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Romania: I Padri Fondatori (parte prima)
Nel terzo decennio del Seicento, il grande drammaturgo inglese Ben Jonson, contemporaneo di Shakespeare, Bacone, John Donne, William Harvey, scrisse che al suo tempo e sotto i suoi occhi erano nati tutti gli ingegni che potevano onorare una Nazione. Ognuno degli illustri personaggi – i Padri della Patria romena – di cui tratteremo in questo scritto, avrebbe potuto dire la stessa cosa; in poco più di mezzo secolo, grazie alla loro opera, la Romania vide unificato il suo popolo e raggiunse una delle massime estensioni territoriali della sua storia.
Poche vicende nazionali presentano la complessità della storia romena. Situata alle porte dell’Europa, la terra di Romania ha vissuto invasioni, divisioni territoriali, rimescolamenti di popoli e di culture; è stata percorsa da orde barbariche, ambita e conquistata, in tutto o in parte, dai Turchi, dai Polacchi, dall’Impero Austriaco, dagli zar di Russia.
Eppure, l’identità romena, definita dalla lingua, da una comune base etnica, dalla religione, da miti e tradizioni ancestrali, resta integra per migliaia di anni; a completare il miracolo compiuto dalla gente romena mancava il passo decisivo, l’unificazione nazionale.
Per ottenere ciò, occorreva sì un movimento popolare, come in effetti avverrà con le mobilitazioni del 1821 e del 1848; ma occorreva soprattutto l’apporto di menti appassionate e illuminate, in grado di portare le tendenze liberali al loro massimo sviluppo. È un obiettivo che i Padri Fondatori perseguirono con fermezza e abnegazione, e con la consapevolezza di poterlo raggiungere solo con la crescita culturale e sociale della Nazione, oltre che attraverso un’efficace azione politica.
All’impegno congiunto delle classi liberali e delle forze popolari si aggiunse il prezioso sostegno della Chiesa ortodossa, come non manca di sottolineare Keith Hitchins in Rumania 1866-1947, opera del 1994.
Il processo di rottura delle strutture in cui il popolo romeno era rimasto imprigionato per secoli passa dunque per le componenti umane e sociali appena indicate. Se ci riferiamo invece alle precise circostanze storiche che segnarono la grande unificazione delle terre romene, bisogna rifarsi agli esiti scaturiti dalla Prima guerra mondiale. Nessun dubbio, infatti, che la Grande Unione, preparata e costruita dai personaggi di cui tratteremo, sia stata favorita dalle conseguenze della rivoluzione bolscevica e dallo smembramento dell’Impero austro-ungarico. Sono i due macro-eventi che hanno condotto alcuni storici ad affermare che, in ultima istanza, la Grande Romania «si è fatta da sé», come risultato della necessità storica iscritta nella legittima aspirazione della gente romena a vivere in uno Stato Nazionale.
Florin Constantiniu, in Storia della Romania (2015), condensa così questa corrente di pensiero: «La Grande Unione del 1918 è stata – e rimane – la pagina più gloriosa della storia romena. La sua grandezza sta nel fatto che il completamento dell’unità nazionale non è stata opera di uomini politici, né di un governo, né di un partito, bensì il compimento storico di un’intera nazione, realizzato in un afflato scaturito dalla consapevolezza profonda dell’unità di una stirpe, afflato certamente guidato dal ceto dirigente con intelligenza politica rimarchevole verso il fine ambito».
Sebbene in modo piuttosto incerto e discontinuo, il processo che condurrà all’indipendenza e all’unificazione delle terre romene inizia nei primi decenni dell’Ottocento. Dopo la rivolta del 1821 capeggiata da Tudor Vladimirescu, la cacciata dei Fanarioti, il breve periodo dell’occupazione russa e l’emanazione del Regolamento Organico (1830), la Valacchia e la Moldavia, nel 1834, ottennero di essere governate da principi romeni. Questo importante passo verso l’unità veniva accompagnato da significativi progressi nel campo politico, amministrativo e finanziario; tuttavia, la maggioranza della popolazione, ovvero il mondo contadino, continuava a versare in condizioni di miseria e di sofferenza. Mentre i figli dei boiari venivano mandati a studiare all’estero, nelle campagne regnava la povertà e l’analfabetismo; nel primo ventennio dell’Ottocento, pochissime sono le scuole romene, e inesistenti i giornali, i teatri nazionali e altre istituzioni culturali.
Inizia allora quell’inarrestabile fermento a base nazionalista che cambierà la fisionomia e le sorti della terra romena, e che vede uniti aristocratici, boiari liberali e intellettuali in un eccezionale sforzo modernizzatore.
«L’omogeneità di questo gruppo – scrive il linguista e accademico Sorin Alexandrescu in Geografia e storia della civiltà letteraria romena nel contesto europeo (2010) – deriva in gran parte dal sentimento di essere gli iniziatori di cambiamenti che avrebbero dovuto coinvolgere l’intera società romena, la politica, la cultura, l’economia. Da qui lo spirito spesso utopico, la generosità, il messianismo (come lo definiva G. Călinescu nella sua Storia della letteratura romena), la straordinaria energia, la fretta, il temperamento, il volontarismo, la fiducia fanatica nel progresso dell’umanità, nella propria capacità di cambiare gli individui e le classi, ma anche nel futuro del popolo romeno».
Alle innegabili caratteristiche sopra riportate, aggiungerei un ulteriore tratto che accomuna i Padri Fondatori della Romania: mai scisso dalle forze morali che li sostengono, essi mostrano un senso machiavelliano dell’agire politico. Sto parlando del pensatore che si immerge nell’agone politico del suo tempo non per la ricerca di potere o di prestigio, ma perché ha a cuore le sorti di un’Italia divisa, percorsa e straziata da eserciti stranieri, lontana quanto mai dalla passata grandezza. Vedremo, in effetti, come uno dei grandi meriti dei Padri Fondatori della Romania sia stato quello di anteporre l’interesse della Nazione al proprio.
Ma il parallelismo regge anche da un altro punto di vista. Come hanno sottolineato i più autorevoli studiosi di Machiavelli (l’ultimo in ordine di tempo è Michele Ciliberto, autore di Niccolò Machiavelli, ragione e pazzia, opera del 2019) nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio emerge con evidenza il concetto che un’aggregazione sociale priva di un vincolo forte e altamente ideale non può costituirsi in modo stabile. Per Machiavelli – spiega Ciliberto – è essenziale il riconoscimento di un’identità comune dei membri di una collettività, sulla base di valori originari, antecedenti a ogni ordinamento. Ora, è innegabile che i Padri Fondatori della Romania abbiano trovato nella storia patria, nella lingua, nel fondo etnico, nella spiritualità dell’animo romeno, i valori condivisi che diedero impulso alla loro azione.
Un ulteriore elemento risulta comune ai pionieri della Nazione romena: il grande amore per la terra italiana. Certamente, le classi elevate della Romania sono impregnate di cultura francese e, in misura minore, di quella germanica. Inoltre, i romeni non sono i soli ad apprezzare il Bel Paese. Gli aristocratici britannici e tedeschi hanno inaugurato il Grand Tour nei luoghi della classicità sin dagli inizi del Settecento. È una fascinazione condivisa dai letterati russi: Gogol’, Turgenev, Dostoevskij e Gor’kij ameranno l’Italia al punto da elevarla a «Patria dell’anima», a «Paese delle meraviglie». Ma l’amore dei romeni per l’Italia ha motivazioni ed espressioni più forti: la consapevolezza di essere i discendenti di una fusione daco-romana che proprio in quegli anni gli studi storici tendevano ad avvalorare; la lingua romena, idioma neo-latino, e dunque così vicino all’italiano; la consapevolezza di una possibile comunanza di interessi e di un auspicabile sostegno reciproco. Così, praticamente tutti i Padri della Nazione romena cercheranno l’Italia ideale e quella reale, vi soggiorneranno più volte, tornando in Patria arricchiti di esperienze e di contatti culturali, sociali e politici.
Prima di occuparci dei Padri Fondatori, ritengo opportuno riferire brevemente sulle prime manifestazioni letterarie della lingua romena, perché non c’è dubbio che abbiano contribuito alla presa di coscienza dei romeni di dover aspirare a una propria cultura, oltre che a una Patria comune. Il più antico documento in lingua romena giunto sino a noi, redatto nell’anno 1521, è una lettera del boiaro Neacșu di Câmpulung, nella quale il nobile mette in guardia lo jupan (lo jude)Hanăș Begner (o Johannes Benkner) del pericolo rappresentato dagli ottomani del bey Mehmet.
Per un paio di secoli, il documento di Neacșu rimane un fatto abbastanza isolato nella realtà socio-culturale romena. Più avanti, ovvero per l’intero corso del Settecento, nei Principati romeni, soprattutto in Moldavia, dominano l’influsso francese e quello neogreco. La cultura è in mano a chi può permettersi un’istruzione, ed è infatti un esponente della classe nobiliare a scrivere un’opera degna di nota. Stiamo parlando di Ienăchiță (Ienache) Văcărescu (c.1740-c.1798), che fu tesoriere del principe Grigore Ghica e braccio destro del patriota greco Alexandru Ipsilanti. Nel 1787, Văcărescu pubblica una sorta di grammatica romena, Observații sau băgări dă seamă asupra regulelor și orânduielelor gramaticii rumânești, che in appendice reca esempi di prosodia che si rifanno alle composizioni cantate dai lăutari, suonate zingare molto apprezzate dai boiari del tempo.
Nulla di particolare, sin qui. Ma nella chiesa di San Spiridone Nuovo, a Bucarest, esiste un dipinto che ritrae Ienache con in mano un cartiglio, sul quale è scritto:
A voi, miei discendenti Văcărești,
lascio quale eredità
la cura della lingua romena
e l’onore della Patria!
Lascito ideale che i figli, tuttavia, raccoglieranno solo in parte, scrivendo in greco oltre che in romeno.
Qualche decennio più tardi, un altro boiaro di antica nobiltà, Costache Conachi (1777-1849), compone poesie adeguandosi al gusto neogreco dell’epoca. Con Conachi siamo dinanzi a uno dei primi ingegni multiformi della terra romena. Poliglotta, cultore di studi classici, traduttore, ingegnere, grande oratore, oculato amministratore della proprietà di Țigănești (in Moldavia), Conachi si rivelò anche un buon politico, tanto da arrivare alla carica di Ministro della Giustizia. Fu uno dei quattro componenti della commissione moldava incaricata della stesura del Regolamento Organico (1829-1830).
Le liriche di Conachi, edite postume dalla figlia col titolo Poezii, alcătuiri și tălmăciri (Poesie, composizioni e traduzioni, 1856) trattano prevalentemente temi erotici e risentono di influssi petrarcheschi. Diventano presto molto popolari, ma poiché «violano le numerose convenzioni di un’epoca pudibonda» – come scrive il filologo e critico letterario Bogdan Crețu – non sono apprezzate granché dalla critica. Saranno rivalutate da studiosi come Călinescu e Ibrăileanu, che ne sottolineano le venature filosofiche e quel senso di sofferenza interiore che anticipa la poesia di Eminescu.
Ma Conachi ha altri meriti: in queste composizioni e in altri suoi scritti, comincia ad affacciarsi la consapevolezza del contrasto fra la vita agiata dei boiari ancora legati al mondo orientale e le nuove istanze sociali e politiche provenienti dall’occidente. Conachi è uno dei primi letterati romeni a rivolgere lo sguardo alle classi più umili e a trarne delle conclusioni morali. Convinto, appunto, che lo studio debba avere uno scopo morale, auspica e si impegna per l’elevazione culturale e sociale del mondo contadino. Dopo di lui, praticamente tutti i letterati romeni mostreranno di avere a cuore le sorti della popolazione contadina, «unico e vero elemento nazionale», come sosterranno concordemente Eminescu e Iorga.
(Inserisco qui una digressione. Contrariamente a quanto si può pensare, non sempre il mondo contadino ha trovato la comprensione e la solidarietà delle classi colte e agiate. Esistono infatti molti esempi del discredito nutrito da studiosi e letterati per i contadini, anche se il più delle volte non siamo dinanzi a un odio di classe, ma a un sentimento di distanza culturale o a valutazioni economico-sociali.
Sapete chi è uno dei primi critici del mondo contadino? Dante Alighieri, il nostro massimo letterato, che fa risalire i mali della Firenze del suo tempo all’urbanizzazione dei contadini. E il sommo lirico Petrarca? Quando legge nelle Georgiche di Virgilio che la Giustizia, prima di abbandonare il mondo, si soffermò ancora un istante sulle terre contadine, esclama che la Giustizia, ai suoi giorni, si comporterebbe in modo ben diverso! Nei Promessi Sposi di Manzoni, i contadini e fratelli Tonio e Gervaso la combinano grossa al momento del matrimonio a sorpresa di Renzo e Lucia dinanzi a Don Abbondio; Gervaso è un po’ tocco, e il più intelligente Tonio, una volta colpito dalla peste, finirà per diventare idiota come lui. Solo un altro esempio: Giovanni Verga non idealizza il mondo contadino, anzi, ne parla senza alcuna empatia; la novella La roba e il romanzo Mastro Don Gesualdo descrivono l’attaccamento morboso agli averi e alla terra, e con ciò l’ottusità di un mondo ignorante, dedito caparbiamente ad accrescere i propri beni materiali. Né manca un filone critico più recente, come per esempio nei romanzi Zebio Còtal (1958) di Guido Cavani e Io non ho paura (2001) di Niccolò Ammaniti).
Con Dinicu Golescu, contemporaneo di Conachi, entriamo pienamente nell’incredibile versatilità dei Padri Fondatori della Romania.
Constantin (Dinicu) Golescu nasce nel 1777 a Golești, in Valacchia. Viene da una famiglia di ricchi boiari, ma ciò che gli sta a cuore è il bene della Patria, non gli agi e il lusso. Durante la rivoluzione del 1821 pensa alla fondazione di una società segreta letteraria, idea che sarà raccolta qualche anno più tardi da Ion Heliade Rădulescu con la creazione della Soțietatea Literală Rumânească.
Tra il 1824 e il 1826 compie tre viaggi in Occidente, durante i quali tocca le regioni austriache, tedesche, svizzere e italiane, apprezzandone le Istituzioni, l’ordinamento socio-economico e la cultura. Da questa esperienza scaturisce il primo diario di viaggio di un romeno nell’Europa occidentale: è il notevole Însemnarea călătoriei mele (Appunti sui miei viaggi, 1826). Golescu è scioccato dalla drammatica frattura esistente tra l’Europa estesa al di là dei Carpazi e il mondo primitivo delle terre romene, schiacciate da un’amministrazione inetta e rapace. Così egli descrive le condizioni di intere aree della sua Patria: «Chiunque entri in quei luoghi, chiamati villaggi, non vedrà né chiese, né case, né cortili, né carri, né buoi, né mucche, né pecore, né galline, né orti con le piante per il sostentamento delle famiglie, insomma nulla. Ma soltanto delle casupole di terra, o meglio tuguri, dove, mettendovi piede, non vedrebbe che un antro nella terra, capace soltanto di ospitare il capo famiglia con la moglie e i figli attorno al focolare, e un cesto di vimini intriso di escrementi quasi sbucato dalla terra, che funge da comignolo. (…) E quando costoro, per non si sa quale azzardo, venivano a sapere che nel villaggio sarebbero arrivati il gendarme, il capitano, l’esattore del prefetto o del principe, fuggivano, sia loro che le loro mogli e i bambini che lo potevano fare, nei boschi e nelle montagne, proprio come animali selvatici quando vengono braccati dai cacciatori con i cani, perché sapevano che se fossero stati acciuffati non vi sarebbe stata altra richiesta se non quella di denaro, ed essi, non avendolo, avrebbero ricevuto solo scudisciate sulla schiena».
Golescu attribuisce la causa di tutto ciò all’enorme distanza che separa i contadini da una classe politica indifferente alle loro condizioni di vita; conseguentemente, auspica una riforma delle istituzioni nazionali in senso europeistico e illuministico. Ma questo grande spirito non si limita a suggerire il da farsi; dotato di un’innata vena filantropica, attinge alle solide finanze familiari e intraprende una serie di iniziative senza precedenti. In una sala della sua magnifica dimora bucarestina apre un gabinetto di lettura dove è possibile consultare opere e giornali di tutta l’Europa. Nel maggio 1826 fa aprire a sue spese, nel villaggio natale, una scuola primaria, che accoglierà giovani di ogni ceto sociale, e dove egli stesso impartirà lezioni di latino.
Un anno più tardi, si rende protagonista di un’impresa che sta a metà fra il visionario e il prodigioso. Considerate le difficoltà di editare in Romania una rivista culturale, Golescu, con la fattiva collaborazione di due studenti romeni, Dan Mihail Rosetti e Anastasie Lascăr, pubblica a Lipsia, tra il maggio e il novembre 1827, il primo giornale in lingua romena, Fama Lipschii pentru Dacia. La rivista viene stampata (in romeno e con caratteri cirillici) nella città tedesca, poi inviata in Romania (a duemila chilometri di distanza) con un viaggio che può durare anche un intero mese!
Due anni più tardi le condizioni politiche sono mutate e l’8 aprile 1829, a Bucarest, vede la luce il Curierul românesc, primo giornale edito in Valacchia. Ne è redattore colui che diventerà uno dei romeni più influenti di ogni tempo, Ion Heliade Rădulescu; dietro di lui, però, c’è Golescu, il nobile che indossava il caffettano e il calpacco, ma che fu tra i primi a propugnare la modernizzazione della sua terra, e i cui quattro i figli, che aveva portato a studiare a Monaco e a Ginevra, ricopriranno tutti, uno dopo l’altro, la carica di Primo Ministro della nascente Romania. Golescu muore di colera il 5 ottobre 1830. L’epitaffio che Ion Heliade Rădulescu gli dedicherà sul Curierul Românesc del 9 ottobre 1830 recita: «Ora ti sei distaccato da noi, ma la tua memoria non perirà, i tuoi scritti ti sopravviveranno qui, sino al giorno dello spaventoso giudizio. Il tuo nome rimarrà caro a chi ama il sapere e a coloro che si dissetano alle tue stesse fonti».
Nel periodo che stiamo trattando, quasi ovunque, in Europa, la produzione letteraria e la cultura sono in mano a esponenti delle classi più agiate. Ma vi sono delle eccezioni, con alcuni grandi personaggi provenienti da una diversa estrazione sociale. Uno di questi è Anton Pann, nato forse in Bulgaria, forse da padre romeno (è l’ipotesi sostenuta da George Călinescu), forse nel 1797. Nel 1810 lo troviamo in Bessarabia, al seguito della madre, rimasta vedova; il giovane ama la musica, ha una splendida voce, e diventa cantore in una chiesa di Chișinau. Presto mostrerà di possedere altre doti, fra le quali la padronanza della lingua russa, di quella bulgara e di quella turca, oltre naturalmente al romeno.
Purtroppo, come molte persone di talento, Pann obbedisce a regole tutte sue (trasgredendo quelle esistenti): nel 1812, per evitare l’arruolamento nell’esercito russo, si rifugia a Bucarest, dove esercita vari mestieri. Nel 1827 è nominato professore nel seminario di Râmnicu Vâlcea, ma un anno dopo fugge a Brașov con la nipote della badessa di un convento; a peggiorare lo scandalo, il fatto che Pann è già sposato! Ma quest’uomo non si abbatte tanto facilmente: ha tempo e modo di tornare a Bucarest, dove riesce a ottenere la nomina di professore di musica alla Scuola Nazionale e alla Metropolia, e ad aprire una tipografia ecclesiastica.
Perché questo spirito bizzarro e irrequieto è importante per la prima letteratura romena? Forse proprio per le sue incredibili, innate contraddizioni. È autodidatta, non ha una grande cultura, ma scriverà un’ottantina di volumi, in cui troviamo canti ecclesiastici, favole popolari, poesie erotiche, raccolte di proverbi e persino una sorta di galateo popolare. Molte delle sue composizioni poetiche riflettono il linguaggio spontaneo e la confidenza del volgo; altre volte, però, lo vediamo esprimersi con versi elaborati e rime complicate. Inoltre, Pann mostra un palato finissimo quando, in Culegere de proverbe sau Povestea vorbii (Raccolta di adagi oppure Come dice il proverbio, questo il primo titolo dell’opera, 1851-1853), riunisce e seleziona le migliori espressioni proverbiali della sua terra, fedele alla premessa che compare nell’opera: De la lume adunate și iarăși la lume date(Raccolte tra il popolo e ridate al popolo).
Scrittore, poeta, compositore e cantore di musica sacra, insegnante, traduttore, stampatore e tipografo; ma il nome di Anton Pann si staglia indelebilmente nella storia romena per un merito particolare: fu lui a musicare il testo Unu răsunetu di Andrei Mureșanu, donando alla Romania il suo inno ufficiale, Deșteaptă-te Române.
Armando Santarelli
(n. 6, giugno 2020, anno X) |
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