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Lettura, azione, cultura in Giuseppe Pontiggia
Se la cultura e la letteratura, come sempre nella storia della civiltà, sono un modo per ripensare la condizione umana, in Giuseppe Pontiggia questa intenzione appare ancora più evidente. I suoi scritti sono chiaramente in grado di stimolare un cambiamento dei modi di pensare o di risvegliare delle risorse spesso arrese a facili schemi mentali. La letteratura di Giuseppe Pontiggia ha la capacità di espandere le nostre facoltà, sa parlare all’intelletto e sa giungere con la stessa intensità al sentimento del lettore. Questo avviene perché il suo lavoro, fluido e all’apparenza articolato senza sforzi, è innanzitutto il risultato di una indagine minuziosa, un modo di intendere la letteratura che, ricercata negli altri, Pontiggia ambiva per sé. Se si legge l’articolo «Via delle cento stelle» di Palazzeschi, pubblicato nel 1974, poi incluso nella raccolta Il giardino delle Esperidi [1],quest’analisi, o per meglio dire esplorazione, emerge in maniera chiara.
Per un gioco di sovrapposizioni, il rapporto tra Pontiggia e Palazzeschi fa pensare a un altro legame profondo, quello di Benedetto Croce con le opere di Francesco De Sanctis. Secondo Croce siamo abituati a immaginare la relazione di un pensiero col suo antecedente in un modo strettamente collegato secondo una progressione continua fatta di critiche, rettifiche e aggiunte. Con la conseguenza di giungere a una «concezione fallace dello svolgimento educativo». Mi pare invece abbastanza chiaro come il «modello» Pontiggia, inteso come fatto culturale del Novecento, non si esaurisca secondo una logica di accumulo, seppure bene appurato di nozioni, ma si costituisca invece assecondando quello svolgimento effettivo che, come dichiara Croce, accade «non coll’intendere ma con il fraintendere, o non solo con l’intendere, ma anche col non intendere» [2]. Un processo che si avverte in primis in questo intenso dialogo tra Pontiggia e gli autori di cui parla, per poi rivelarsi ancora più vivo e vibrante nella relazione che Pontiggia instaura con il suo lettore. Il progresso dello spirito si attua col risolvere problemi nuovi, diversi da quelli che occuparono la mente dei predecessori; «e tra quei nuovi problemi è l’opera stessa dei predecessori che dapprima sta innanzi al nuovo spirito come una ‘cosa in sé’, cioè come nulla, e via via entra a far parte di esso come problema: sicché intendere il predecessore e progredire oltre di lui non sono due stadi distinti, ma uno stadio solo, non due ma un unico processo» [3].
Se ritorniamo a Palazzeschi, vedremo come Pontiggia ricerchi in lui quella sensazione di felicità che si acuisce quando l’autore comunica in prima persona con il lettore. Si trasmette così non solo un’idea del mondo ma anche quella di essere umano: «Siamo tanto abituati a io immaginari, a io che non esistono, a io in abito da cerimonia o a io nudi e infreddoliti, che l’io di Palazzeschi ci sorprende» [4]. Si realizza, inoltre, quel modo naturale e sorprendente dello scrivere che riguarda Palazzeschi ma che è dello stesso Pontiggia. Così come appartiene a Pontiggia quella possibilità di muoversi su più piani, che sono quelli della realtà e della fantasia quasi sempre sovrapposti: «In Realtà o fantasia? (la raccolta è piena di perché? E di punti interrogativi) si chiede:
Come possiamo amare
due cose
in perfetta contraddizione fra loro
e che si escludono a vicenda?
Io le ho amate tutte e due
per amore della vita» [5].
Se per Pontiggia «il linguaggio di Palazzeschi rinvia a continue interpretazioni e ipotesi, a estensioni e moltiplicazioni di significati, per farci giungere infine alla conclusione che tutto era alla superficie della scrittura» [6], non viene il dubbio che Pontiggia stia parlando anche di sé stesso e di quel sé ideale che coincide con gli altri? Concetto, quest’ultimo, che rimanda aMartin Buber: il conflitto con gli altri ha radice nel sé solo nel capovolgimento, cioè nel ritorno a sé risiede la possibilità di un’apertura autentica della relazione io-tu [7].
Ed è proprio per questo processo conoscitivo dell’io, per la necessità di Pontiggia di porre la letteratura in tensione con la verità, per il senso di una responsabilità della scelta che implica le domande su ciò che è giusto e su ciò che è bene, che Pontiggia può essere ritenuto un riferimento intellettuale tra i più vivi e solidi del nostro Novecento. Così Daniela Marcheschi nell’introduzione al Meridiano a lui dedicato: «Il processo conoscitivo implica l’etica con i suoi radicali quesiti su giusto e ingiusto, il male e il bene, nella direzione soggettiva del rischio e della ‘moralità del principio della scelta’ cara a Herman Broch (autore noto a Pontiggia), e nella volontà di porre la parola in tensione con la verità, eliminando dalla letteratura le tentazioni manieristiche e i formalismi. Solo in questo senso Pontiggia è un moralista: la ricerca di un’esperienza libera e integrale si articola attraverso l’indomita responsabilità delle scelte, le mediazioni dell’intelligenza e l’estensione dei valori razionali, mentre più spesso il moralismo è rigida e ripetitiva affermazione di petizioni di principio» [8]. Da qui, spiega la Marcheschi, la sfida di un linguaggio che sia chiaro e profondo, sempre rispecchiando quello spiccato senso di responsabilità e di rispetto che Pontiggia ha per il lettore e per le cose. La chiarezza di Pontiggia nasce dunque da motivazioni che, come rileva ancora la Marcheschi, la differenziano dalla semplicità espressiva. Esse rispondono piuttosto a un’esigenza di immediatezza e di genuinità, oltre che a una necessità di «profondità inesauribile». A proposito della «Chiarezza» di Daumal, a cui Pontiggia dedica il saggio che troviamo in apertura della raccolta Il giardino delle Esperidi, la chiarezza non è intesa come valore in sé, ma è il valore stesso che si esprime solo attraverso la chiarezza [9].
Infine, nell’indagare Palazzeschi, Pontiggia non indaga forse sé stesso sul senso dello scrivere e sull’arte della lettura? O «sul problema abissale dei valori» [10]?
L’economia «tecno-industrializzata» ha inondato le nostre vite di continue e onnipresenti informazioni, di procedure culturali costituite da immagini, suoni, parole, ricordi (i social network ci ripropongono continuamente vecchi ricordi facendo continui balzi nel passato) e di simboli (i cosiddetti emoticon, per quanto si tratti di caratteri atavici riproposti in chiave moderna). Si assiste a una proliferazione e diffusione di contenuti seriali che cambiano i connotati stessi della parola «cultura», lasciata anch’essa cullare tra le mode momentanee – che Pontiggia avrebbe forse definito velleitari avanguardismi. Con il suo lavoro nel «Verri», a partire dal 1957, Pontiggia contribuisce alla formazione di quel nuovo gruppo da cui uscirà la neoavanguardia. Come dichiara la Marcheschi, egli se ne allontana perché sente estraneo a sé l’appiattimento della prospettiva sia storica sia umana: «un fare letterario ridotto a una sola dimensione nel nome di un’equivoca ‘attualità’, di una contemporaneità resa intoccabile Assoluto» [11]. Ciò che Pontiggia contesta è l’avanguardia «cristallizzata»: «non l’avanguardia nella vitalità della sua insorgenza storica, ma nella vitalità della sua sopravvivenza ripetitiva» [12].
Osserva attentamente Pontiggia come il linguaggio sia motore universale. E che non solo è uno degli aspetti fondamentali dell’esperienza amorosa, ma che nella vita di tanti uomini è anche «il loro unico momento creativo» [13]. Giuseppe Pontiggia conclude L’equivoco dell’amore romantico citando Thomas Mann:«Eterno è il mondo delle cose che non si possono esprimere, a meno che si esprimano bene» [14]. Per Pontiggia, indagatore dell’animo umano, la scrittura e la lettura sono un mezzo del divenire, sono strumenti che utilizza con ardente spirito etico. Produrre letteratura, scevra da ogni forma di superficiale ostentazione, è una manifestazione profonda della vita culturale che si compie con un forte e deciso senso di responsabilità; è una forma di partecipazione alla vita tout court, che implica sempre una scelta etica.
Assistiamo oggi a un fenomeno di deterioramento e di impoverimento del linguaggio, dovuto anche all’invadenza dei gerghi. «I gerghi sono linguaggi specializzati, che rappresentano una scorciatoia pericolosa per chi vi ricorre. Poggiano sulla premessa che condividiamo certe idee, certe opinioni, certi convincimenti. Ma il gergo è un gatto che si morde la coda, cioè non consente al linguaggio di esplorare, di verificare e collaudare esperienze nuove e diverse» [15]. A ciò si aggiunge un generale impoverimento generato da un vocabolario ristretto e limitato mentre appare necessario, nella vita politica e professionale, fare chiarezza, essere efficaci, cioè dare il nome giusto alle cose, rendersi conto del fatto che la lingua non solo descrive la realtà, ma è anche in grado di crearne di nuove. Di tutto questo e di ciò che vi è coimplicato, Pontiggia si fa carico.
Sebbene nell’attuale società dell’informazione e della comunicazione le occasioni di ricorrere alle parole siano aumentate, secondo Pontiggia non si segnalano particolari progressi rispetto a quelli rilevati nella società ateniese, in cui era stata prodotta la prima riflessione sul linguaggio, ossia la «rettorica». Pare d’uopo chiarire come Pontiggia non sia fautore di una «rettorica» intesa come proliferazione di un linguaggio falsificato, nel senso di contraffatto, cioè tendente alla creazione di frasi a effetto. L’arte oratoria non da intendersi come padronanza delle strategie di persuasione, ma come massima espressione della profondità di pensiero, oltre che un dirigersi completo verso la verità. Una verità di cui «dovrebbe alimentarsi l’esistenza degli uomini» [16].
Infine, una totale svalutazione della «rettorica» impedisce la possibilità di scegliere. E il valore della cultura si basa invece sulla possibilità della scelta. Fare proprio, cioè introiettare il concetto di «mobilità» [17], quella «Felicità di muoversi con leggerezza, con oblio e memoria» verso «l’inatteso» [8] citata ancora nel saggio su Palazzeschi, consente di godere e di vivere nell’intensità del presente e nella fiducia dell’azione.
Se pensiamo a ciò che Piero Gobetti intendeva per «azione», quanto asserito da Pontiggia è ancor più parlante. L’azione era per Gobetti quella capacità di «saper essere uomo ad ogni istante e cioè saper essere un uomo sempre diverso, sempre presente a se stesso». Da qui un riconoscimento del limite che, posto da sé stesso, è punto di partenza: «E il limite lo voglio posto da me istante per istante come voglio, perché voglio» per raggiungere «anche il cielo e le tenebre con umiltà» [19].
Come lo era dunque per Gobetti anche per Pontiggia è importante restare «nel» processo, vale a dire assumere la funzione di guidare sé stessi e gli altri nella comprensione di un percorso che resti sempre aperto alla costruzione del nuovo.
L’articolo Rivoluzione e Ritorno, pure pubblicato nella raccolta Il giardino delle Esperidi, ha l’incipit seguente: «Nella storia delle parole ci attrae il mutamento, ma la continuità è altrettanto misteriosa. Quasi sempre chi le usa non ci pensa: si attiene a un’unica accezione, quella corrente […] Eppure, se c’è una meta che la cultura ha sempre, e fatalmente, perseguito è proprio di distruggere questa illusione, risalendo alle origini, ritrovando i significati che la parola ha acquistato lungo il percorso, per riapprodare infine all’immediatezza». I significati delle parole, pur divergendo nella storia, convergono in una «aerea di decifrazione più complessa, che è l’immaginazione simbolica collettiva». E attratto dalla «misteriosa continuità» della parola evidenzia come il lungo percorso che essa svolge a livello storico, dal passato al presente, non necessariamente può essere colto subito. L’attrattiva delle parole è dunque proprio quella di favorire il viaggio in questi due sensi, verso il nuovo e verso l’antico. Sebbene ci sia precluso lo sdoppiamento tra passato e presente: «È come se nel viso del vecchio si cercasse il bambino» [20]. In breve la parola possiamo pensarla nel passato o nel presente, «ma mai riusciamo a vedere contemporaneamente le due immagini». L’immediatezza di cui parla Pontiggia è un percorso concreto nei significati e nei valori della parola, lo sforzo di muoversi nelle loro divergenze e convergenze.
I vent’anni della morte di Giuseppe Pontiggia coincidono con l’anniversario dei cent’anni della nascita della casa editrice Piero Gobetti editore [21]. Per Gobetti contava la volontà di trovare sé stesso, la propria verità, nell’azione. Un’azione che intende prodigarsi per sé e per gli altri.
La letteratura come valore civile interessa tutta l’opera di Giuseppe Pontiggia, e a noi sembra opportuno disegnare un ponte ideale che lo unisca a Piero Gobetti. Appartiene a entrambi l’esigenza di trovare una «rispondenza» tra la parola e il pensiero da esprimere. «Le parole sono una mitica forza», scriveva Gobetti, «ma perché lo splendore dei suoni sia potenza non deve rimanere gonfia affermazione di astratto simbolo […] esse converse in sostanza umana hanno veramente la forza di muovere la storia» [22].
L’operazione svolta da Pontiggia nel corso dei decenni, per il rigore puntuale a cui ci richiama, per un senso di responsabilità ogni volta maggiore nella scelta della parola, fornisce molti elementi affinché si possa strutturare un discorso carico di contenuti capaci di restituire un valore anche spirituale alla parola Cultura.
Non per nulla, sempre percorrendo un’ideale ricerca della verità, Pontiggia insiste sul tempo dedicato alla lettura vera, che è l’unico bene, solo nostro. «Leggere è un’arte che si acquisisce non meno che quella di scrivere. Cerco di insegnarla, ma nel senso del francese apprendre, che significa contemporaneamente di impararla. È un’arte che non si finisce mai di imparare» [23]. Il tempo della lettura è da intendere non solo come lenta acquisizione di un sapere, ma anche e soprattutto come qualcosa che a nostra insaputa ci cambia, che ha la capacità di spostare il nostro sguardo, che ci modifica. Il libro deve essere goduto, fermandosi quel tempo che basta per acquisire il nuovo, per aprirsi all’ignoto. Oggi «il conosciuto non è più il meraviglioso della tradizione, ma il magico della pubblicità» [24]; al contrario la lettura, che permette di stabilire un legame spirituale con quanto leggiamo di antico e moderno, tende al conosciuto, cioè a ri-conoscere ciò che non sapevamo di sapere.
Ne deriva un senso della lettura come felicità e non come costrizione: «Bisogna per tutta la vita avere qualcosa di analogo a quel ch’è giuoco per ragazzi; qualcosa che ci interessi come una cosa seria a cui dedicare una seria attività, e che nell’istesso tempo ci lasci l’avvertimento che non è nulla di essenzialmente importante» [25].
La vita e la letteratura intese come gioco, come l’infanzia ritrovata da adulti, sono risorse fondamentali per una nuova idea della cultura libera e capace, come Pontiggia del resto era, di scavare un solco nel lettore e di contribuire alla formazione di una coscienza civile. La lettura è per Pontiggia strumento individuale e collettivo di progresso.
Caterina Arcangelo
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII)
NOTE
[1] Giuseppe Pontiggia, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 2004, pp. 555-559.
[2] Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, Milano, Adelphi, 1989, p. 47.
[3] Ibidem.
[4] Giuseppe Pontiggia, Opere, cit., p. 557.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 559.
[7] Cfr. Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Magnano (Bi), Comunità di Bose, Edizioni Qiqajon, 1990.
[8] Daniela Marcheschi, La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia, in Giuseppe Pontiggia, Opere, cit., pp. XII-XIII.
[9] Cfr. Giuseppe Pontiggia, Opere, cit., pp. 535-540.
[10] Ivi, p. 558.
[11] Daniela Marcheschi, La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia, cit., pp. XVI. A tal proposito si legga Giuseppe Pontiggia, Primi scritti sul “verri”, in Daniela Marcheschi, Destino e sorpresa. Per Giuseppe Pontiggia, con i suoi primi scritti sul “verri”, Pistoia, Editrice C.R.T., 2000, pp. 105-154.
[12] Giuseppe Pontiggia,Opere, cit., p. 537.
[13] Giuseppe Pontiggia,Opere, cit., p. 633 (si tratta del saggio L’equivoco dell’amore romantico, anch’esso inseritonella raccolta Il giardino delle Esperidi, in Opere a pp. 633-638).
[14] Ibidem.
[15] Giuseppe Pontiggia, Le parole necessarie. Tecniche della scrittura e utopia della lettura, a cura di Daniela Marcheschi, Bologna, Marietti 1820, 2018, p. 40.
[16] Daniela Marcheschi, La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia, cit., pp. XV- XVI.
[17] Si legga a tal proposito il saggio Leggere pubblicato in L'isola volante, in Giuseppe Pontiggia, Opere, cit., pp. 1329-1336.
[18] Giuseppe Pontiggia,Opere, cit., p. 555.
[19] Ambedue le citazioni sono tratte da Piero Gobetti, L’editore ideale, Manduria - Bari - Roma, Piero Lacaita Editore, 2006, pp. 52-54.
[20] Giuseppe Pontiggia, Rivoluzione e Ritorno, in Opere, cit., p. 728.
[21] Occasione che viene celebrata con una nuova pubblicazione di quei «pochi fogli frammentari», raccolti e proposti nel 1966 da Franco Antonicelli con il titolo L'editore ideale (Milano, all'Insegna del Pesce d'Oro -Vanni Scheiwiller) e che sono il diario postumo, intimo e intellettuale, del giovane Gobetti: cfr. Piero Gobetti, L’editore ideale, a cura di Pietro Polito e Marta Vicari con contributi di Pietro Polito,Marta Vicari, Ersilia Alessandrone Perona, Fano (PU), 2023. Risalta in queste pagine il progetto di Gobetti di «aprirsi alla cultura continentale in un paese civile» e, allo stesso tempo, traspare anche un tentativo di narrazione di sé basata sul rapporto tra storia e autobiografia.
[22] Piero Gobetti, Le parole, in «La Rivoluzione Liberale», anno I, 15, 28 maggio 1922, p. 56 (Nota senza titolo e senza firma), poi in Id., Scritti politici. Opere complete di Piero Gobetti, Vol. I, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1997, p. 366.
[23] Giuseppe Pontiggia, Leggere, in Id., Opere, cit., p. 1334.
[24] Ambedue le citazioni sono tratte dal saggio I piccioni viaggiatori, in Giuseppe Pontiggia, Opere, cit., p. 1318.
[25] In realtà si tratta di una citazione di Giuseppe Rensi (Lettere Spirituali, Milano, Adelphi, 1987) in Giuseppe Pontiggia, Opere, cit., p. 610. |
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