Ricordare l’orrore: Arcipelago Gulag (II)

È dal pensiero di Marx e di Lenin, scrive Solženicyn nel secondo volume, che origina la ristrutturazione del vecchio sistema carcerario e la creazione dell’Arcipelago. Con le delibere dell’aprile-maggio 1919, il Comitato Esecutivo Centrale Panrusso stabilì che i lager di lavoro forzato dovessero essere creati in ogni capoluogo di Governatorato. Si iniziò dai campi di concentramento per i “nemici di classe”, ma questi furono giudicati poco severi, cosicché, nel 1922, furono fondati i lager settentrionali “di destinazione speciale”.
Le isole Solovki, nel Mar Bianco, si prestavano bene allo scopo; saranno esse a costituire l’embrione del futuro universo concentrazionario. Da quelle isole incontaminate, i monaci furono brutalmente scacciati, e i sacri monasteri vennero trasformati in tetre prigioni.
Nel capitolo dedicato alle isole Solovki (L’Arcipelago sorge dal mare), Solženicyn sferra un attacco frontale a Maksim Gor’kij. Dopo aver trascorso sette anni in Italia, a Sorrento, il grande scrittore russo era tornato in Patria nel 1928; ormai conquistato alla causa bolscevica, aveva ricevuto un’accoglienza trionfale da parte del regime sovietico. Nel giugno 1929, Gor’kij visitò ufficialmente il lager delle Solovki; ovviamente, tutto venne organizzato in modo da nascondere la miseria e le efferatezze che vi venivano commesse. Accadde però – scrive Solženicyn - che un quattordicenne chiese e ottenne un colloquio privato con lo scrittore, durante il quale il ragazzino rivelò le vere condizioni di vita dei detenuti. Gor’kij – continua Solženicyn – uscì commosso da quella conversazione, e tuttavia non esitò a stendere un elogio della vita che si conduceva in un luogo dove vigeva la dottrina di Naftalij Frenkel’, capo della Sezione Economica del lager: «Dal detenuto dobbiamo prendere tutto nei primi tre mesi, dopo non ci serve più».
Nel marzo 1928 il Consiglio dei Commissari del Popolo deliberò di rendere ancor più rigido il regime dei lager, e di impostare i lavori forzati in modo che lo Stato ne traesse un vantaggio economico. I due capisaldi dell’Arcipelago erano stati posti: il primo consisteva nell’acquisizione della manodopera necessaria per i bisogni economici dello Stato, il secondo nella fissazione del principio che solo il lavoro poteva rendere possibile la correzione di un condannato. Fu l’Arcipelago a mettere a disposizione la forza lavoro necessaria per la costruzione del Belomorkanal, il Canale che unì il Mar Bianco e il Baltico; realizzato per ordine perentorio di Stalin in soli venti mesi, con i detenuti che affrontavano lo scavo di centinaia di chilometri di roccia granitica con piccone, pala e carriola, il Canale inghiottì le vite di centinaia di migliaia di uomini.
Solženicyn non è meno caustico nei confronti di Gor’kij e altri noti scrittori (fra i quali Viktor Šklovskij, Vsevolodov Ivanov, Michail Zoščenko, Aleksej Tolstoj) che nell’agosto 1933 si recarono in gita (in corsivo nel testo) sul canale appena terminato. Il libro che raccolse gli articoli di 36 fra gli intellettuali che parteciparono alla visita (edito nel 1934 e intitolato Il Canale Stalin Mar Bianco-Mar Baltico) viene bollato da Solženicyn come l’opera che per la prima volta, nella letteratura russa, aveva «glorificato» il lavoro degli schiavi.
Anche le basi interne dell’Arcipelago non presentano segreti per Solženicyn: esse si basano su tre pilastri: il primo è la scala mobile del vitto, per cui a chi lavorava si dava di più (inganno tremendo, perché il cibo rimaneva comunque insufficiente per i lavoratori d’urto, che spesso perivano per l’immane fatica profusa); il secondo è la brigata, il collettivo nel quale diventa impossibile eludere la cinghia di trasmissione del lavoro; infine, la duplice autorità, quella della produzione, che investe i materiali e l’esecuzione del lavoro, e l’autorità del lager, che fornisce la manodopera: entrambe mirano all’unico scopo di costringere il detenuto a produrre di più.
Nel capitolo intitolato I benpensanti, Solženicyn muove un’aspra critica nei confronti dei «politici ortodossi», gli individui che, sebbene perfettamente consapevoli di aver ricevuto una condanna ingiusta, continuavano a mostrare una fanatica aderenza al partito. L’ondata degli arresti del ’37 sorprese e disorientò questa categoria: «E quale via d’uscita», scrive Solženicyn, «trovarono per sé? Quale decisione fu loro suggerita dalla teoria rivoluzionaria? La loro decisione vale tutte le altre spiegazioni. Eccola: più saranno le persone incarcerate e più in fretta, in alto, capiranno l’errore. Quindi, cercare di fare il maggior numero possibile di nomi. Fare il maggior numero possibile di deposizioni fantastiche. Non potranno arrestare l’intero partito
Gli attacchi al sistema continuano con la rivelazione delle tecniche utilizzate per strappare le delazioni: la promessa di sollevare il detenuto da certi lavori, di concedere un supplemento di cibo, di diminuire la pena, e, in caso di resistenza, l’infallibile grimaldello che riusciva a scardinare ogni difesa tramite una semplice domanda: «Come sta la tua famiglia?»
Solženicyn non trascura nessuna delle aberrazioni dell’apparato repressivo; esse si colgono ovunque, per esempio nell’indulgenza verso i delinquenti comuni, che ricevono pene più lievi e un trattamento migliore dei prigionieri politici, come pure nella decisione del «Grande Malfattore» (Stalin) di sottoporre alle pene previste dal Codice Penale anche i bambini sopra i dodici anni.
Sono tutte queste ingiustizie che fanno degli zek (i detenuti) un gruppo etnico tutto particolare, una comunità che presenta uniformità psicologica e di comportamento, un folclore proprio, una lingua comune. Quando ricevono un ordine, gli internati sanno come tirare l’elastico, ovvero «fanno cenno di sì con la testa», ma cercano di eludere il comando ricevuto. La verità è che non lavorano mai per un qualche senso patriottico, di appartenenza, perché la loro scala di valori è dettata dalla necessità. Al primo posto c’è la pajka, la razione di pane nero che costituisce la base del vitto quotidiano; al secondo c’è il tabacco, compreso quello di fabbricazione casalinga; al terzo posto i detenuti collocano la sbobba, una brodaglia priva di carne e di sostanza; infine, il sonno, fattore importante per trovare lo «slancio vitale» necessario per occupare posizioni di vantaggio.
La disamina della condizione del detenuto si conclude con l’indicazione delle difese passive che consentono di sopravvivere nel mondo del GULag, e che sono sostanzialmente due: l’indifferenza per il dolore proprio e altrui, e il fatalismo verso gli eventi. Inoltre, lo zek evita di parlare del presente; invece, come per una sorta di compensazione, ama ricordare la vita che conduceva prima dell’arresto. La stridente differenza con il regime detentivo vissuto da Dostoevskij cento anni prima non sfugge a Solženicyn: «È interessante a questo punto un confronto con la narrazione di Dostoevskij. Questi osserva che ognuno portava in sé, e ne soffriva, la storia di come era capitato nella “Casa dei morti”, ma non si usava parlarne. Noi lo possiamo capire benissimo: si capitava nella “Casa dei morti” per un delitto, ed era penoso per i galeotti ricordarlo. Uno zek capita invece nell’Arcipelago per una mossa incomprensibile del fato o per un malefico concorso di circostanze implacabili, ma in nove casi su dieci sente di non aver commesso alcun “delitto”, e quindi non esiste racconto più avvincente e che susciti una partecipazione più viva nell’uditorio di quello su come uno sia “capitato” nell’Arcipelago».
L’analisi economica del mondo concentrazionario viene svolta da Solženicyn nel breve capitolo Noi costruiamo. Utilizzando i parametri staliniani, i lager trovano anzitutto una motivazione politico-sociale, essendo luoghi dove si possono confinare milioni di «nemici» dello Stato. Ma più che a delle necessità di carattere politico, l’affollamento delle prigioni avrebbe dovuto assecondare concrete esigenze economiche, obiettivo – osserva l’autore – che è lungi dal realizzarsi; infatti, nonostante il ricorso alla massiccia e gratuita forza-lavoro, l’Arcipelago non riesce ad autofinanziarsi, soprattutto a causa della scarsa dedizione al lavoro di detenuti malnutriti e vessati, dell’incompetenza di ingegneri, direttori dei lavori e responsabili dei campi, e della necessità di mantenere un cospicuo numero di ispettori, dirigenti, amministratori, personale specializzato, militari, guardiani e sentinelle.
In uno degli ultimi capitoli, l’autore cita Šalamov per confermare un dato inesorabile: nelle isole del GULag tutti i sentimenti umani più comuni abbandonano il detenuto, tutti meno uno: la rabbia. Corruttore dell’animo, il lager genera quella degradazione che un vecchio internato aveva definito «rogna spirituale». A parte i casi isolati ed eroici di uomini e donne decisi a non agire contro i propri principi, i lager inquinano le coscienze, né servono a emendare i corrotti, che semmai vengono ancor più pervertiti dal regime carcerario. Alla luce di quanto esposto, Solženicyn pone una delle sue tipiche domande improvvise e spiazzanti, perché dense di significato: «E se l’uomo non ha nulla da cui correggersi? Se non è affatto un criminale? Se è stato messo dentro perché pregava Dio, o esprimeva un’opinione personale, o era stato prigioniero di guerra, o perché è figlio di suo padre, o, semplicemente perché bisogna mettere dentro un certo numero di persone: che cosa gli potranno dare i lager?»
Il sarcasmo dell’autore si trasforma in ira nel capitolo La libertà tartassata, dove vengono puntualmente elencati gli stati d’animo che nelle prigioni sostituiscono i sentimenti della vita libera: ed ecco la costante paura, il sentirsi «immatricolato» (cioè nell’impossibilità di mutare domicilio e lavoro), la circospezione e la diffidenza verso tutti, l’indifferenza per amici e familiari posti sotto accusa o arrestati, la corruzione dell’animo che spinge a diventare «assassini con l’inchiostro» (cioè delatori), la menzogna come abito mentale che esige un vero e proprio prontuario di gesti, frasi fatte, calcoli, nomi, per cui «non c’è uomo che abbia pubblicato una sola pagina senza mentire. Non c’è uomo che sia salito in tribuna senza mentire. Non c’è uomo che abbia parlato al microfono senza mentire».

Col terzo volume di Arcipelago GULag, Solženicyn insiste nel serrato confronto tra il periodo zarista e il dominio staliniano circa il trattamento riservato agli oppositori politici. L’autore non ha difficoltà a ribadire la relativa mitezza del confino coatto sotto gli zar, sebbene ammetta che lo sradicamento dalla società e dai legami vitali si traducesse comunque in una condizione di smarrimento e di vuoto, specialmente fra gli intellettuali.
Le cose cambiano con la rivoluzione; per gli esponenti “socialmente pericolosi” e “antisovietici” viene prevista la deportazione in colonie lontane e isolate, presto combinata con i lavori forzati. Sono i luoghi di confino, scrive l’autore, «dove furono rinchiuse preventivamente tutte le pecore destinate al macello».
La Russia, ricorda Solženicyn, aveva già conosciuto un duro periodo repressivo, quello instaurato da Pëtr Stolypin, Primo Ministro dell’Impero Russo sotto lo zar Nicola II. Ma l’autore si affretta ad aggiungere che non si può condividere l’affermazione di Tolstoj che non ci fosse nulla di più orribile delle corti marziali di Stolypin; infatti, precisa Solženicyn, non si possono paragonare esecuzioni che avevano luogo di tanto in tanto e in una città ben conosciuta con quelle effettuate «dappertutto e ogni giorno, e non in ragione di venti, ma di duecento per volta, e i giornali non ne scrivono una parola né a caratteri di scatola né a caratteri minuti, e ripetono: “La vita è diventata più bella, la vita è diventata più allegra”».
Nel capitolo dedicato al regime del confino, Solženicyn mostra la progressione micidiale che trasformò l’istituto dell’esilio a distanza nella deportazione in colonie lontane ed isolate. Per esempio, il provvedimento del Comitato Centrale del Partito Comunista-Bolscevico in data 5 gennaio 1930, per il quale il Partito poteva «nel lavoro pratico, passare, in modo del tutto motivato, dalla politica di limitazione delle tendenze dei kulaki a quella della loro liquidazione».
Era l’inizio di quella che l’autore chiama, nel capitolo omonimo, “la peste contadina”: «Quanto alla silenziosa peste traditrice che ha inghiottito quindici milioni di contadini, non alla rinfusa, ma scelti, spina dorsale del popolo russo, su questa Peste non esiste un solo libro. Dei sei milioni fatti artificialmente morire di fame bolscevica in Ucraina, dove la collettivizzazione fu introdotta con mezzi che superarono ogni limite di umana efferatezza, di questo tacciono tanto la nostra patria quanto la limitrofa Europa».
E più avanti: «Non si trattò affatto di “dekulakizzare”, ma di cacciare a forza nei kolchoz (…) Fu una seconda guerra civile, questa volta contro i contadini. Fu questa la Grande Frattura; già, ma non ci dicono frattura di che cosa. Della spina dorsale del popolo russo. No, abbiamo calunniato la letteratura del realismo socialista: ha descritto la “dekulakizzazione”, eccome, in una maniera liscia, con molta simpatia, come una caccia a lupi zannuti. Però non ha descritto le lunghe serie di villaggi, tutti con le finestre inchiodate. Camminando lungo la strada vedi una donna morta, con un bambino morto sulle ginocchia. Oppure un vecchio seduto per terra, appoggiato a una staccionata, ti chiede del pane e quando torni indietro è già caduto da un lato, morto».
Le due ultime considerazioni di Solženicyn sono dedicate a chi è sopravvissuto alla detenzione, e all’errore, da egli stesso commesso, di pensare di aver raccontato il passato. Infatti, alla liberazione si reagisce in modo diverso: c’è chi nella libertà subisce un fenomeno di decompressione e si lascia andare, e chi, invece, riprende animo. Ma Solženicyn sottolinea il profondo smarrimento interiore che si prova all’atto della liberazione, quel sentirsi «nell’al di là» che si risolve nella grande difficoltà di adattamento a un mondo nuovo. Non è raro che gli ex detenuti rimangano nei pressi del lager o che affermino che la vita, in quei luoghi, non era poi così dura; soprattutto, vogliono dimenticare, conquista quasi impossibile, perché il ricordo del lager «rode sempre il cuore».
La seconda osservazione è legata alla pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovič, il primo libro in cui Solženicyn aveva riflesso l’esperienza del lager. L’opera fu dapprima esaltata dagli ex prigionieri, dai leader post-staliniani e dai giornalisti; poi l’apparato statale fermò l’ondata di consensi, e il libro fu dichiarato nocivo e tolto dalle biblioteche. Intanto, gli zek avevano esternato la loro collera per la convinzione di Solženicyn che l’Arcipelago non si sarebbe più ripetuto. «E gli zek urlavano: come non si ripeterà più, se noi siamo dentro adesso e nelle medesime condizioni?»
Nessun commento meglio di quello dell’autore stesso potrebbe compendiare il senso e la forza di Arcipelago GULag, e la volontà che quanto riportato non debba ripetersi: «Nonostante i colpi di maglio della tempesta, la nave della Legge naviga maestosa e lenta. Se domani si ordinasse nuovamente di mettere dentro milioni di persone per reati d’opinione, o deportare interi popoli (nuovamente gli stessi oppure altri) o città intere, e di appendere ai detenuti quattro numeri, il possente fasciame della Legge quasi non fremerebbe, la sua asta di prua non si piegherebbe. La sola cosa immutabile è il verso di Deržavin, comprensibile soltanto per il cuore di chi l’ha provato su se stesso: “Un tribunale iniquo è peggio d’un brigante”. Questo sì, è immutabile».

Quando si è letto Arcipelago GULag non si possono eludere le domande che ci ponemmo io e mia sorella dopo la prima lettura. Com’è stato possibile condannare degli esseri umani in base ad accuse fasulle? Com’è stato possibile far soffrire in modo tanto atroce delle persone innocenti?
Solženicyn, nel primo volume, semplifica sensibilmente la questione, indicando due fattori: in primis l’ideologia, ossia la creazione di una teoria sociale che potesse fornire la giustificazione del male che si arrecava; inoltre, legittimata dall’ideologia, la malvagità di cui sono capaci alcuni esseri umani, «elemento inconfutabile» senza il quale l’Arcipelago non sarebbe esistito.
Oggi, dopo la lettura di testi importanti quali il saggio di Nicolas Werth Uno Stato contro il suo popolo (contenuto nel celebre e discusso Libro Nero del Comunismo), la biografia di Stalin, dal titolo omonimo, a cura di Oleg V. Chlevnjuk, l’opera di Robert Conquest Il grande terrore. Gli anni in cui lo stalinismo sterminò milioni di persone, credo di poter riassumere – senza alcuna pretesa di scientificità – le possibili, concomitanti cause della terribile tragedia che i libri sulle «isole» del GULag hanno denunciato.
E dunque, penso che sia impossibile non riferirsi alla violenza che aveva permeato gli eserciti e le popolazioni civili negli anni della Prima Guerra Mondiale; al timore dei capi bolscevichi – reduci da una cruenta guerra civile – di poter perdere il potere a causa degli sforzi congiunti di una nazione straniera e soprattutto di componenti controrivoluzionarie interne; all’ideologia perversamente messianica per cui un mondo “corrotto” poteva essere emendato solo col subentro di una società “scientificamente giusta”, implacabile nel perseguire i propri scopi, insomma un’ideologia elevata al rango di verità assoluta, cui anche la morale doveva cedere; alla persuasione dei leader bolscevichi che il capitalismo potesse essere combattuto efficacemente solo schiacciando la classe che lo esprimeva; alla convinzione, che fu prima di Lenin e poi di Stalin, che il mantenimento del potere esigeva l’impiego di ogni mezzo, violenza compresa; ai metodi antidemocratici connaturati a qualsiasi dittatura; al darwinismo sociale comunista che pretendeva di decidere sulle specie “dannose”, cancellando le remore nel denunciare, tradire, uccidere; infine, a quello smerdyakovismo, quella crudeltà dell’anima russa di cui parlano i suoi stessi scrittori.
Un passo del saggio di Nicolas Werth mi colpì, nella sua mostruosa essenzialità, quanto la lettura delle pagine più terribili di Arcipelago GULag e dei Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov. L’ideologia del terrore rosso e poi staliniano era già perfettamente delineata nell’impressionante editoriale del primo numero di Krasnyj Meč (Il Gladio Rosso), giornale della Čeka di Kiev, in data 18 agosto 1919: «Respingiamo i vecchi sistemi di moralità e “umanità” inventati dalla borghesia alla scopo di opprimere e sfruttare le “classi inferiori”. La nostra moralità non ha precedenti, la nostra umanità è assoluta perché si basa su un nuovo ideale: distruggere qualsiasi forma di oppressione e di violenza. A noi tutto è permesso, poiché siamo i primi al mondo a levare la spada non per opprimere e ridurre in schiavitù, ma per liberare l’umanità dalle catene (…) Sangue? Che il sangue scorra a fiotti! Perché solo il sangue può tingere per sempre la nera bandiera della borghesia pirata, trasformandola in uno stendardo rosso, la bandiera della Rivoluzione».
È un brano spaventoso, raccapricciante. E tuttavia, quando venne concepito, si era nella fase della teoria, dell’ideologia che non riusciva ancora a trasformarsi in metodo, in una prassi mostruosa da applicare senza alcun limite morale. Solženicyn capì e visse sulla propria pelle questo tragico passaggio; e per quanto Arcipelago GULag si ponga come una grande opera saggistica, la sua forza principale risiede nella denuncia, nell’atto di accusa che l’autore pone su basi oggettive, ma che formula con espressioni, interrogativi retorici, sarcasmi di una ferocia che ha pochi eguali nella letteratura mondiale. Il fatto è che Solženicyn scrive Arcipelago GULag con piena partecipazione emotiva, con i suoi conflitti irrisolti, il suo risentimento, il suo desiderio di rivalsa. Impossibile rimanere su un diverso piano espositivo: la realtà non gli consentiva una narrazione che rifuggisse dal rancore accumulato per accuse assurde, fondate non sull’ingiustizia, ma, peggio, sul niente. Un uomo può anche sopportare un singolo sopruso, ma non una ripetuta, totale violazione dei propri diritti, della propria intelligenza, della propria dignità.
Certo, alcune delle pagine più biliose di Solženicyn possono ingenerare una certa presa di distanza, quel senso critico che nasce dinanzi all’eccesso, al grido di vendetta, alla rivincita attuata con toni esagerati ed esteticamente discutibili. Ma noi siamo lettori, spettatori, mentre Solženicyn è stato una delle vittime innocenti della più grande tragedia del Novecento, che fa un drammatico pari con l’Olocausto degli Ebrei.
È la tragedia di un’accusa improvvisa, falsa, immeritata, ingiusta, cui era impossibile replicare se non con quel belato d’agnello «I-io? Perché?», pronunciato milioni di volte e che non riceveva mai una risposta.


Armando Santarelli
(n. 10, ottobre 2024, anno XIV)