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Letteratura italiana delle origini: un profilo
Compito di questa ricerca è offrire una breve esposizione delle prime manifestazioni della lingua italiana, ovvero del volgare del sì nel momento in cui inizia a differenziarsi dalla matrice latina. Una necessaria premessa: è importante distinguere fra la nascita (e dunque la storia) di una lingua e la storia della letteratura in cui quella lingua viene espressa.
Invero, la letteratura italiana nasce nel Duecento; ma la lingua italiana era diffusa tra il popolo già da secoli, e aveva dato vita a quella che potremmo chiamare la «preistoria» della nostra letteratura. Il volgare italiano si parlava già dal secolo VIII, accanto alla lingua latina ancora predominante. Con la progressiva estensione del volgare, si cominciò a utilizzarlo anche in composizioni scritte, benché spesso frammisto a parole latine o latineggianti.
Ma quando ha inizio la crisi della tradizione classica e della lingua che la esprimeva, il latino? In un contesto di storiografia letteraria, il 476 d.C. (anno che segna la caduta dell’Impero Romano d’Occidente) può apparire una data del tutto convenzionale; e tuttavia è da questo evento che maturano le condizioni storiche che permetteranno la nascita delle letterature medievali europee, fra le quali quella italiana.
A seguito delle invasioni di popolazioni barbariche come i Visigoti, i Vandali, i Burgundi, i Franchi, gli Svevi, gli Angli e i Sassoni, gli Ostrogoti, i Longobardi, nascono ovunque dei regni separati, che spezzano l’unità politica dell’Impero Romano. Le conseguenze sono notevoli in tutti gli ambiti della vita e del sapere; nel campo letterario, temi come la guerra, il coraggio, l’onore, ma anche il modo di concepire l’amore prenderanno sempre più spazio, a scapito dei valori tipici della cultura classica, ovvero l’armonia, l’ordine, l’eleganza stilistica.
La morte di Carlo Magno (814) comporterà un’ulteriore frammentazione dei regni subentrati all’unità del mondo latino. Con la divisione dell’Impero carolingio, le spinte particolaristiche si accentuarono, col risultato di una sempre maggiore autonomia dei nobili che, pur dichiarandosi fedeli all’autorità imperiale, esercitavano sui loro possedimenti un potere quasi assoluto: è la nascita del feudalesimo.
La società feudale, che vede nettamente separati i membri dell’aristocrazia terriera e le classi subalterne, non fu certamente incline allo sviluppo della cultura; tuttavia, favorì l’avvento, o il consolidamento, di alcuni fenomeni sociali che avranno notevoli sviluppi letterari. Tipica della società feudale è, per esempio, l’istituzione della cavalleria, che diviene un vero e proprio «ordine», con norme, ideali e cerimoniali ben delineati e codificati; ed è in quest’ambito – dove predomina l’esercizio delle armi – che si sviluppa un tema importantissimo in tutta la letteratura europea, ovvero l’amor cortese.
Un altro fattore influirà in modo potente nella storia e nella vita culturale dell’Europa nata dalla dissoluzione dell’Impero Romano d’Occidente: il diffondersi del cristianesimo, che alla fine del IV secolo, con Teodosio, diventa la religione ufficiale dello Stato. Il consolidarsi della nuova religione comporterà una massiccia influenza del pensiero cristiano su gran parte delle manifestazioni letterarie, filosofiche e artistiche dell’Europa medievale. Se l’Europa romana si divide in tanti regni, significativamente denominati «romano-barbarici», l’Europa culturale, scrive Alberto Asor Rosa in Storia europea della letteratura italiana, «resta sostanzialmente unita, perché la lingua della cultura (il latino), gli strumenti della cultura (le arti liberali) e, soprattutto, i princìpi ispiratori della cultura (il cristianesimo) sono pressoché uguali dappertutto».
In effetti, intorno all’anno Mille l’eredità della tradizione classica è ancora considerevole, perché il latino continua a essere la lingua della cultura; non bisogna dimenticare che lo stesso Dante scriverà in latino il De vulgari eloquentia, la Monarchia, le tredici Epistole e le due Egloghe.
Ma se il latino resta la lingua in uso nelle corti e negli ambienti ecclesiastici e professionali, in mezzo al popolo comincia a farsi strada una lingua che nel corso del tempo si allontana sempre di più da quella delle classi dominanti, e che viene chiamato volgare perché parlato dal volgo, dalla gente comune. I volgari derivanti dal latino furono denominati romanzi perché aventi tutti una comune origine nella lingua e nella cultura dell’antica Roma; e il grande bacino europeo dove queste lingue si svilupparono fu chiamato dagli studiosi Romània, un’entità non geografica né politica, ma solo linguistica.
Il processo di formazione e di radicamento dei volgari si svolge nei secoli XI-XIII. È facile comprendere come l’uso letterario di una lingua parlata dal popolo costituì una vera e propria rivoluzione culturale e un dato di straordinaria importanza; con l’allargamento della base di chi era in grado di scrivere, la letteratura, o perlomeno la lingua scritta, poté arricchirsi di un’enorme riserva di valori, tradizioni, miti, situazioni reali e ideali, e ovviamente di profonde novità formali e stilistiche.
Se vogliamo indicare un primo, chiaro segnale della crescente importanza del latino volgare, possiamo individuarlo in una rivoluzionaria presa di posizione della Chiesa durante il Concilio di Tours (813 d.C.). In quell’occasione, fu deciso che i sacerdoti dovessero predicare al popolo non più in latino, ma, a seconda delle aree geografiche, in rustica romana lingua o in lingua thiotisca (cioè in tedesco). Altra notevole spinta verso il riconoscimento dell’importanza delle lingue volgari fu il noto giuramento di Strasburgo dell’842, ovvero l’alleanza fra i principi Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico contro il loro fratello Lotario. Dinanzi ai rispettivi eserciti, Ludovico giurò in francese per essere compreso dalle milizie di Carlo, e questi giurò in tedesco per farsi capire dai soldati di Ludovico.
Tuttavia, giova ripeterlo, la nascita di una letteratura è cosa diversa dalla nascita di una lingua. Bisognerà attendere un altro secolo per assistere all’affermazione, nella Francia settentrionale e in Provenza, delle prime, importanti manifestazioni letterarie, quella dei romanzi feudali (scritti in lingua d’oïl) e della poesia trobadorica, espressa in lingua d’oc, ovvero il provenzale.
In Italia il processo di affermazione del volgare fu più lento (più avanti ne vedremo le ragioni). Ma quali sono le prime manifestazioni scritte della lingua parlata dal popolo stanziato nella penisola italica?
Anche se piuttosto sporadiche, espressioni in volgare miste a parole latine sono reperibili già nell’VIII secolo:
anno 730: De uno latere corre via publica (Carta Pisana, in Ludovico Antonio Muratori, Dissertazioni sopra le Antichità Italiane, 1751, opera postuma);
anno 766: Reddere promittimus una anfora vino… et uno porcello (Memorie e Documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, tomo V (1837).
Verso l’anno 800, a Verona, succede un fatto curioso: parliamo del noto Indovinello veronese, che un copista forse un po’ annoiato verga sulla pergamena in cui sta trascrivendo un codice liturgico mozarabico (cioè elaborato nella Spagna dominata dai Mori). Riprendendo una metafora già utilizzata da altri scriptores del tempo, e contaminando differenti livelli linguistici, il copista allude così all’arte dello scrivere: Se pareba boves, alba pratalia araba, et albo versorio teneba, et negro semen seminaba, ovvero: «Spingeva innanzi i buoi (le dita), arava prati bianchi (la carta), teneva un bianco aratro (la penna d’oca), seminava un seme nero (l’inchiostro)».
In quale lingua si è espresso il religioso che nello scriptorium di un monastero o di una scuola capitolare verga questa simpatica metafora? Possiamo già chiamarlo volgare? È un neo-latino dell’Italia settentrionale? È di sicuro un idioma che sta nascendo dalla lenta trasformazione del latino come parlato dal popolo.
Frasi in volgare si trovano nel famoso Placito capuano del 960, considerato da molti studiosi il primo documento ufficiale della lingua italiana. Si tratta di una formula di testimonianza inserita in un atto col quale il giudice di Capua, Arechisi, dirime una lite tra il monastero di Montecassino e un agricoltore di Aquino per l’assegnazione di alcune terre. Avvalorando le ragioni dell’abate di Montecassino, i tre testimoni convocati dal giudice ripetono la formula in volgare: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
È evidente come in questa formula si trovino commisti elementi del linguaggio giuridico degli atti di transazione e parole del volgare dell’area meridionale longobardica.
Circa cent’anni dopo, alla fine del secolo XI, su un affresco parietale della chiesa sotterranea di San Clemente, a Roma, fu apposta una curiosa iscrizione, che descrive il tentativo dei servi del pagano Sisinnio di catturare San Clemente. Credendo di aver imprigionato e di trainare il Santo, i servi trascinano invece una colonna, e nello sforzo si scambiano esortazioni e improperi in volgare romanesco: «Fàlite dereto co lo palo, Carvoncelle! Albertel, Gosmari, traite! Fili de le pute, traite!» È una scena popolaresca e a suo modo divertente che vede il volgare contrapposto al latino in cui, a differenza dei pagani, si esprime il Santo.
Intrigante per una ricerca sulle origini della lingua italiana è ciò che succede in terra veneta fra il 1152 e il 1160. Tra queste due date si colloca la scrittura di un poemetto intitolato Proverbia quae dicuntur super natura feminarum (Proverbi che si raccontano sulla natura delle donne), del quale ci sono pervenuti 756 versi. Il titolo del poemetto è in latino, ma il testo, apertamente violento e offensivo nei confronti delle donne, è in un neo-latino dell’Italia settentrionale.
Qualche decennio dopo, nel 1190, soggiorna a Genova un trovatore provenzale, Raimbaut de Vaqueiras, il quale compone una poesia bilingue che rimane la prima attestazione di una versificazione in un qualsiasi volgare italiano. Il singolare «contrasto» si svolge tra il poeta, che si esprime in lingua d’oc chiedendo amore a una genovese, e la donna, che utilizzando il suo dialetto lo respinge in modo deciso e beffardo (riportiamo parte della II strofa):
Jjujar, voi no sei cortezo Giullare, voi non siete cortese
qe me chaideiai de zo, che mi chiedete ciò,
qe niente no farò che niente io farò,
ance fossi voi apeso! anche se vi impiccassero!
Vostr’amia no serò, Vostra amica non sarò,
certo ja ve scanerò certo, piuttosto vi scannerò
proensal malaurao! provenzal maleducato!
Mentre il volgare del sì conquista lentamente una maggiore autorevolezza, dalla Francia centro-settentrionale, nel XII secolo, si diffondono in Italia, in lingua d’ oïl, le Chanson de geste, poemi che cantano epicamente le imprese compiute da Carlo Magno e dai suoi paladini contro i Saraceni (è il cosiddetto ciclo carolingio).
Altri romanzi cavallereschi della seconda metà del XII secolo (il cosiddetto ciclo bretone) attingono invece alle favolose leggende di Bretagna, che narrano le imprese eroiche, avvolte spesso nel mistero, di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
L’influenza francese resta dominante anche nel campo poetico. Sempre nel XII secolo si diffonde in Italia, in lingua d’oc, la letteratura provenzale. I trovatori provenzali hanno una particolare importanza nella letteratura europea, in quanto sono i primi scrittori ad avere piena coscienza della loro arte e a dare l’avvio a un movimento poetico in senso moderno. Da dove viene il termine trobador? Molte antologie letterarie spiegano che il termine deriva dal verbo trobar, «poetare» Ma il linguista e filologo francese Gaston Paris e il nostro Giampaolo Dossena delineano un’etimologia più accurata. «Il trovatore – scrive Dossena nella straordinaria Storia confidenziale della letteratura italiana – non è un poeta romantico che ‘trova’ l’ispirazione nel proprio cuore: è uno che fa dei ‘tropi’, che elabora delle figure retoriche, estendendo o mutando il significato corrente di una parola. Il provenzale trobar viene da tropare, ‘far tropi’. La poesia dei trovatori è un grande gioco retorico».
Formatasi nel secolo XI negli ambienti raffinati delle corti feudali, la letteratura provenzale si trasmette rapidamente di Paese in Paese. È importante precisare che le poesie dei provenzali nascono con parole e musica, e vengono cantate dagli stessi autori. Espresse con estrema eleganza stilistica, trattano temi morali, politici e soprattutto amorosi: il poeta «serve» d’amore la donna, bella e dotata di alte virtù, cui l’innamorato rivolge dovuto «omaggio» (un tipo di rapporto che, secondo alcuni autori, ricalca quello fra vassallo-signore tipico del mondo feudale).
È inevitabile, a questo punto, porsi una domanda cruciale: mentre la Francia, la Provenza e la Spagna registrano, nel XII secolo, l’affermazione di tradizioni letterarie nelle lingue locali d’oïl, d’oc e nella lingua castigliana, per assistere alla nascita di una tradizione letteraria nella lingua del sì bisognerà attendere la metà del XIII secolo. Come si spiega il ritardo del nostro volgare letterario? Le ragioni addotte dagli storici della letteratura sono molteplici. Non c’è dubbio, per esempio, sul fatto che la tradizione latina, potenziata dall’egemonia religiosa e culturale della Chiesa di Roma, fosse in Italia più radicata e solida che nel resto d’Europa. È stato anche rilevato che l’italiano rimaneva la lingua romanza più vicina al latino, e che perciò fosse meno avvertita la necessità di dare una veste scritta alla nuova lingua. Alcuni studiosi fanno riferimento all’assenza, per tutto il XII secolo, di scrittori capaci di dare dignità e forza letteraria al nascente volgare. Altri ancora hanno messo l’accento sulla necessità, per le nascenti compagini comunali, di privilegiare gli interessi pratici ed economici rispetto a quelli legati alla cultura. Come rileva Asor Rosa nell’opera sopra citata, «in Italia furono più deboli che altrove le strutture politiche e istituzionali, quelle che di norma favoriscono il concentrarsi degli intellettuali e incoraggiano le iniziative di cultura. È solo quando queste strutture cominceranno a vigoreggiare (l’Impero di Federico II al sud, la fiorente realtà dei Comuni al centro e al nord) che i volgari saranno estesamente impegnati sul piano letterario».
In effetti, è dove la compagine politico-sociale risulta forte e radicata che maturano le prime, importanti promozioni letterarie del volgare, come avvenne, a partire dal 1230 circa, alla corte di Federico II (1194-1250) con la Scuola siciliana. La Scuola siciliana è il primo movimento letterario a esprimere e coltivare una vera coscienza artistica. Influenzati dalla poesia provenzale, i lirici siciliani adottano argomenti e forme della letteratura occitanica, ma si esprimono in italiano, e cercano nel volgare vocaboli, costrutti e modi poetici capaci di imitare la raffinatezza della letteratura d’oc. Le composizioni di Federico II, Pier della Vigna, Giacomino Pugliese, Rinaldo d’Aquino, Ciacco dell’Anguillara, e soprattutto il Notaro Jacopo da Lentini (molto probabilmente inventore della nuova forma del sonetto), cantano l’amore come galanteria cortigiana e omaggio alla donna, ma usano un linguaggio capace di creare una letteratura in grado di superare il particolarismo dialettale. Di Jacopo da Lentini (1210 circa – 1260 circa) non ci sono giunte che una trentina di poesie, che tuttavia rivestono una grandissima importanza, perché sono considerate il primo tentativo di trapiantare nel neo-latino di Sicilia i modelli dei lirici provenzali.
Caduta la Casa sveva (a seguito della sconfitta di Benevento del 1266), la Scuola siciliana si scioglie; il centro dell’attività letteraria si sposta nell’Italia centrale, e particolarmente in Toscana, con i cosiddetti «lirici di transizione», perché segneranno il passaggio fra la lirica siculo-provenzale e il Dolce Stil Novo. Ma perché proprio la Toscana? Il motivo principale si deve alla lotta fra Guelfi e Ghibellini, lotta che comportava inevitabilmente dei contatti fra le due fazioni e i vari alleati e potentati coinvolti, fra i quali la casa di Svevia. In questo nuovo ambito socio-politico, la poesia si rivolge a un pubblico che va dal borghese all’aristocratico, e i temi tendono a espandersi. Se dominante rimane la poesia d’amore (entro la quale, come osserva Francesco De Sanctis nella classica Storia della letteratura italiana, «l’amore divenne un’arte, col suo codice di leggi e costumi»), i lirici toscani trattano argomenti come la morale e il sacro, l’esilio, i conflitti fra le classi sociali, le tensioni politiche che risentono delle lotte fra i Comuni. Le voci poeticamente più rilevanti sono quelle di Bonagiunta Orbicciani, Chiaro Davanzati e Guittone d’Arezzo.
Il critico letterario Gianfranco Contini, autore della monumentale Letteratura italiana delle origini, non ha dubbi nell’attribuire a Bonagiunta Orbicciani (notaio a Lucca negli anni 1242-1267) il merito di aver introdotto in Toscana la lirica dei siciliani. Ma la personalità di spicco dei rimatori siculo-toscani è certamente Guittone d’Arezzo (1235-1294), studioso poliedrico che intessé rapporti di cultura con letterati attivi in gran parte dell’Italia comunale, e autore di circa trecento tra canzoni e sonetti. Guittone, che è aretino e fa il mercante, è sposato, ma nel 1266 decide di entrare nell’Ordine dei Frati Gaudenti, e abbandona la moglie e le tre figlie. Il risultato è che abbiamo le poesie di Guittone e, dopo il 1266, le poesie di frate Guittone. Le prime trattano temi amorosi e presentano frequenti ed enigmatici giochi di parole; il poeta, dopo la conversione, le ripudierà, giudicando quei versi «venenosi», «come mortali». Le poesie di frate Guittone hanno ovviamente carattere etico e religioso; lo stile (oltre che il tema) è cambiato, diventando severo ed energico, consono allo scopo di correggere i costumi e ispirare rettitudine e dignità morale e sociale.
All’inizio del XIII secolo la letteratura in volgare comincia ad abbracciare anche le varie manifestazioni della spiritualità cristiana. L’esigenza religiosa, vivissima nel Duecento (che vede, ricordiamo, le opere filosofiche di San Tommaso e di San Bonaventura) trova espressione in una produzione poetica legata a due movimenti con caratteristiche in parte diverse: uno nell’Italia settentrionale, d’intento moralistico-didascalico e i cui massimi esponenti sono il veneto Giacomino da Verona e il milanese Bonvesin della Riva; un altro nell’Italia centrale, soprattutto in Umbria, spiritualmente più profondo e rappresentato da personalità di rilievo come San Francesco d’Assisi (1182-1226) e Jacopone da Todi (1236 circa - 1306).
Il Cantico di Frate Sole (è questo il titolo più antico)o Cantico delle Creature di San Francesco, databile al 1224-1225, resta uno degli indiscussi capolavori della letteratura spirituale. (Non posso non osservare, qui, che Francesco sarebbe molto sorpreso nel constatare che la sua lauda è assurta a opera ammirata in ogni tempo da moltissimi studiosi e letterati, fra i quali Dostoevskij, Pascoli, Paul Claudel, Chesterton, Hesse, Papini).
Nei versi semplici e intensi del Cantico, il tema dell’amore cristiano e il motivo teologico della lode al Signore trovano una perfetta espressività poetica. Entro la cornice stilistica della «lode», Francesco innalza la sua preghiera di ringraziamento a Dio per l’amore e la pace che da Lui promana, per la bellezza del Creato e per l’esito finale della nostra vicenda terrena, la morte, cui dobbiamo prepararci per evitare la seconda, vera morte, quella delle anime che non riusciranno a sfuggire alla dannazione eterna.
L’importanza del Cantico va oltre il valore spirituale. Per Giulio Ferroni (Storia della letteratura italiana – Dalle origini al Quattrocento) i suoi versi, ritmati secondo schemi retorici della prosa latina medievale e dello stile biblico (il Cantico dei Cantici su tutti) compongono il primo testo volgare di estrema nitidezza e di alto valore poetico; dello stesso avviso sono quasi tutti i critici e storici della letteratura italiana, fra i quali Francesco Flora, Gianfranco Contini e Alberto Asor Rosa.
Insieme a Francesco, nell’ambito della tradizione scolastica delle laudes,emerge la voce originale, potente e drammatica di Jacopone da Todi. Autore quanto mai eclettico, Jacopone inizia col comporre alcune laudi, per poi esprimersi in canti di polemica politica e poesie di carattere popolare o giullaresco.
La sua vicenda umana è segnata dall’improvvisa conversione avvenuta nell’anno 1268, che secondo la leggenda fu determinata da una sciagura: durante una festa, il pavimento della sala crollò e sotto le vesti della moglie, perita nella sciagura, Jacopone trovò un cilicio, ruvido strumento di penitenza. Dopo la conversione, Jacopone trascorse i successivi dieci anni nella mortificazione e nel pentimento. Nel 1278 divenne frate laico nell’ordine francescano e si unì alla corrente rigoristica degli Spirituali, entrando in conflitto con il Papa Bonifacio VIII, ostile ai sostenitori di una vita di rigida povertà; imprigionato in un carcere della città di Palestrina, vi restò per cinque lunghi anni.
Con l’adesione al francescanesimo pauperistico, Jacopone si erse a paladino della lotta contro la società del tempo, che giudicava egoista e corrotta. Intransigente, «folle d’amore per Cristo» (come riporta la lapide collocata sulla sua tomba nell’anno 1596), egli sembra quasi godere dell’umiliazione del proprio io, della povertà e della malattia; ma è proprio offrendosi agli uomini come vile oggetto da schernire che può evidenziare in modo sarcastico i difetti e la presunzione di chi vive la religiosità in modo falso e vanaglorioso.
Come sottolinea Ferroni, «il punto d’arrivo di tutti questi atteggiamenti è l’esperienza mistica: la poesia di Jacopone è tutta tesa verso l’amore divino, che è gioia e tormento, pace totale e guerra interminabile. (…) Esso è suprema “esmesuranza” (parola frequentissima nel lessico di Jacopone), negazione di ogni limite, immensità che annulla ogni realtà, ogni consistenza del mondo e della persona che ne è posseduta».
Ma Jacopone sa parlare da vero poeta; nel noto Pianto della Madonna, i suoi versi, pur nel contesto drammatico della rappresentazione, raggiungono una tale finezza stilistica e una partecipazione commossa che pare di trovarsi dinanzi a un poeta diverso dall’autore della notissima lauda Que farai, fra’ Iacovone? e della ballata O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo.
Contemporaneamente alla letteratura religiosa, fiorisce in Italia una lirica popolare e giullaresca incentrata sui temi più vari. A una poesia d’amore spontanea e appassionata si affiancano argomenti politici, religiosi, scene quotidiane di grande efficacia artistica. Nell’ambito della poesia popolare, quella di stile giullaresco ha una connotazione particolare, perché – contrariamente a quanto si potrebbe pensare – i giullari erano persone di una certa cultura, che girovagavano di città in città intrattenendo i signori o il popolo con canti, componimenti poetici, scene mimiche e buffonesche. Il lascito più rilevante di questa lirica è il noto Contrasto del siciliano Cielo d’Alcamo, ovvero la poesia Rosa fresca aulentissima, opera chiaramente mimica e parodica (ma non scevra da un linguaggio colto) composta tra il 1231 e il 1250, dalla quale Francesco De Sanctis fa iniziare la storia della letteratura italiana.
Concludo questo contributo con due osservazioni. Come abbiamo potuto constatare, anche in Italia la poesia si colloca a un livello formale e sostanziale più elevato di quello della prosa. I motivi di tale prevalenza sono sostanzialmente due: la poesia in volgare ha già alle spalle le prove poetiche che, partendo dal mondo antico, arrivano sino ai rimatori in lingua d’oc; inoltre, la prosa si sviluppa soprattutto nell’ambito di interessi pratici, legati alla realtà, ai bisogni sociali ed economici.
È altresì importante (e forse scontato) precisare che la crescita letteraria della seconda metà del Duecento prelude a qualcosa di fondamentale per la letteratura italiana. Verso la fine del secolo, a Bologna, nasce una nuova scuola a opera di Guido Guinizzelli, che si sviluppa poi in Toscana e in particolar modo a Firenze. Sarà Dante, nella Divina Commedia (Purgatorio, canto XXIV, v. 57) a denominarla poesia del Dolce Stil Novo; ma con gli Stilnovisti e i rimatori realistici e borghesi (il più noto dei quali è Cecco Angiolieri), siamo già oltre le primitive espressioni letterarie del volgare. Qualche decennio più tardi, Dante stesso, Petrarca e Boccaccio inizieranno le opere che faranno del Trecento il secolo incontestabilmente più importante dell’intera storia letteraria italiana.
Armando Santarelli
(n. 1, gennaio 2020, anno X) |
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