La questione transilvana secondo Cioran

Nella raccolta di interviste pubblicate all’interno del volume Un apolide metafisico (Adelphi, 2004), compare la conversazione intrattenuta da Cioran con il giornalista e storico francese, di origini ungheresi, François Fejtő. Il testo, in realtà, è solo un estratto del dialogo avvenuto tra i due a Parigi, nella primavera del 1992. Di seguito pubblichiamo la traduzione in lingua italiana di quella parte di registrazione audio rimasta fino ad ora inedita. Il testo offre al lettore le riflessioni di Cioran sulla Transilvania, la «mitica» regione natale che l’autore ha per lungo tempo rimpianto durante gli anni di esilio parigino. Prendendo spunto dal collasso dei regimi comunisti dell’Europa orientale, la conversazione tocca temi irrisolti e ancora oggi molto attuali: la difficile convivenza tra romeni e ungheresi; l’esodo dei sassoni dalle città transilvane, da loro fondate nel Medioevo; l’eredità dell’Impero austro-ungarico, quale portatore di una civilizzazione estintasi con la fine del primo conflitto mondiale; la complessità e l’alterità, infine, della Transilvania rispetto alle mire centraliste del governo di Bucarest. .


13 aprile 1992
Mansarda di Rue de l’Odéon, 21

Vorrei sottolineare il fatto che l’intervista ha avuto luogo a casa sua (di Cioran, ndr), e non in uno studio. Per render chiaro il senso della sua prima frase, occorre precisare che – in modo da suscitare il suo interesse – gli ho parlato nuovamente di mio padre, il quale nel 1916, soldato nell’armata ungherese, aveva assistito all’incoronamento del successore di Franz Joseph, imperatore d’Austria e re d’Ungheria. Ci fu una cerimonia a Vienna e successivamente un’altra a Budapest. Sentendo l’Austria-Ungheria già il vento della sconfitta, la comparsa del piccolo principe incoronato – figlio di Carlo I – fu particolarmente emozionante. Il piccolo principe era Otto d’Asburgo, vestito all’età di cinque o sei anni in uniforme da ussaro. All’inizio della nostra conversazione ho raccontato a Cioran che, nel momento in cui apparve il fanciullo, tutti gli ungheresi si misero a piangere.

E.C.: Il pianto è lo svago dell’ungherese. I miei genitori conoscevano alla perfezione la lingua ungherese. Venivano dalla Transilvania, nelle vicinanze di Sibiu, Nagyszeben, se le dice qualcosa il nome. Mio padre era prete e fece tutti i suoi studi in ungherese. Era all’epoca dell’Impero austro-ungarico, prima della guerra del 1914. Entrambi i miei genitori conoscevano perfettamente l’ungherese.
F.F.: Ma lei no.
E.C.: No, perché avevo quattro anni quando è nata la Grande Romania (Româniă Mare). Ma conosco molto bene questi problemi grazie a mio padre. All’inizio è stato prete in un paese vicino a Nagyszeben, ma successivamente è divenuto sacerdote della città di Nagyszeben.
F.F.: Mi hanno colpito alcune cose raccontatemi da mio padre sulla Transilvania, di come vivevano queste due comunità. Era un qualcosa di veramente singolare. Mi ha riferito che, nel suo villaggio, il gioco preferito dai giovani era spogliare un vicino romeno che si trovasse a passare di lì e lasciarlo in calzoni. Era una coesistenza veramente curiosa. Se pensiamo che gli eventi recenti occorsi in Romania hanno avuto origine in queste località (Târgu Mureş) …
E.C.: Si, in parte.
F.F.: … è qualche cosa di strano.
E.C.: La Romania e’ un’accozzaglia tremenda. È molto difficile trovare una formula per normalizzare le cose. Conosco molto bene i problemi della Transilvania perché vengo da lì. È una questione quasi irrisolvibile. Sono due comunità che si detestano. Una cosa troppo stupida, idiota. Sarebbe stato utile trovare una formula, capisce? Occorre però dire che gli ungheresi disprezzavano profondamente i romeni. Un disprezzo assoluto, e questo rendeva i problemi più gravi.
F.F.: È probabilmente a causa di questo disprezzo che sotto Ceauşescu, ad esempio, la realtà è stata così dura per gli ungheresi di Transilvania.
E.C.: Si, ma Ceauşescu era comunque un tipo disprezzabile. Non ci si poteva aspettare nulla da lui. I romeni lo detestavano. In passato però i romeni erano considerati un popolo di terz’ordine. Nonostante ciò, gli ungheresi venivano apprezzati. Si diceva ad esempio: sono più onesti di noi, ecc. È molto complicato. Ho sentito queste cose dai miei genitori.
F.F.: Lei stesso ha scritto: «Odiare significa odiare l’ungherese» , ma allo stesso tempo testimonia di un’ammirazione.
E.C.: No, senz’altro. È un problema incredibilmente complesso. Non sono certo gli americani che lo potranno risolvere. C’è bisogno di qualcuno che conosca veramente le cose, che riesca a trovare una formula. In fondo i romeni sono molto sfortunati. Occorrerebbe un uomo politico straordinario, il quale possa trovare una soluzione. È assolutamente necessario venir fuori da questa impasse.
F.F.: Ha l’impressione che le persone giunte al potere dopo Ceauşescu considerino il problema come prioritario, come qualcosa di importante da risolvere?
E.C: Penso di si, ma questa gente è malvista. Per il modo in cui hanno preso il potere. Là c’è qualche cosa che non va. Costoro però non sono affatto anti-ungheresi.
F.F.: È importante.
E.C.: Ma sono impopolari per altre ragioni, poiché quello che hanno fatto è assolutamente incredibile … per come sono giunti al potere.
F.F: Non crede comunque che queste persone abbiano la capacità di risolvere un problema del genere?
E.C.: No. In questo momento sono detestati in Romania. Occorrono persone ragionevoli, che possano venire apprezzate. Servono due o tre uomini politici di valore che i romeni siano in grado di accettare. Dovrebbe trattarsi di un politico popolare, il quale spieghi che il corso delle cose debba essere cambiato completamente. E si potrebbe trovare.
F.F.: In casi del genere, in un paese in subbuglio, si osserva il fenomeno del ritorno degli espatriati, come se costoro potessero riuscire in qualche cosa che gli altri non possono fare. Ma hanno realmente le capacità necessarie per risolvere questo tipo di problemi?
E.C.: Esattamente. Vede, ho lasciato la Romania 50 anni fa e non ci sono mai ritornato. Neanche adesso lo farei. Tutti avvertono un malcontento profondo là e sentono la necessità di trovare delle soluzioni, ma non si intravede chi sia in grado di farlo. Le persone ragionevoli sanno che le cose non possono andare avanti così. Tutto dipende dalla comparsa o meno di un uomo politico. Perché si tratta di un malcontento profondo, di una disperazione reale tra la gente, ed è necessario che venga fuori qualcuno. Ho detto a tutti i romeni incontrati che è necessario risolvere questo problema. Bisogna raggiungere un accordo con gli ungheresi. Diversamente non è possibile.
F.F.: È una delle cose più importanti per la Romania?
E.C.: Assolutamente. Non è con frasi nazionaliste che si risolvono le cose, è grottesco. Bisogna guardare la realtà in faccia, è evidente. Perché imporre agli ungheresi la lingua romena? Non ha senso. Perché? Non ne traggono alcun beneficio da tutto ciò. Serve una forma di semi-indipendenza.
F.F.: Vuole dire una sorta di semi-indipendenza per la Transilvania, oppure solo per la parte …? Come fare?
E.C.: No. Senta, esiste il modello svizzero, giusto?
F.F.: Sì. Ma in questo momento è un sogno. In quasi tutta l’Europa le cose peggiorano, pensi ad esempio a quello che sta accadendo in Iugoslavia.
E.C.: È molto grave.
F.F.: Era una sorta di federazione.
E.C.: Si, per questo occorre un grande uomo politico che non possa essere accusato di tradimento. Qualcuno veramente capace, che venga dalla Transilvania e non da Bucarest. Altrimenti il malcontento si acuirà e ciò può essere pericoloso.

F.F.: Il termine di «Europa centrale» è purtroppo quasi scomparso dai vocabolari, spingendo così tutti quei paesi verso Est. L’Ungheria non appartiene all’Est, bensì all’Europa centrale. Questa Europa, la cui varietà corrisponde a un gran numero di personalità letterarie e culturali, è oggi allo stesso tempo la fonte dei più volgari conflitti, se così possiamo dire.
E.C.: Si torna ai vecchi problemi che credevamo superati. Si ha l’impressione che niente sia stato risolto.
F.F.: Si.
E.C.: È una specie di vuoto. È molto grave e la gente è veramente scontenta. Non mi vedo con molti romeni, ma quelle volte che ne incontro qualcuno, più o meno tutti se ne vogliono andare. Non sanno cosa fare, si sentono perduti. È impressionante.
F.F.: Non crede che una delle cose più terribili sia la percezione, tanto per i romeni quanto per molti popoli dell’Europa centrale, che la libertà non basti? Voglio dire: realizzare di non essere più uno stato satellite dell’Unione Sovietica sembra non bastare.
E.C.: Apparentemente tutto è cambiato, ma in realtà nulla lo è. Dopo il primo entusiasmo è subentrata la disillusione e l’impossibilità di trovare delle soluzioni. Ci si domanda quale corso debbano prendere le cose, che fare per raggiungere un accordo possibile. Tutte le risposte si trovano là. Cercare una formula e far comprendere a questi popoli che è innanzitutto necessario superare il nazionalismo. È fondamentale. Ma se restiamo così, come se la storia non fosse cambiata… bisogna capire che il nazionalismo deve essere superato. È assolutamente indispensabile. Se ci sarà un’Europa, questa è la condizione primaria. Se tra i romeni e gli ungheresi, ad esempio, fosse esistito un contatto diretto, sarebbe già stato risolto un problema essenziale, invece di tornare alle vecchie forme di nazionalismo, che nella nostra epoca appaiono intollerabili. È pur vero che la Francia non conosce questo tipo di problemi. Della Germania non sappiamo che tipo di ruolo avrà in futuro. La Germania era molto più in grado di capire queste problematiche, ma si parla della Germania di un tempo. Non sappiamo se i tedeschi vogliano giocare un ruolo importante in Europa, o se si tratti soltanto di una questione economica. Se la Germania, che per tradizione conosceva questi problemi… Le do un esempio: in Transilvania viveva un’importante minoranza tedesca. Era una cosa molto positiva per la Romania, perché costoro (i sassoni di Transilvania, ndr) portavano avanti il sistema di una volta ed erano in buoni rapporti con gli ungheresi, un fattore già molto rilevante. Questi tedeschi hanno abbandonato la Transilvania, sono praticamente spariti. Quando ho capito che si trattava di un esodo, ho pensato: è molto grave. Questa gente avrebbe potuto svolgere un ruolo importante, perché erano obiettivi. Avevano delle buone relazioni con gli ungheresi e avrebbero potuto…
F.F.: Sarebbero potuti essere la terza parte propizia alla mutua comprensione.
E.C.: Esattamente. Sarebbero stati degli intermediari. Essendo originario di Hermannstadt, conosco molto bene questo problema. Quando ho visto che se ne andavano dalla Romania, ho detto: è una catastrofe. E lo hanno fatto a malincuore, poiché là si trovavano abbastanza bene, vivevano in città e villaggi meravigliosi. Loro avrebbero potuto giocare questo ruolo. È una perdita. Quando ho visto che abbandonavano la Romania, ho pensato che ciò avrebbe portato con sé delle conseguenze funeste. Appartenevano al vecchio Impero, capisce. Non avevano affatto la prospettiva dei romeni. Però i romeni riconoscevano loro una certa obiettività, e si sarebbe potuto risolvere tutto. A condizione che giocassero un ruolo importante, non come semplice minoranza. In questo Ceauşescu è stato un personaggio funesto. Ha distrutto la Romania, moralmente e da tutti i punti di vista. Per colpa sua i tedeschi se ne sono andati. Essendo di Hermannstadt conosco molto bene le cose. Ero l’unico romeno che andava alla biblioteca di Hermannstadt, per prendere dei libri. Mi sono formato lì.
F.F.: La biblioteca tedesca?
E.C.: Si. Ci andavo sempre, era la mia biblioteca.
F.F.: È là che ha studiato i filosofi tedeschi?
E.C.: Certo, all’inizio. Conosco dunque anche il punto di vista tedesco. Questa gente ha abbandonato i propri luoghi, è una cosa assolutamente folle. Credo che ne restino ancora 20.000 in tutto.
F.F.: Lei è molto severo con l’Europa occidentale, imputandole di non sapere nulla di questi problemi. Probabilmente ha ragione. Esiste ad ogni modo il sentimento, qui in Occidente, di ritrovare un’Europa che si credeva perduta, non le pare? Questo sentimento, nato con la caduta del muro di Berlino, come dire: Ecco, ritroveremo l’Europa di una volta, che tornerà come in una specie di carosello della storia. Ma ora l’Europa che ci troviamo dinanzi non mostra affatto una forma brillante.
E.C.: Per nulla. È molto grave, si potrebbe andare verso il peggio.
F.F.: Ma questo non rischia d’impedire all’Europa ricca di dare l’aiuto necessario all’Europa più povera, affinché le cose divengano un po’ più semplici.
E.C.: Si. Però l’Occidente propriamente detto non conosce questi problemi. Con le teorie di tipo Mitterand… non è sufficiente avere delle idee generose. Potrebbero eventualmente servire da intermediari. I francesi non conoscono affatto quel mondo. Non sanno cosa è stato l’Impero austro-ungarico. Se si ignora questo, non si capisce nulla. Era un mondo intero, una civilizzazione. Anche in Romania esiste questo delicato problema. I romeni di Transilvania ne sono a conoscenza, ma gli altri no. La gente di Bucarest non conosceva che Parigi.


A cura e traduzione di Francesco Testa
Intervista disponibile nell'audio originale cliccando qui

[1] Fejtő si riferisce probabilmente ad un passaggio contenuto nella Lettera ad un amico lontano, in cui Cioran, rivolgendosi al filosofo romeno Constantin Noica, scrive: «Nato al di là dei Carpazi, tu non potevi conoscere il gendarme ungherese, terrore della mia infanzia transilvana. Quando da lontano ne scorgevo uno, ero preso dal panico e mi mettevo a fuggire: era lo straniero, il nemico; odiare, significava odiarlo», cfr. Storia e utopia, Adelphi, Milano, 1998, pp. 17-18. (NdR).

(gennaio 2017, anno VII)