Dar voce al dolore senza nome: le «Divagazioni» di Emil Cioran

L’editrice Lindau di Torino ha appena pubblicato il volume di Emil Cioran Divagazioni, nella traduzione dal romeno a cura di Horia Corneliu Cicortaș e prefazione di Constantin Zaharia. Uscito per la prima volta nel 2012 presso la Humanitas di Bucarest con il titolo Razne, questo libro costituisce per molti versi – come segnala Cicortaș nella premessa all’edizione italiana – «uno spartiacque nella produzione letteraria di Cioran» ed esce per la prima volta in traduzione. Pubblichiamo la prefazione di Constantin Zaharia.

Ecco un nuovo libro scritto da Cioran in lingua romena, verso la fine dell’ultima guerra mondiale (1). In mancanza di precisazioni che consentano una datazione esatta, si può supporre che il manoscritto sia stato redatto tra 1945 e 1946. Opera imperfetta, potremmo dire, se consideriamo l’ammassarsi di pensieri – cupi, pessimisti, amari – raccolti in un coacervo desolante, in un insieme arbitrario, senza linee di forza che lo strutturino in profondità e in superficie. Da qui anche il titolo del volume: che altro sono, infatti, queste Divagazioni se non evasioni da strade battute, deviazioni dalle norme del cammino naturale, smarrimenti a scapito delle forme letterarie e della ricerca filosofica?
Tutto, a cominciare dal dizionario, avvalora una simile accezione del titolo. Se a o lua razna significa «avviarsi a caso, senza meta» o peggio ancora «prendere una strada sbagliata» (vocabolario DEX della lingua romena) o addirittura, nella lingua contemporanea, «fare o dire cose a vanvera», mentre raznă, termine raramente utilizzato, è sinonimo di «dispersione» o «digressione», allora nulla ci vieta di vedere in questa raccolta un florilegio di divagazioni, di smarrimenti o, persino, di elucubrazioni, il tutto all’insegna di un disordine dominante. Cioran ha cercato per questo libro un titolo che colpisse, promuovendo l’avverbio (razna) alla dignità di sostantivo (raznă). Non ha inventato nulla, si potrebbe dire a prima vista, ma ha dato nome a tentativi incompatibili con qualsivoglia idea positiva di letteratura e filosofia. È come se l’autore avesse voluto segnalare, una volta in più, di essersene separato, giacché dar forma letteraria o filosofica all’orrore non avrebbe alcun senso: non si può fare cultura a scapito della sofferenza vissuta giorno per giorno e notte dopo notte.
«Noi diamo voce solo ai dolori senza nome» sono le prime parole di questo libro. Esse hanno valore di esordio, benché si presterebbero bene anche al ruolo di un epitaffio. Annunciano programmaticamente un obiettivo difficile da raggiungere e circoscrivere in una forma estetica o culturale. Il legame tra parola e sofferenza ritorna ossessivamente nelle pagine di questo testo, non per dire che i dolori senza nome ne prenderanno uno ma, al contrario, per denunciare l’assurdità di un tentativo del genere:

«Getterò le mie parole nello spazio, affinché nel loro errare caotico nessuno possa più raccoglierle in un significato; così che finisca per sempre lo sforzo di sconfiggere l’enorme stupore o di alleggerire il gemito dello spirito sbalordito nelle distese inconsolabili, e nessuna mente possa mai più radunare il vocabolario scaraventato nel vuoto per trovare ancora un nome alle cose del mondo e un nome al mondo stesso, e che tutto ritorni al tempo in cui nessuna parola limitava nessuna creatura, che tutto ritorni all’indicibile generale in cui giacevo, quando non mi ero ancora incamminato verso l’inutile superbia della parola» (p. 64).

Questa è la risposta di Cioran alla serie di domande che lo assillano e che gli confermano l’inutilità di ogni gesto culturale. Che sia una pura coincidenza il fatto che nel primo libro uscito in francese, Précis de decomposition, pubblicato nel 1949, ma scritto in una prima versione (che portava il titolo Exercices négatifs) già dal 1946, abbondino i passi in cui l’autore denuncia l’insufficienza del linguaggio e l’inutilità della filosofia? Niente affatto, visto che vi è almeno una recidiva, sotto forma di conclusione di una serie di sentenze ironiche nel loro susseguirsi, in fondo destinate ad alleggerire il calvario dell’esistenza: «Spingere il filosofare fino all’ultimo vocabolo, all’ultima parola dell’inefficacia e del ridicolo» (p. 101). Scrivere in questo modo, affermando l’inutilità del linguaggio e il lato derisorio del pensiero, adottando un atteggiamento beffardo sul piano delle lettere e della filosofia, non è soltanto una conferma del titolo scelto da Cioran per il suo libro, ma anche una testimonianza del fatto che se ne è distaccato, della necessità di trovare altre vie per formulare in modo diverso l’orrore dell’esistenza.
La prima di tali vie sarebbe la concisione. Da sempre, Cioran è stato tentato dall’espressione aforistica, e la scrittura frammentaria, presente già nel suo libro d’esordio, sarebbe diventata in seguito uno dei campi prediletti di riflessione. «Una giornata in cui non ho formulato definizioni è svanita senza rimedio» (p. 39), dice Cioran. Similmente, i pensieri dovrebbero avere «la concisione fatale del lampo» (p. 31). Certamente, la filosofia o l’esercizio confortevole delle belle lettere non potrebbe esprimerli. Da qui ne consegue la dimensione duplice del frammento, che da un lato è situato ai confini del silenzio, cioè dell’inazione e della singolarità, mentre dall’altro può dischiudere la via all’estasi, il doppio intensivo del silenzio che comprende la conoscenza nella sua totalità, rivelata tramite esercizio mistico o tramite accidente, ma in nessun modo tramite il discorso sistematico-analitico, articolato secondo le regole della grammatica e della retorica.
La seconda via è un cambio di registro linguistico. Divagazioni rappresentano probabilmente il libro-cerniera, l’orlo di un precipizio che Cioran ha superato felicemente posando il piede oltre, su un terreno che si dimostrerà fertile per la sua condizione di scrittore. Il passaggio dal romeno al francese, perché di questo si tratta, non è qui annunciato in maniera altisonante, ma lo è certamente in modo discreto. Una serie di costruzioni e forme della frase rivelano in modo evidente l’influenza della lingua francese. A circa trentacinque anni, Cioran inizia a esitare nel trovare la formula più felice per dare vita ai propri pensieri. Si avverte che la punta della penna stilografica vorrebbe scivolare verso un’altra lingua. Come dire, l’episodio Mallarmé a Dieppe non è lontano.
Eppure, questa trasgressione delle barriere linguistiche apprestata ora, non si produrrà così repentinamente come ci si può immaginare. Cioran aveva pubblicato due articoli in francese già nel 1943, Mihail Eminesco e Le «dor» ou la nostalgie, entrambi sulla rivista «Comoedia». Allo stesso tempo, dopo l’accettazione del Sommario di scomposizione da parte dell’editrice Gallimard, egli continua a pubblicare in romeno (sotto pseudonimo) alcuni testi dai titoli Fragmente e Razne, che escono nei primi numeri della rivista «Luceafărul», edita dall’emigrazione romena parigina, nel 1948 e 1949. La rottura, di cui Cioran parla nelle interviste, si rivela meno radicale di quanto faccia credere, e lo spettro della lingua romena lo seguirà sempre, coniugandosi perfettamente con i timori provocati dalla grammatica e dalle regole di una lingua fatta per esprimere, apparentemente, in maniera geometrica sfumature indefinibili, sulla scia di Descartes.
Ritorniamo, però, alle Divagazioni. Cosa ci dice Cioran in questo libro? Nulla di nuovo, a prima vista, giacché non emergono differenze importanti, rispetto alle idee dei libri anteriori. Finanche la tonalità sembra essere la stessa, seppure solo fino a un certo punto. In altre parole, vi si dice che il mondo nella sua essenza è assurdo e il tumulto che lo agita non porta i segni di alcun senso. Il movimento non è evoluzione, e l’uomo, se compie uno sforzo di lucidità, scoprirà quanto sia arbitraria la sua presenza nel bel mezzo degli eventi che egli stesso ha scatenato, privi però di orientamento e di compimento. Quel che immagina sia creazione lo spinge, in realtà, verso la distruzione, verso il punto di convergenza degli spaventi e delle sofferenze che lo hanno generato e che lo incoraggiano a discendere sullo stesso versante. E, se per miracolo, tutto si ferma, sopraggiungono la noia, la malinconia, la solitudine e la disperazione. Egli porge l’orecchio al silenzio assoluto che avvolge l’universo e scopre così il vuoto, quell’enorme baratro in cui la materia rarefatta non ha alcuna giustificazione, come del resto nemmeno la vita, manifestazione improbabile dello stesso principio del non essere. Giacché, qualsiasi cosa si dica, l’essere non è che parvenza: «Quando, con un setaccio ideale, separiamo l’esistenza da tutto quel che è, l’ultima tappa della regressione ci consente di concepire il nulla. Come mai avviene che, giunti a questo punto, indefinibile nel campo della ragione e immemore, non siamo più in grado d’immaginare l’esistenza? La creazione del mondo è inconcepibile; e così la sua eternità» (p. 52). Sfiancato da ciò che vede e sente, lo spirito si dissocia dal mondo, rinunciando alla propria funzione essenziale, che consiste nel trovare una giustificazione all’universo e all’esistenza. Non c’è nulla da fare, ci dice Cioran con un tono che è quello dell’abdicazione definitiva, tutto è perduto.
Occorre osservare che, a differenza dei libri precedenti, in cui si lasciava prendere da un entusiasmo solidale con la filosofia, o era affascinato dalla formula lirica sottilmente intrecciata con l’espressione aforistica, Cioran sembra scegliere qui una nuova via, meno spettacolare e, da questo punto di vista, meno eccentrica. La frenesia di Al culmine della disperazione (2) e il tono poetico del Breviario dei vinti sono ormai abbandonati e rimpiazzati da un dire malinconico, monocorde e dimissionario, da parte di colui che non intravede più nessuna soluzione all’«ineffabile» dell’esistenza. Siamo tutti destinati allo stesso esito, afferma chi ha perso ogni illusione su di sé e su… tutto il resto, ivi compresi Dio, l’universo, la società, la cultura, la nazione ecc. Solo l’io sopravvive tra questi rimasugli inutili di ciò che un tempo poteva ancora apportare una vaga speranza, e Cioran riesce ancora a restare stupito di fronte alla testardaggine di quest’ultimo a permanere:

«… che cosa ci spinge a girare attorno a noi stessi, trasformando gli stati fluttuanti della cosiddetta anima nella materia stessa di tutto quel che è? Il mistero dell’io è più schiacciante di tutte le oscurità e più insondabile di tutto ciò che la teologia ha escogitato sul piano dell’insolubile. La mente ci dice che l’io è nulla, e invece quest’io ci risponde – come? lo ignoriamo – ch’egli è tutto» (p. 52).

Diversamente, esiste la soluzione radicale del suicidio, evocata più volte nelle pagine di questo libro. Non dimentichiamoci che il malinconico è tentato dal suicidio, anche se non vi ricorre. Per Cioran, esso è la possibilità, naturalmente l’ultima, della libertà:

«Tutto il carico amaro dell’esistenza svanisce davanti al pensiero che possiamo arrestarlo in qualsiasi momento, che custodiamo dentro di noi l’immensa libertà della nostra assenza e che possiamo riscattare la nostra caduta in dolori sterili o nella banalità, grazie alla genialità negativa del suicidio» (p. 102).

Ciò nonostante, è una soluzione estrema che il recente disertore delle lettere e della filosofia non metterà mai in pratica, pur essendo attraversato dal pensiero di poter porre fine ai propri giorni. Ad ogni modo, essa resta «il pozzo sprangato su cui geme la nostra sete» (p. 107).
Di conseguenza, non sorprende se l’universo tematico di Divagazioni comprenda la gamma di sentimenti specifici della malinconia: la tristezza innanzitutto, ma anche il sentimento greve della morte, la nostalgia, il tempo e il suo corollario negativo, la noia – sono assi che reggono la struttura del medesimo discorso descritto poco prima. Come sempre, Cioran trova anche in questo registro l’occasione di proporre formule memorabili, sorprendenti per i cortocircuiti retorici dell’espressione aforistica: «La morte è un mistero esatto; solo gli spaventi a essa ispirati sono vaghi» (p. 104). Oppure, questa presa di distanza dagli ideali condivisi non molto tempo prima: «La nazione è la forma assunta dal peccato originale, con il sostegno della polizia» (p. 88).
È chiaro che ritroviamo qui gran parte delle prese di posizione di Cioran note già dal suo primo libro. Tuttavia, in questo volume c’è qualcosa in più, un’aggiunta che prefigura una risposta alle domande che ciascuno dei suoi lettori si pone: qual è l’origine delle sofferenze che Cioran ha trasformato in una magistrale non-filosofia e in una stupefacente non letteratura? Da dove proviene la sua malinconia, talvolta virulenta, altre volte, più profonda e torbida delle acque morte delle fiabe? Come può essere spiegata la sua ambivalenza nei confronti della fede e di Dio, di volta in volta, l’una come l’altro, ricusati e riconosciuti? Tutto quel che è paradossale in Cioran si raccoglie in questo punto centrale, difficile da definire e da razionalizzare.
Per poter abbozzare una risposta senza abbandonare l’orizzonte affettivo della malinconia, prendiamo in esame questo frammento: «La tristezza è il risuonare agrodolce e infinitamente prolungato di una ribellione defunta, l’eco di un sogno doloroso nato sulle rovine di ogni protesta» (p. 30). Strana, questa messa in relazione della tristezza con la «ribellione». Cioran la spiega col fallimento della «protesta». Ma di che genere di protesta si tratta? Fortunatamente, diversi passi delle Divagazioni rinviano a questo motivo. Eccone uno, che ci sembra esemplare:

«Avere un’anima incline alle ribellioni; odiare convulsamente le ingiustizie sotto il sole; sconvolgersi sotto il fiato bestiale dei propri simili; essere accoltellati dal ghigno assassinio della creatura e maledire il Creato, solidificazione troppo visibile dell’idea di ingiustizia; […] e, in virtù di un residuo di filosofia e degli insegnamenti dell’esperienza, non poter fare nulla, rinunciare alla rivolta, capitolare nell’inconsolabile e nelle consolazioni vane» (p. 80).

Si tratta, qui, di un’ingiustizia fondamentale, legata all’atto primordiale della Creazione: fin da principio, il mondo è stato costituito in malo modo. E a questa genesi raffazzonata, l’uomo non ha nulla da dire, né da aggiungere. La rivolta è inutile, giacché egli non può essere reintegrato nell’ordine che dapprincipio gli era stato riservato. Egli non avrebbe mai dovuto conoscere la morte, esser inseguito da lei, raggiunto dalla sofferenza della propria sparizione. Quei pochi commenti che Cioran fa in margine di Genesi (soprattutto nelle interviste rilasciate) contengono spesso una precisazione: si tratta dell’episodio biblico che spiega meglio di tutti la condizione umana: per lui, il peccato originale è un’immagine mitologica, non il contenuto di un atto di fede. La posizione ambigua, di negazione e accettazione del cristianesimo, può essere spiegata con quest’oscillazione perpetua tra un mito delle origini e un’estraneità all’orizzonte religioso, che egli non può tollerare.
Di conseguenza, non c’è più nulla da fare. Tutto è perduto. In siffatte condizioni, non si può più fare filosofia, né letteratura. Punto finale.
Punto finale per la carriera di scrittore romeno. Perché qualcosa avviene a cavallo degli anni 1945-1946: Cioran si trova a Dieppe, cerca di tradurre, in romeno, alcuni poemi di Mallarmé, e si rende conto della futilità di questa impresa. La conclusione s’impone da sé: d’ora in poi scriverà solo in francese. Il resto è risaputo. Incomincia per lui una nuova carriera, con cui svanirà anche il sentimento di inutilità predominante nelle Divagazioni, per far posto ad altri concetti che provocano in lui insospettabili energie: scomposizione, amarezze, squartamenti, anatemi e una congerie di altri inconvenienti.


Constantin Zaharia

[1] Il curatore dell’edizione romena originale (2012), che ha lavorato direttamente sui manoscritti di Cioran custoditi presso la Biblioteca letteraria Jacques Doucet di Parigi, aveva pubblicato nel 2011 altri due testi di Cioran, appartenenti alla stessa «famiglia» spirituale, scritti ancora in romeno, nei primi anni ’40, e rimasti a lungo inediti; si tratta di Despre Franța e Îndreptar pătimaș II, entrambi tradotti e pubblicati dapprima in Francia e poi in Italia, per i tipi delle edizioni Voland di Roma (Sulla Francia, traduzione e cura di Giovanni Rotiroti, 2014 e Breviario dei vinti II, traduzione e cura di Cristina Fantechi). [N.d.C.]
[2] Pe culmile disperării, primo libro di Cioran, pubblicato nel 1934 (ed. it.: E.M. Cioran, Al culmine della disperazione, trad. di Fulvio Del Fabbrio e Cristina Fantechi, Adelphi, Milano, 1998. [N.d.C.]
[3] Il libro di aforismi Îndreptar pătimaș [Breviario appassionato], iniziato nel 1940 e finito nel 1945, rimase inedito fino al 1991, quando fu pubblicato da Humanitas. Una versione in francese, firmata da Alain Paruit, è uscita presso Gallimard col titolo Bréviaire des vaincus. Il libro è tutt’ora inedito in italiano, a differenza del Breviario dei vinti II (vedi supra, nota 1). [N.d.C.]


(novembre 2016)