Romania: I Padri Fondatori (V). Nicolae Iorga

Ha scritto più di 1.000 libri, e circa 23.000 fra studi, recensioni e articoli; le sue pubblicazioni potrebbero riempire un’intera biblioteca. A sei anni leggeva le Cronache di Moldavia, e i romanzi francesi in lingua originale; a tredici pubblicava articoli sul Romanul, giornale di cui era direttore uno zio materno; a vent’anni conosceva una decina di lingue, fra le quali il greco antico, l’ungherese e il russo.  Parliamo di uno dei massimi intelletti della storia romena (e non solo), Nicolae Iorga.
Iorga nasce a Botoșani il 17 giugno 1871. Ha un’infanzia segnata da ristrettezze economiche (perde il padre a soli quattro anni), ma la straordinaria predisposizione agli studi lo colma di tesori che acquisisce con stupefacente facilità. A vent’anni è già addottorato in Lettere a Iași, diplomato all’ École des Hautes Études di Parigi e laureato in filosofia a Lipsia. Intanto, ha iniziato l’immane lavoro di ricerca, esteso ai principali archivi europei, che fornirà le basi delle centinaia di opere storiche che portano la sua firma.
Nel 1891, per opporsi alle politiche di magiarizzazione dei romeni di Transilvania attuate dal governo ungherese, era stata creata la Lega per l’unità culturale dei romeni. Diventatone segretario nel 1907, Iorga fondò a Vălenii de Munte (uno dei centri principali dell’Associazione) la tipografia Datina Românească; nella cittadina, sua residenza estiva, iniziò a tenere dei corsi frequentati cui affluivano romeni provenienti da ogni angolo del Paese.
La storia umana ha registrato uomini di genio riservati, quasi riluttanti alla manifestazione del loro talento; Iorga è l’esempio opposto. Le sue azioni sono sempre imperiose ed eclatanti; tutto ciò che tocca acquista vigore, luce, visibilità, e si incanala nei vasi sanguigni della cultura romena.
Quando comincia a scrivere per Semănătorul – la rivista letteraria nata nel 1901 per iniziativa di Spiru Haret, Alexandru Vlahuța e Gheorghe Coșbuc – la sua forza creativa si propaga a tutti i seminatoristi, e la pubblicazione diventa la voce possente di un programma che mira a uno scopo chiaro e ambizioso: la valorizzazione della storia patria e la creazione di una cultura nazionale.
Iorga non è il primo intellettuale romeno a esprimere certe idee e indicare certi traguardi; ma più di altri è esemplarmente deciso nel tracciare il cammino. I brani che riportiamo, comparsi su Semănătorul, illustrano perfettamente le linee guida del suo pensiero:
«Conoscendo ciò che siamo, sentendoci romeni… vogliamo, nel più stretto legame con ciò che è stato sano nel passato, costruire con mezzi romeni una civiltà romena per tutti i romeni».
«Quello che dobbiamo fare, prima di tutto, è la purificazione, il completamento, l’avanzamento e specialmente la diffusione della nostra cultura. Abbiamo uno Stato nazionale senza una cultura nazionale, anzi con una vernice straniera: francese. (…) Desideriamo vederci uniti e non ci conosciamo nemmeno. Ci occorre l’unione di tutti, dall’alto al basso, da una frontiera all’altra della Romania, una cultura che sia nostra, libri sulle cui righe ispirate cadano ugualmente le lacrime della nobile, ricca signora e della contadina».
Le esortazioni di Iorga otterranno il loro scopo: la valorizzazione delle glorie del passato, del mondo contadino quale base etnica della stirpe, di una letteratura attenta alla moralità e alla vita autoctona, tutto ciò condurrà, nel primo decennio del Novecento, a un fermento culturale senza precedenti nella storia romena. Semănătorul è la prima rivista letteraria a poter contare sulla collaborazione di scrittori di ogni regione della Romania, e la sua diffusione supera i confini nazionali.
Parlando di Iorga, non si deve mai dimenticare che l’impegno per la crescita culturale della Nazione era inteso anche e soprattutto in funzione dell’unione politica. Pur volendo inserire la storia e i valori romeni nell’ambito della cultura europea, egli rimarrà sempre un convinto nazionalista.
(È opportuna, qui, una precisazione. Bisogna smetterla di coniugare il sostantivo «nazionalismo» in termini negativi. Non esiste Nazione europea che non sia stata fondata sul nazionalismo dei suoi Padri Fondatori. Il nazionalismo è da condannare quando assume connotati fanatici e xenofobi, quando falsifica la storia e la realtà di un’entità etnica e geopolitica per affermarne l’unicità e la superiorità. Come ha sottolineato di recente lo storico israeliano Yuval Noah Harari, il nazionalismo ha significato, nella storia umana, l’abbandono di tribalismi e di frammentazioni sociali e culturali, favorendo la collaborazione e la crescita di milioni di individui riuniti e disciplinati da uno Stato, da norme giuridiche e sociali).
Plasmato in un’atmosfera prettamente culturale, Iorga, alla pari di altri Padri Fondatori della Romania, comprende che deve scendere nell’agone politico in prima persona. La sua azione, in questo ambito, è complessa e discussa, e non andremo oltre gli esiti principali. Eletto deputato per la prima volta nel 1907, tre anni dopo, insieme a Ion Alexandru Cuza, fonda il Partito Nazionale Democratico, il cui programma prevede il suffragio universale e una riforma agraria favorevole al mondo contadino. Durante la Prima guerra mondiale, nel momento più difficile e doloroso per la Romania (l’inverno 1916-17) Iorga pronuncia dinanzi al Parlamento riparato a Iași una memorabile orazione politica, rifacendosi alle parole pronunciate dall’esilio dal principe moldavo Petru Rareș: «Saremo quello che siamo stati, e molto più di questo!»
A guerra finita, Iorga presiede l’Assemblea che il 1° dicembre 1918 proclama l’unione nazionale di tutti i romeni. La sua carriera politica tocca l’apice nell’aprile 1931, quando viene eletto Primo Ministro per espressa decisione del re Carol II. In tale veste, Iorga vara iniziative moderne e lungimiranti, come per esempio l’istituzione di un Ministero per le minoranze; tuttavia, incappa anche in alcune discutibili decisioni. Infatti, quasi abdicando allo spirito critico che lo contraddistingue, si mostra troppo accondiscendente verso il sovrano; non rinnova, ad esempio, il trattato con l’Italia del settembre 1926, ed entra in dissidio con i governanti della Nazione amica da sempre, la Francia. L’incapacità di far fronte alla grave situazione economica della Romania assesta al suo governo il colpo di grazia; Iorga è costretto a dimettersi nel maggio 1932.
Un uomo della tempra di Iorga non poteva uscire a testa china da uno scenario così importante; nella celebre O viață de om așa cum a fost, pubblicata nel 1934, sosterrà con vigore le ragioni del suo operato in campo politico, suggellando la propria autodifesa con le celebri parole: «E sto davanti alla mia coscienza e al giudizio dei tempi, nei miei sessantadue anni, sicuro di me, forte e fiero».
Resta il fatto che la politica si rivelò un territorio insidioso anche per quest’uomo di genio. L’atteggiamento oscillante nei confronti del Regime Fascista italiano ne è un’evidente dimostrazione. Il 3 ottobre 1935, l’Italia scatenò la Guerra d’Etiopia; nonostante la condanna della Società delle Nazioni, arrivata il 10 ottobre 1935, nonostante la riprovazione del Ministro per gli Affari Esteri romeno, Nicolae Titulescu, Iorga mostrò in più occasioni di approvare la politica colonialista dell’Italia. A parziale discolpa, c’è da considerare che Iorga nutrì per tutta la vita un grande amore per l’Italia (notissima è la sua formula «Siamo rimasti romeni perché non ci si poteva separare dal ricordo di Roma»), e sapeva che il Duce guardava con favore alla Nazione romena. Inoltre (ma sorprendentemente per un uomo della sua cultura), Iorga era convinto della superiorità della società occidentale su ogni altra forma e aggregazione politica, e arrivò a giustificare l’atto di forza italiano come «una battaglia della civiltà contro la barbarie».
Esiste un ambito sociale e culturale che Iorga non abbia trattato? Forse no. All’appello della sua fantastica poliedricità mancano ancora numerose voci: l’attività poetica, svolta nel periodo giovanile e in verità non eccelsa, una quarantina di opere teatrali, gli innumerevoli scritti commemorativi, le monografie, i resoconti dei viaggi, le raccolte di prose, gli studi critici, il ruolo di fondatore di Istituzioni culturali importantissime. 
Nel 1913, insieme a Vasile Pârvan e G. Murgovici crea a Bucarest l’Institut de Studii Sud-Est Europene, di cui fu presidente. Successivamente, diventa rettore dell’Università di Bucarest, e poi fondatore, con Pârvan, della prima Scuola Romena di Roma (oggi Accademia di Romania) e dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerche Umanistiche di Venezia.
Si comprende bene perché George Călinescu abbia parlato di lui come del Voltaire di Romania; ma forse gli interessi culturali di Iorga sono persino più ampi di quelli del grande illuminista. Di sicuro, Iorga conosce più lingue e scrive di più rispetto al francese. Invitato dallo storico Karl Lamprecht a redigere una storia dei romeni, si immerge senza risparmio nel lavoro, e fra il 1935 e il 1939 produce l’immane Istoria Românilor și a romanității orientale (10 volumi). Quando decide di dedicarsi alle vicende storiche del Sultanato Turco, scrive la Storia dell’Impero Ottomano in 5 volumi e in lingua tedesca!
La quantità (che in Iorga coincide con la totalità) può andare a volte a scapito della qualità, e questi lavori presentano qualche difetto storiografico e cronologico. Ma l’intento di Iorga era quello di incrementare il patrimonio culturale della Romania; come rilevano giustamente alcuni critici, accanto allo storico c’è sempre l’uomo, con le sue passioni, il suo entusiasmo, il suo fervente e orgoglioso nazionalismo.
Iorga è grande anche nelle opere minori. Il suo L’Italia vista da un romeno (1930) è un piccolo capolavoro di stile e di erudizione, in cui lo vediamo transitare felicemente da osservazioni storico-politiche a descrizioni di paesaggi e di genti degne di un grande romanziere.
Nella prefazione, il romenista Giulio Bertoni sintetizzò esemplarmente la visione storico-filosofica di quello che definiva «un animo profondamente romeno», ma nel quale rintracciava una convinta apertura europeista: «L’internazionalismo di Iorga non è astratto; non prescinde dalle forze etniche e linguistiche, non cancella gli Stati, non nega le Nazioni, ma riconosce il dovere dei popoli di comprendersi, soprattutto in quelli che hanno comunanza di origini e di ideali».
La riflessione che Iorga pose in capo al libro è esemplarmente semplice ed efficace: «Alcuni giornali italiani criticano, e con ragione, la sentimentalità delle relazioni del loro passato con la Romania». Con queste parole, voleva spingere a superare quella certa superficialità di relazioni intercorsa sino ad allora fra le due Nazioni. «Non è più sufficiente – ammoniva – che qualche romeno colto o alcuni gruppi di pellegrini guidati da un prete si rechino a visitare la ‘Roma madre’ e a deporre fiori sotto la colonna del ‘padre’ Traiano».
Nel volume, il tono di Iorga si fa accorato quando parla della secolare oppressione delle classi popolari romene che, di volta in volta, hanno dovuto cedere i frutti del loro lavoro al sultano, al principe, al funzionario, al proprietario, ai tanti padroni che hanno dominato la Romania. Sperando che la sua gente possa tornare a vivere in piena libertà nella propria terra, il grande storico si augura di «vivere abbastanza per vedere tra quelli che compiranno questa nobilissima opera di rigenerazione morale e materiale anche gli italiani, la cui sorte è stata tanto migliore».
I meriti plurimi di Iorga hanno attirato su di lui elogi quasi unanimi. Fra i tanti, vorrei citare il giudizio espresso dallo storico della letteratura Vasile Munteanu nella classica Storia della letteratura romena moderna, perché riassume perfettamente la cifra morale e culturale del genio di Botoșani: «Al suo slancio inesauribile di tribuno, al suo gusto della lotta, al suo temperamento profetico, occorreva per potersi esplicare pienamente un quadro vasto e un immenso uditorio anonimo. Iorga si fece questo quadro e conquistò questo uditorio. Per lunghi anni, la gioventù universitaria fece eco alla sua propaganda; per i romeni d’oltre frontiera, egli fu l’apostolo. Essere romeno e provarlo, questa fu la sua parola d’ordine».

La nascita della Nazione romena è opera di molti altri patrioti, non meno appassionati, versatili, eruditi di quelli di cui ci siamo occupati. Impossibile, in questa sede, trattarli tutti. Ci limitiamo ai nomi di Alexandru Ioan Cuza, protagonista, quando fu eletto Principe di Valacchia e di Moldavia, di una modernizzazione che investì ogni campo della vita pubblica; Ion Constantin Brătianu, fedelissimo servitore dell’interesse nazionale; Petre P. Carp, junimista sempre coerente con le sue idee politiche. Grazie a queste grandi figure, la Romania, passando attraverso la fase premoderna e moderna, è pervenuta a quel «ritorno in Europa» di cui parla Keith Hitchins in A Concise History of Romania (2014).
Purtroppo, dopo il conseguimento della Grande Unione, la Storia aveva in serbo altre pagine dolorose per la terra e il popolo della Romania. La Seconda guerra mondiale, il periodo fascista, la dittatura di Ceaușescu, la miseria e la sofferenza degli anni immediatamente successivi alla caduta del Comunismo, il non facile cammino verso un nuovo benessere sociale e un migliore assetto politico. Nel 1995, con sottile spirito critico, la storica francese Catherine Durandin, in Histoire des Roumains, scriveva: «In Romania la rivoluzione del 1848 non è finita neanche oggi».
In Al treilea discurs: cultură, ideologie și politică în România (2001), Adrian Marino, storico e teorico della letteratura, pur ravvisando un certo spirito polemico nella Durandin, mostra di condividerne (almeno in parte) il pensiero: «Siamo in un momento storico radicale, di essenza pașoptistă, di un nuovo inizio dopo decenni di dittatura totalitaria, di sottosviluppo e di gelo culturale». Più avanti, proseguendo nel dialogo con il collega e giornalista Sorin Antohi, Marino precisa: «Guarda, ti faccio un esempio a sostegno dell’affermazione che la rivoluzione del 1848 non è ancora finita. Tra le Aspirazioni del Partito Nazionale in Moldavia figurava anche una legge: la legge sulla responsabilità ministeriale. Neanche oggi è stata applicata! Quello che chiedeva Kogălniceanu nel 1848 non lo abbiamo neanche oggi! (…) Mi è rimasta in mente una frase memorabile di Bălcescu: ‘Mettiamoci a costruire una Nazione…’ Noi non abbiamo ancora una Nazione costruita. Siamo un Paese improvvisato, un Paese tiepido. Tutto da noi è frettoloso, approssimativo, con documenti di cui i Ministeri non hanno idea, ministri dello stesso Gabinetto che si contraddicono; viene decorato il torturatore di Sighet, ecc. Ci sono questioni che attengono allo specifico nazionale. Noi non abbiamo ancora un Paese organizzato, con personale serio, competente. Voglio che ci costruiamo effettivamente un Paese! Serio, metodico, su basi solide. Quindi, in questo senso sono un pașoptistă (o neopașoptistă). Nel senso di Bălcescu. Non uno pseudo Paese…».
È trascorso quasi un ventennio da allora, e la Romania procede sulla strada del miglioramento economico, sociale e culturale, nonostante alcuni rigurgiti di un passato il cui retaggio condiziona ancora l’andamento politico e amministrativo della Nazione. Suona più che mai attuale l’aspro, doloroso rimprovero che il compianto Paul Goma non ha mai cessato di rivolgere al suo popolo (e segnatamente alla classe intellettuale), colpevole, dopo la caduta di Ceausescu, di non aver fatto i conti con il passato, consentendo così a molti ex comunisti di guidare la fase di transizione verso la democrazia.
Purtroppo, questa non è una novità nella storia romena. Nelle memorie vergate sul finire della Prima guerra mondiale, il filosofo e sociologo Ștefan Zeletin, riflettendo sulla condotta tenuta durante il conflitto dai governanti e dai militari, scrisse parole crude e lungimiranti: «Tutti noi (parla dei militari al fronte, n.d.a.) condividevamo l’idea che si dovesse recidere il male alla radice e costruire il Paese su nuove basi. E di fronte a questo compito ciascuno si esaltava esponendo il proprio punto di vista. Oggi hanno dimenticato tutti la determinazione insita in quei propositi. Da noi si dimentica facilmente tutto».
Credo che tutti i romeni debbano ricordare e rivisitare perennemente l’opera di chi li ha condotti alla libertà e all’indipendenza. L’esempio dei Padri Fondatori dovrebbe spronare chiunque a essere degno cittadino di una terra bellissima, ricca di storia, di gesta gloriose, di indiscutibili valori spirituali e culturali.



Armando Santarelli
(n. 1, gennaio 2021, anno XI)