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Il caso Sylvia Plath (II)
Perché Sylvia Plath si suicidò? Alla base si situano certamente la fragilità psichica e i cedimenti nervosi che segnarono penosamente la sua esistenza; come abbiamo visto, Sylvia aveva già tentato di togliersi la vita.
Impossibile non rifarsi anche al troppo che si agitava in lei sin da bambina: troppo sensibile, troppo vogliosa di veder riconosciute le sue straordinarie qualità, di eccellere nelle discipline che amava, di attingere la gloria letteraria. È quanto conferma la compianta scrittrice Stefania Caracci nel breve e intenso Sylvia Plath, i giorni del suicidio (2001): «Certo che la sua ossessiva considerazione che la vita non avesse senso viverla, se non fosse possibile tradurla in scrittura, l’ha senz’altro condotta verso esperienze al limite, dove arte e vita si identificano, e l’artista si sdoppia, fino a volersi liberare definitivamente del sé fisico, privilegiando il poeta».
Non è neppure escluso, come pensarono dopo il suicidio le intime amiche Catherine Frankfort e Lorna Secker-Walker, che Sylvia stesse soffrendo di una depressione post partum.
C’è da aggiungere che l’inverno del 1962-63 è ricordato come il più freddo del secolo. Dal 24 dicembre, la neve cadde per giorni; le strade erano trasformate in piste di ghiaccio, la corrente elettrica subiva continue interruzioni, l’acqua gelava nelle tubature.
Detto questo, i fattori preponderanti nella discesa di Sylvia verso l’abisso appaiono altri: la dolorosa separazione con Ted, la prospettiva di dover crescere i figli senza un uomo accanto, le preoccupazioni di natura economica, le precarie condizioni di vita.
Nella settimana precedente il suicidio, ogni persona che la vide la descrive come sfasata, assente, preda di continui sbalzi di umore e incapace di prendersi adeguata cura dei figli.
Un ultimo dato è da tenere in considerazione: sappiamo che il dottor Horder le aveva trovato un posto per lunedì 11 febbraio presso una struttura psichiatrica pubblica, l’Halliwick Hospital; la prospettiva aveva sicuramente spaventato Sylvia, terrorizzata dai «mental hospitals». Verosimilmente, essa venne a conoscenza della decisione del medico nella mattina di venerdì 8 febbraio; forse fu quella rivelazione a spingerla verso un ultimo, disperato contatto con suo marito. Infatti, Hughes testimonia di aver ricevuto, nel pomeriggio dello stesso 8 febbraio, una brevissima nota di Sylvia. Nell’abbozzo di una sua poesia non datata e mai pubblicata, che aveva intitolato Ultima lettera, Hughes lascia intendere che le ultime parole dello stringato messaggio alludessero a un possibile suicidio: «Goodbye / My darling love goodbye I am finishing / Everything».
Sull’episodio abbiamo il resoconto steso da Hughes subito dopo la morte di sua moglie. Egli scrive che dopo aver ricevuto la breve comunicazione si precipitò a Fitzroy Road e chiese a Sylvia cosa significassero quelle parole. Lei, fredda e ostile, avrebbe strappato la nota, bruciato i pezzi in un portacenere e intimato a Ted di andarsene. Hughes aggiunge che era anch’essa in procinto di uscire, ma che non poté mai appurare dove fosse diretta.
La versione di Hughes ha un potenziale riscontro: nel pomeriggio dell’8 febbraio, tornato dal lavoro, Thomas trovò la porta d’ingresso dello stabile insolitamente aperta. Un’ora più tardi vide Sylvia seduta nella sua macchina, pallida, lo sguardo fisso nel vuoto; Thomas le chiese se stesse bene, e lei rispose: «Sto per fare una lunga vacanza, un lungo riposo».
Esposti i fatti, una domanda appare cruciale e imprescindibile: Sylvia Plath sarebbe arrivata al gesto estremo se il marito non avesse ceduto al fascino di una donna priva di scrupoli, che aveva programmato di sedurre Ted, come confidò al supervisore dell’Agenzia pubblicitaria per cui lavorava? (Com’è noto, la fine di Assia Wevill non fu meno drammatica. Schiacciata dal confronto con la Plath, biasimata dalla società londinese per averle sottratto il marito, insicura dell’amore di Ted, il 23 marzo 1969 Assia Wevill si suicidò con le stesse modalità di Sylvia, trascinando nella morte Alexandra, detta «Shura», la figlia che aveva avuto da Hughes).
La mia risposta, che è anche una risposta a chi minimizza le colpe di Ted Hughes (per esempio rifacendosi al suo io istintivo e quasi animalesco di novello Heathcliff e di cultore della mitologia e della Cabbala) è che Sylvia non avrebbe posto fine ai suoi giorni se avesse continuato ad avere accanto il marito che amava e che l’aveva ingannata, facendole scoprire che neppure la poesia può salvare quando nella parola non rimane che il sentimento dell’odio e dell’impotenza.
Una drammatica lettera in data 24 settembre 1962, diretta alla madre, mostra tutta la delusione e la rabbia per il triste epilogo del suo matrimonio: «Ho investito tutto ciò che avevo nella nostra vita insieme, senza riserve, tutti i miei guadagni, e adesso lui è a posto (…) È un vampiro che è entrato nella mia vita, uccidendo e distruggendo tutto».
Sylvia è chiaramente sconvolta, e qui esagera; Ted, fino a quando non ha iniziato a tradirla, ha fatto molto per lei dal punto di vista letterario, sentimentale e umano. Ma la collera espressa da Sylvia è diretta anche verso sé stessa, per aver giudicato in modo sbagliato l’uomo cui aveva unito il suo destino. Si stenta a credere che il «prorompente Adamo» che aveva sposato sia lo stesso di cui parla nella lettera alla madre del 16 ottobre 1962: «(Ted e Assia) già si chiedono perché non mi sono ancora suicidata, visto che ci ho già provato!»
Heather Clark si chiede se accuse di una tale gravità siano attendibili; è un fatto che Sylvia, scrivendo al fratello Warren il 18 ottobre, ripete che «Ted sta cercando di strumentalizzare il mio esaurimento nervoso e mi dice che gli farebbe comodo che fossi morta». Sempre il 18 ottobre, nella lettera indirizzata alla sua protettrice di sempre, Mrs. Prouty, conferma che Ted avrebbe voluto che lei si uccidesse; e il 21, alla dottoressa Beuscher, scrive che «Ted mi ha detto apertamente che mi vuole morta, che sarebbe una cosa conveniente… Era furioso perché io non mi fossi suicidata, diceva che era sicuro che l’avrei fatto».
Frasi del genere minerebbero la stabilità emotiva e psicologica di qualsiasi persona; è opportuno precisare che in quei giorni la Plath, pur prostrata e delusa, era nel pieno delle facoltà mentali, e non c’è motivo per dubitare della sua sincerità.
Naturalmente, sul suicidio della moglie Ted Hughes ha le sue spiegazioni, grossolanamente prosaiche in verità: il fattore decisivo sarebbe legato a The Bell Jar, le cui contrastanti vicende editoriali avrebbero condotto Sylvia ad assumere i farmaci che l’avrebbero perduta. In particolare, in una lettera del 1986 diretta ad Anne Stevenson (autrice di una controversa biografia della Plath), Hughes ipotizza che il sonnifero prescritto dal dottor Horder fosse «il fattore chiave nella morte di Sylvia, il fattore meccanico». Riferendosi a ciò che ricordava di aver letto nelle pagine del diario della moglie da lui distrutte, Hughes parla del possibile uso errato di un antidepressivo anfetaminico al quale Sylvia sapeva di essere allergica, ma che assunse perché commercializzato in Inghilterra con un nome diverso da quello americano. Più precisamente, Hughes si riferiva al «terribile intervallo» che correva tra il momento in cui una pillola perdeva il suo effetto e l’azione della successiva; è in uno di tali intervalli che la moglie avrebbe messo in atto il suo gesto.
Concesso che l’assunzione di due anfetaminici, un oppioide, un barbiturico e il farmaco per il raffreddore abbia avuto la sua parte, non si può non rimarcare che assai prima di quello «meccanico» avevano agito in profondità ben altri elementi: la distruzione di un amore, di una famiglia, la prospettiva di un divorzio, la solitudine, la malattia, cui bisogna aggiungere le ferite e le umiliazioni inferte a Sylvia negli ultimi mesi della sua esistenza.
Come accennavo sopra, Ted Hughes farà torto a Sylvia Plath anche dopo la morte di lei, manipolando più volte la sua opera letteraria. Il primo arbitrio, Hughes – che in assenza di testamento e di un atto di divorzio deteneva la proprietà letteraria di sua moglie – se lo prese rivedendo e risistemando il dattiloscritto delle poesie di Ariel, al quale Sylvia, prima di suicidarsi, aveva dato una completa sistemazione.
Per Anna Ravano, l’ordine delle poesie stabilito dall’autrice «non è quello cronologico, ma disegna piuttosto un percorso poetico ideale, racconta una storia di imprigionamento e di liberazione, di annichilimento, rabbia e sopravvivenza che inizia, come la Plath stessa fa notare a Ted Hughes, con la parola love, “amore” e si chiude con la parola spring, “primavera”».
Ma la raccolta che Ted Hughes pubblica in Inghilterra nel marzo del 1965 presso la casa editrice Faber & Faber, pur essendo ancora intitolata Ariel, presenta parecchie novità rispetto alla struttura che Sylvia aveva disegnato. Hughes si prende la licenza di eliminare dodici poesie e di aggiungerne tredici, nove delle quali composte da sua moglie nel 1963. Tra le poesie escluse, le notevoli Il cacciatore di conigli, Donna sterile, Un segreto, Il carceriere, Il detective, L’altra, Il coraggio di tacere.
Così Hughes giustifica il suo operato: «L’Ariel che fu dato alle stampe era un volume abbastanza diverso da quello che (Sylvia Plath) aveva progettato. Incorporava gran parte della dozzina circa delle poesie scritte nel 1963, benché essa, riconoscendone la diversa ispirazione, le considerasse l’inizio di un nuovo libro. Delle poesie del 1962 ometteva le più aggressive sul piano personale e ne avrebbe forse omessa qualche altra se non si fosse trattato di poesie già pubblicate da Sylvia Plath su rivista, e quindi ormai ampiamente note nel 1965».
Sulla questione, ecco il pensiero della Wagner-Martin: «Omettendo alcune delle poesie più forti (…) Hughes confezionò la raccolta in modo da renderla meno autobiografica. Forse le poesie più genericamente rabbiose non rientravano per lui nei criteri dell’arte di successo; qualunque sia stata la motivazione, la raccolta di Hughes risultò alquanto diversa da come l’aveva intesa la Plath. Inserendo le poesie del 1963, che avevano un tono e uno stile decisamente diversi, al posto di quelle più rabbiose del 1962, Hughes alterò notevolmente il tenore di Ariel».
Forse la cosa va giudicata in modo meno indulgente. Hughes motiva lo stravolgimento di Ariel con criteri di natura estetica, editoriale, e, dichiaratamente, di opportunità personale. Invero, pubblicare la raccolta di Ariel in modo così difforme da come l’aveva progettata sua moglie contribuiva a sviare il dito di accusa che le poesie escluse indirizzavano contro di lui. Ora, c’è da osservare che anche composizioni come Daddy, Lady Lazarus, Febbre a 40°,andavano nel senso di quelle estromesse;è più che verosimile, dunque, che Hughes avrebbe lasciato fuori anche queste perle poetiche se non fossero state già presentate dall’autrice in un programma della BBC del 30 ottobre 1962, e successivamente (dall’agosto all’ottobre 1963) pubblicate su riviste come The Review, Poetry, The Encounter.
La domanda è ineludibile: che cosa sarebbe rimasto, allora, della raccolta preparata da Sylvia? Altro che criteri di natura estetica, siamo dinanzi a una palese operazione di convenienza personale! Hughes non tenne in alcun conto la volontà di Sylvia e non fece altro che aggiustare le cose pro domo sua.
Ma ci sono altre prove della slealtà di Hughes verso la memoria e l’opera letteraria di Sylvia Plath. Innanzitutto, Hughes distrusse centinaia di pagine dei diari di Sylvia, la quale, nella stesura dei suoi pensieri quotidiani, ha prodotto alcune delle cose più straordinarie della sua carriera letteraria.
Più precisamente, nell’introduzione (e in un successivo commento) a The Journals of Sylvia Plath - una selezione dei diari apparsa nel marzo 1982 presso The Dial Press – Hughes, curatore dell’opera insieme a Frances McCullough, parlava di due quaderni contenenti i diari dalla fine del 1959 a tre giorni prima della morte di Sylvia. Dei due quaderni, uno, quello recante il diario del 1963, era stato distrutto da lui stesso, «perché non volevo che i suoi figli lo leggessero (in quei giorni dimenticare mi appariva essenziale per la sopravvivenza)». L’altro, con i diari 1960-62, gli risultava «scomparso più di recente (e potrebbe, presumibilmente, essere ritrovato)»
La sorella di Ted, Olwyn Hughes, una delle tre persone che ebbero la possibilità di leggere i diari (la terza è Assia Wevill) ha affermato che una delle ragioni che mossero Ted a bruciare le pagine di sua moglie consisteva nella volontà di «proteggere» i bambini dalla prospettiva di leggere di una madre arrivata a umiliarsi con altri uomini». Olwyn – leggiamo nella biografia della Clark – alludeva ad Alfred Alvarez, al poeta Richard Murphy e, presumibilmente, a un altro poeta, William Stanley Merwin. La stessa Olwyn precisava di aver letto nei diari di un incontro sessuale, e non platonico, fra la cognata e Alfred Alvarez.
A sua volta, in una lettera degli anni ’90 al critico letterario Jacqueline Rose (ma mai spedita), Ted scriveva di essersi disfatto del diario «per proteggere qualcun altro». Quel ‘qualcun altro’, scrive Heather Clark, «avrebbe potuto essere Assia, ma più probabilmente Alvarez». Hughes si sarebbe sentito obbligato a «proteggere» Alvarez perché era stato suo amico e perché, tradendo e abbandonando Sylvia, aveva egli stesso favorito l’avvicinamento fra lei e Alvarez.
Infine, sia Olwyn sia Ted Hughes evocano un’altra giustificazione per la decisione di eliminare l’ultimo diario di Sylvia: in quelle pagine, lei avrebbe contemplato la possibilità, all’atto del suicidio, di portare «con sé» la vita dei figli.
Restano i fatti, gli incontestabili danni provocati da Ted Hughes: la distruzione di un prezioso documento biografico e letterario, e la perdita di un altro, mai ritrovato, un vuoto che si avverte con sgomento quando ci si immerge nella lettura degli Unabridged Journals of Sylvia Plath, pubblicati negli Stati Uniti d’America nell’ottobre 2000.
I Journals della Plath iniziano nel giugno 1950 (il 1954 è completamente assente) e si interrompono il 15 novembre 1959. È impossibile, scorrendo le sparute pagine del 1961 e la «selezione» di quelle del 1962, non provare un vivo rammarico (nel mio caso, anche un’enorme rabbia) per le perdite dovute alle decisioni di Hughes. Con scelte e giustificazioni che si commentano da sole, Ted Hughes ha cancellato per sempre tre anni di pensieri, idee, gioie, angosce, commenti, insomma tutto l’ultimo mondo interiore di Sylvia Plath.
Una seconda ingerenza di Hughes nella produzione scritta di sua moglie viene effettuata in collaborazione con altri attori della vita di Sylvia. Dopo la pubblicazione di The Bell Jar negli Stati Uniti (aprile 1971), Aurelia Schober, allo scopo di rettificare l’immagine poco lusinghiera della madre della protagonista del romanzo, inizia a riordinare le circa settecento lettere scritte da Sylvia tra il 1950 e il febbraio 1963. Ma la proprietà letteraria della corrispondenza di sua figlia appartiene a Ted Hughes, il quale, pur cedendole il copyright, si riserva di intervenire sulle scelte definitive; è ciò che accadrà in Letters Home, volume pubblicato da Aurelia nel 1976. I rimaneggiamenti, operati dal trio Schober-Hughes-McCullough, avevano un duplice intento: da una parte, come già detto, assecondare il desiderio di Aurelia di mostrare al mondo una figlia e una madre diverse dai personaggi emersi da The Bell Jar; dall’altra, l’interesse di Hughes di eliminare particolari privati e giudizi formulati dalla moglie in alcuni periodi della loro vicenda coniugale.
Hughes si ritaglia un meritato riscatto con la pubblicazione, nel settembre 1981, dei Collected Poems di Sylvia Plath. L’antologia, che aveva curato di persona e di cui aveva scritto l’Introduzione, raccoglieva 224 poesie della maturità e 50 poesie giovanili, e ottenne consensi dalla maggior parte della critica. Non c’è dubbio che grazie ai Collected Poems, l’opera di Sylvia accrebbe notevolmente la sua importanza nel panorama letterario anglo-americano. La poetessa e saggista Katha Pollitt, su The Nation del 16 gennaio 1982, parlò di «una di quelle carriere poetiche (come quella di Keats) in consistente trasformazione, che ha trovato rapidità e sicurezza osando sempre di più e diventando sempre più individuale. Inoltre, diventò sempre più chiaramente sé stessa, e quando si dedicò a scrivere le ultime settanta, ottanta poesie, non c’era altra voce sulla Terra se non la sua».
A sancire la definitiva affermazione letteraria di Sylvia Plath, arrivò, nell’aprile 1982, la vittoria postuma nel Premio Pulitzer per la poesia; due anni dopo, Ted Hughes fu nominato Poeta Laureato d’Inghilterra, titolo che mantenne sino alla morte, che lo colse nel 1998.
Le note liete sulla vicenda letteraria di Sylvia subiscono una nuova interruzione con la terza ingerenza messa in atto da Ted Hughes. Arriviamo infatti a quella che la Wagner-Martin definisce «l’usurpazione della narrativa di Sylvia Plath». Così scrive la studiosa: «All’inizio del 1998, praticamente senza nessuna anticipazione o critica preliminare, Ted Hughes pubblicò le 88 poesie di Birthday Letters. Questa raccolta, formata da poesie sulla Plath o composizioni in risposta ai suoi scritti, includeva solo alcuni testi precedentemente pubblicati: era un tesoro segreto – forse una bomba segreta – e dal titolo fino ai contenuti sembrò concepita per far infuriare i lettori della Plath. Tanto per cominciare, il titolo del libro: il compleanno della Plath era il 27 ottobre, ma la raccolta uscì nel mese di febbraio, quasi a commemorare il giorno del suicidio, l’11 febbraio 1963». (Ma su quest’ultimo punto, come ammette la stessa Wagner-Martin, Hughes potrebbe essere giustificato; forse accelerò la pubblicazione perché sapeva di avere un tumore; in effetti, morirà alcuni mesi dopo, il 28 ottobre 1998).
Continua l’autrice: «Il libro era sicuramente un affronto: di nascosto, Hughes aveva scritto alcune poesie basate sulle opere più famose della Plath. Aveva discusso della narrativa proposta dalle poesie della moglie. Si era prefissato il compito di correggere la storia che Sylvia aveva raccontato. Con voce piatta e letterale, aveva creato intenzionalmente una produzione razionale, lontanissima dall’esuberanza, dall’intensità e dall’umorismo dell’ultima voce della Plath. (…) Non solo le poesie di Hughes usurparono l’autorità narrativa della Plath, ma rischiarono di cancellarne anche la voce».
A dire il vero, su Birthday Letters la critica si divise: Katha Pollitt ne diede un giudizio in chiaroscuro, il critico Jack Kroll, su Newsweek, parlò di «autodifesa retroattiva» e rilevò l’assenza di qualsiasi «profonda autoanalisi», ma la scrittrice e critica letteraria Michiko Kakutani, nota per la sua severità, giudicò la raccolta «notevolmente libera da autocommiserazione, vendetta e stato confusionale».
Altre critiche arrivarono all’autore per aver nuovamente eliso le sue responsabilità nel suicidio della moglie. Ma uno degli scopi di Hughes fu proprio quello di smorzare il biasimo di cui era fatto oggetto dal giorno della morte di Sylvia; in un paio di occasioni, l’autore dichiarò che con Birthday Letters si sentì alleggerito dai sensi di colpa, e aggiunse di provare rammarico per non aver pubblicato prima la raccolta. A dispetto dei pareri contrastanti della critica, Birthday Letters ottenne un vasto successo di pubblico e vinse numerosi e prestigiosi premi letterari.
Avremmo preferito concludere qui il nostro contributo; ma ai comportamenti riprovevoli o quantomeno discutibili di Hughes c’è da aggiungere la vendita alla Smith College Rare Books Room della raccolta di manoscritti, libri e persino di alcuni mobili appartenuti a sua moglie, e la conservazione – definita «quasi maniacale» dalla Wagner-Martin – dei diritti per la riproduzione delle sue opere.
A volte non riusciamo a comprendere bene ciò che ci provoca avversione per una persona; nel caso di Ted Hughes, è il suo lato equivoco, il suo cinismo, la sua parte nel suicidio di Sylvia Plath e la vischiosa contraffazione della sua opera a destare in me un’antipatia che rasenta l’astio vero e proprio. Altri, certamente migliori di me, hanno perdonato, o giustificato le sue azioni; io non ci riesco.
Armando Santarelli
(n. 7-8, luglio-agosto 2024, anno XIV) |
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