in modo stranamente unanime, a una conclusione inattesa: in carcere – dicevano gli ex-detenuti politici – là dove la libertà fisica mancava del tutto ed era perduta persino la speranza di recuperarla un giorno, la libertà spirituale esisteva in misura maggiore che al di fuori dei muri della prigione. Nel mondo di allora, soggetto in ogni momento non solo alle minacce e ai pericoli del terrore, ma anche alle diverse possibilità di schivarli, la libertà dello spirito era in permanenza turbata dalle tentazioni ai compromessi, dal dubbio delle manipolazioni, dall’illusione di evitare la repressione, mentre, una volta entrata nel punto terminale della detenzione, la libertà interiore non era più turbata né dall’angoscia del peggio, lasciata alle spalle,né dalla speranza, cui non era più possibile giungere. Si produceva a un tratto una serenità nel destino fatto proprio, una serenità che aveva, in fondo, tutte le caratteristiche della libertà.
Una conclusione dalla quale abbiamo dedotto che la libertà, come molti valori di questo mondo, è connessa alla sofferenza.

Mi è parso facile ed esaltante ripropormi di scrivere sulla libertà, pensando alla stella polare quale essa era stata per me fino alla metà della mia vita, e scoprire a un tratto quanto sia difficile e persino penoso tentare di scrivere sulla libertà oggi, allorché la nozione diventa sempre più incerta e più vaga, fra l’essere eccessiva, troppo esigua o inesistente e, più di tutto, fra i ceppi che le pongono gli avversari e i pesanti legacci con cui si vincola da sola. Fra la domanda «Con quanta poca libertà può essere gratificato un uomo» e la domanda «Quanta libertà può tollerare, senza uscire di senno, un uomo?» si stende la plaga sdrucciolevole della libertà oziosa, distaccata, indifferente, che non sa cosa fare di sé stessa e si lascia sommergere pian piano, come da una marea oscura, dalla correttezza politica.
Nei secoli passati i poeti dedicavano alla libertà odi e inni. Oggi il tentativo di parlare della libertà d’espressione può essere considerato sospetto e, in ogni caso, politicamente incorretto. Il paradosso è che gli intellettuali, coloro che hanno sempre lottato per avere maggiore libertà, lottano ora per averne meno, come se potessero, in questo modo, tutelarsi dal proprio modo di pensare. Poiché va osservato che viene ripudiata soltanto la libertà di pensare. Non sei libero di sceglierti le parole e le idee, sei però libero di scegliere il tuo sesso.

Il fatto che l’anno che segna sette secoli dalla morte di Dante potrebbe rimanere nella storia come l’anno della cancel culture, l’anno della cultura della cancellazione che slitta minaccioso verso l’annullamento della cultura, non è soltanto un agghiacciante paradosso, ma anche un simbolo.
In modo singolare, etimologicamente la parola simbolo deriva dal greco syn-ballein, un verbo che significa riunire, mettere assieme. Mettere assieme nella stessa misera unità di tempo i settecento anni di professione di fede e di amore della Divina Commedia con la teorizzazione e la gestione dell’odio e dell’intolleranza contro la cultura occidentale è un simbolo di cui solo il cinismo della storia può essere capace. La libertà «ch’è sì cara» di cui parla Dante è appunto la materia prima – considerata incorretta – di questa cultura, sottoposta ora alla censura e proposta per l’annullamento.
Mentre in Italia si svolgono con solenne fasto i festeggiamenti dell’anno Dante, le università statunitensi censurano Shakespeare e compilano lunghi elenchi di opere politicamente incorrette proposte per l’annullamento. Il fatto che la Divina Commedia non vi figuri ancora è dovuto verosimilmente alle sue dimensioni che hanno reso difficili le elaborazioni della censura. Del resto essa vede presenti tutti gli attuali capi d’accusa: è l’opera di un maschio, bianco, europeo, cristiano, eterosessuale.

Non scherzo, anche se sembra che lo stia facendo e tutto questo non è uno scherzo, anche se ha l’aspetto caricaturale di una parodia apocalittica. Il fatto che coloro che hanno distrutto le statue di Lincoln e di Colombo, e pongono sotto accusa la storia intera, siano una minoranza non impedisce che il pericolo sia reale, da sempre le minoranze hanno cambiato il mondo e non l’hanno modificato sempre in bene. Il fatto che tutto paia assurdo – cosa che non gli impedisce di essere ridicolo – sconcerta, poiché è incomprensibile.
Cosa può significare vandalizzare il Memoriale di Lincoln a Washington o la statua di Lincoln a Londra? Che non avrebbe dovuto lottare per la liberazione dei neri dal momento che, evidentemente, in questa lotta, in cui ha perso la vita, è diventato una statua? O ciò che ha fatto non è sufficiente per cancellargli il peccato originale di essere nato bianco? O sarebbe semplicemente possibile, forse, che i distruttori di statue sapessero soltanto che è stato un presidente bianco, e non anche qualcuno che ha donato ai neri la libertà?
In maniera sconcertante, la lotta contro il razzismo si è trasformata in razzismo, così come l’eccesso di libertà ha portato alla reinvenzione della repressione. 
Mi è capitato spesso, di fronte a certi episodi e avvenimenti aberranti della storia di cui sono stata contemporanea, di giungere alla conclusione che tra Stoltezza e Malvagità esistono pericolosi legami, nel senso che spesso la stupidità si trasforma in Male, senza che se ne renda conto e che lo capisca. Può essere però assimilato alla stoltezza il tentativo di taluni uomini liberi di delimitare la propria libertà, di certi autori di libri d’inventarsi la censura, di certi professori e uomini di cultura di porre sotto un segno di domanda la stessa cultura?
Ma se non è di stupidità che si tratta, potrebbe trattarsi di demenza?

In romeno esiste un proverbio: «Quando il Padreterno vuole perdere qualcuno, gli toglie come prima cosa il senno», il che vuole certamente dire che, in assenza della ragione, l’uomo è perduto, ma anche che non l’uomo, ma il Signore è responsabile di tale sventura. Cosa che, in maniera evidente, non è vera in questo caso. Tutti gli analisti sono d’accordo sul fatto che le radici storiche del fenomeno chiamato correttezza politica possono essereidentificate nella «teoria critica», le idee del gruppo di filosofi marxisti di Francoforte degli anni ’20 del secolo scorso, gruppo che, con l’ascesa di Hitler al potere, è emigrato negli Stati Uniti e, nei decenni seguenti, ha avuto un considerevole peso sulle generazioni successive di studenti e sulla vita universitaria americana. A questo peccato originale, tenuto a freno all’inizio dal rigore accademico, si è aggiunta nel tempo l’influenza di taluni filosofi, sempre del mondo universitario, francesi, come Derrida o Foucault appartenenti alla generazione che nel 1968 scandiva a Parigi À bas la culture, «Abbasso la cultura». Il paradosso è che, nato dalla filosofia, il movimento non si sviluppa attraverso dibattiti di idee, ma attraverso la proibizione delle idee, non vengono rifiutati argomenti, ma addirittura il diritto di argomentare.
Indipendentemente da chi abbia la responsabilità di questa evoluzione del pensiero occidentale – il Padreterno o magari il Diavolo? – è evidente che essa è sorta dal fertile suolo della libertà cresciuta nell’Europa degli ultimi secoli e si ritorce in maniera suicida, tramite la reinvenzione della censura nel cuore della libertà, simile al serpente Ouroboros che si morde la coda.
Dalla correttezza politica alla cancel culture (o call-out culture, o anche woke) le tendenze ideologiche non sono mutate, viene seguito lo stesso modo di vedere la storia come una successione delle ingiustizie perpetrate da bianchi su tanti altri esseri umani diversi da loro, da maschi sulle donne, da cristiani sulle altre religioni, da eterosessuali su persone di diverso orientamento sessuale, è cresciuto solo il grado di violenza, accanimento e odio. La società è stata suddivisa in frammenti che si odiano fra loro, le minoranze vengono identificate, inventate, esaltate, parcellizzate in altri frammenti, minoranze di minoranze che si oppongono alla maggioranza, divenuta colpevole. Ma il Padreterno ci ha tolto il senno? Nessuno si rende conto che in questo modo si pone sotto un punto di domanda il principio stesso della democrazia, che cosa significa vittoria dell’idea maggioritaria? Che è diventato semplicemente pericoloso parlare in nome della maggioranza di qualunque genere?
Scrivevo una volta, prima dell’ottantanove, non senza tristezza, che non è libero colui che ha bisogno di coraggio per essere libero. Non avremo per caso di nuovo bisogno di coraggio, nelle condizioni in cui coloro che rinunciano alla libertà d’espressione e al buon senso rischiano di essere espulsi dallo spazio pubblico, perseguitati, incolpati, minacciati, offesi, umiliati?
E anche se non si tratta ancora di violenza fisica, il paragone con la rivoluzione culturale della Cina di cinquanta anni fa è davvero sconvolgente.

La celebrazione dei settecento anni dalla morte di Dante ci parla non solo della posterità del primo e probabilmente del più specifico genio d’Europa, ma anche della forza della nostra memoria su cui poggia tale posterità. Le radici cristiane dell’Europa da cui è fiorita la Divina Commedia riescono tramite la memoria a far giungere la loro linfa fino a noi, aggiungendo alla combinazione di Bene e Bello (la kalogakathìa classica) che ci hanno lasciato in eredità gli antichi greci, l’Amore. Senza la nostra capacità di rimembrare e la nostra ostinazione a non dimenticare, Dante non avrebbe potuto essere il contemporaneo col quale ci siamo inorgogliti, di volta in volta in ciascuno dei secoli che sono trascorsi fra noi. Il modo in cui si tenta ora di colpevolizzare l’intero processo storico, trasformato in un raccapricciante racconto sui crimini dell’Europa contro gli altri continenti, è un attentato non solo alla verità, ma anche alla nostra memoria, alla nostra libertà di ricordare ed essere fieri di ciò che teniamo a mente.

In questo senso l’anno Dante 2021 è una meravigliosa vittoria della memoria dell’umanità contro coloro che cercano giusto in questo anno di distruggerla, una vittoria con significati estesi al di là delle frontiere culturali. Il maggiore successo del comunismo è stato la creazione dell’uomo senza memoria, l’uomo che ha subito il lavaggio del cervello, che non doveva ricordarsi né cosa è stato, né cosa ha avuto, né cosa ha fatto prima del comunismo. La distruzione della memoria è l’ossessione e l’opera essenziale del comunismo. Un’ossessione che viene ripresa oggi avendo come modello la più aberrante tra le forme in cui si è manifestata fino ad ora: la rivoluzione culturale cinese. Anche se si tratta di un’ossessione politica, l’obiettivo-vittima sacrificale sembra essere – sia in un caso che nell’altro – la cultura, che è il principale depositario della memoria e della libertà.
Ma se la «resistenza mediante la cultura» è stata sotto il comunismo una delle forme più persistenti, più durevoli di resistenza, essa dovrà per caso essere anche oggi la soluzione? Salvo che questa volta non solo la cultura tutelerà noi, ma anche noi dovremo avere il coraggio di difendere la cultura. Non sarà magari opportuno che, nel tutelare noi, ci s’impegni a difendere anche Shakespeare dalla censura? E allora l’interrogativo che siamo obbligati a porci è se, dopo tanti decenni di consumismo, di libertà oziosa e di distrazioni di bassa lega, possiamo ancora ritrovare in noi la forza d’animo del tempo in cui non eravamo liberi?
Siamo forse in grado di immaginare un Solženicyn americano?

Sono consapevole che esistono molti Paesi al mondo, persino in Europa, dove non potrei permettermi di porre in pubblico queste domande incorrette politicamente.
Sono riconoscente al genio italiano che è riuscito a conservare, dal suo enorme lascito di bellezze artistiche e naturali, sufficienti riserve di libertà e di buon senso per non lasciarsi maculare dalle torbide acque del ‘progressismo’. Come sono del resto riconoscente all’Italia per il modo in cui tanto le sofferenze della pandemia, tanto le insensibilità culturali della globalizzazione non le hanno impedito di promuovere questo momento di quiete intellettuale in cui qui, a Roma, nel cuore primordiale dell’Europa, possiamo udire la musica delle sfere celesti, ossia la melodia dell’amore «che move il sole e l’altre stelle», per ricordarci chi siamo e chi dobbiamo continuare a essere.


Ana Blandiana
Traduzione dall’originale romeno di Bruno Mazzoni
(n. 11, novembre 2023, anno XIII)