Il caso Sylvia Plath (I)

Come in tutti gli ambiti dell’agire umano, anche nel campo letterario è possibile sviluppare cordiali antipatie. Per quanto mi riguarda, in cima alle mie idiosincrasie è saldamente in testa il poeta inglese Ted Hughes, marito e poi erede della proprietà letteraria di Sylvia Plath, una delle maggiori poetesse del Novecento.
È impossibile racchiudere in una definizione esauriente l’opera di questa autrice. Nella sua poesia, che raggiunge vertici inauditi di libertà espressiva e ferocia verbale, si manifestano, in modo viscerale e concettuale al tempo stesso, l’amore per la scrittura, il desiderio di eccellere, il dolore per l’amore deluso, le patologie psichiatriche, l’orgoglio intellettuale, l’affermazione del sé contro la cultura patriarcale e la condizione femminile del suo tempo, la voluttà dell’ultimo viaggio, il gioco con la morte di un io quanto mai creativo, perfezionista e autodistruttivo.
Sylvia Plath, nata a Jamaica Plain, sobborgo di Boston, il 27 ottobre 1932, si suicidò in una casa londinese l’11 febbraio 1963, ad appena trent’anni. Il tragico gesto, scrisse l’amico e critico letterario Alfred Alvarez, «fu la risposta a un grido d’aiuto rimasto inascoltato». Quel grido era risuonato nella casa di Sylvia alcuni mesi prima, quando aveva scoperto che l’amato coniuge Ted Hughes la tradiva con una donna pluridivorziata e spregiudicata, e che il progetto di vita in cui aveva fermamente creduto si era rivelato una dolorosa illusione.
A dispetto di inevitabili sensi di colpa, Hughes cercherà più volte di sminuire le responsabilità per il suicidio della moglie. Non solo: come vedremo, avrà un atteggiamento controverso anche con il legato letterario della poetessa Plath, per un verso promuovendo la sua opera, per un altro manipolandola a proprio vantaggio.
Sylvia Plath, finalizzando un eccezionale curriculum scolastico, impreziosito da numerosi premi in concorsi studenteschi e letterari, si era laureata summa cum laude il 6 giugno 1955 presso lo Smith College di Northampton, Massachusetts. Venti giorni prima le era stata concessa la prestigiosa borsa di studio Fulbright Fellowship per il Newnham College dell’Università britannica di Cambridge, che aveva raggiunto il 1° ottobre 1955.
Quando nel febbraio dell’anno successivo la brillante studentessa americana conosce Ted Hughes, beniamino dell’Università e talento poetico già molto apprezzato, scrive di getto alla madre Aurelia Schober: «Ho incontrato l’uomo più forte del mondo, laureato a Cambridge, straordinario poeta i cui lavori ho amato ancor prima di incontrarlo, un grande, possente, prorompente Adamo, mezzo francese e mezzo irlandese, con una voce simile al tuono di Dio – un cantore, un narratore, un leone e un giramondo, un vagabondo che non si fermerà mai».
La sintonia fra il «colosso» fisico e intellettuale e la ragazza che sogna di diventare una star della letteratura, iscritta nei comuni interessi, è immediata, come dimostra l’episodio chiave del loro primo, vero incontro. Durante il party di inaugurazione di una rivista studentesca, in un clima chiassoso e bohémien esaltato da musica jazz, ballate irlandesi e alcool, i due giovani si danno ad alcune schermaglie «poetiche»; poi Ted, all’improvviso, stampa un bacio in bocca a Sylvia, e le sottrae gli orecchini e la fascia rossa intorno ai capelli. Ma quando la bacia di nuovo sul collo, lei lo morde con forza, sino a fargli colare il sangue da una guancia.
Il senso di quell’iniziale, euforico approccio è ben definito in Red Comet – The short life and blazing art of Sylvia Plath, monumentale biografia ad opera di Heather Clark pubblicata nel 2021. Vi compaiono, afferma la studiosa, due elementi che caratterizzeranno l’intera relazione fra Hughes e la Plath, ovvero il profondo interesse per la poesia e l’inclinazione per quella «violenza positiva» che entrambi riconoscevano come forza vitale e liberatrice. Nei gesti teatrali di quell’incontro si affacciano, neppure troppo velatamente, diverse influenze letterarie, da Emily Brontë a David Herbert Lawrence, da William Butler Yeats a Dylan Thomas. Plath e Hughes, afferma Heather Clark, vedranno presto, l’uno nell’altro, l’incarnazione di un criterio estetico non meno che una persona reale.
La relazione sentimentale è densa di iniziative appassionanti e costruttive: insieme fanno lunghe passeggiate nei boschi, si scambiano brani e citazioni colte, leggono e commentano poesie. Ted, nato il 17 agosto 1930 nel piccolo villaggio inglese di Mytholmroyd, è cresciuto nella campagna dello Yorkshire occidentale; grazie a lui, Sylvia viene a contatto con la vita degli animali, approfondisce le conoscenze letterarie, è stimolata a migliorare le proprie doti poetiche. Nell’aprile 1956 scrive alla madre: «Sento una forza che cresce. (…) Tutto si riunisce in una gioia incredibile. Non riesco a smettere di scrivere poesie!»
A sua volta, Ted è attratto dall’esuberanza, dalle qualità intellettuali, dalle ambizioni di Sylvia. Esattamente quattro mesi dopo il loro incontro, il 16 giugno 1956 (hanno scelto il Bloomsday, il giorno in cui avvengono le peregrinazioni di Leopold Bloom nell’Ulisse di Joyce), Ted Hughes e Sylvia Plath si uniscono in matrimonio a Londra.
Il viaggio di nozze ha come meta la Spagna; nel villaggio di Benidorm – scrive Anna Ravano, curatrice del Meridiano Mondadori dedicato alle opere della Plath – Ted e Sylvia scoprono una «sintonia perfetta nella vita a due: hanno gli stessi ritmi, gli stessi gusti, le stesse esigenze». In effetti, i primi anni di matrimonio, nonostante qualche difficoltà economica, trascorrono in un’esaltante complicità e interdipendenza. Nel febbraio 1957 Ted vince il premio del New York Poetry Center con le poesie di The Hawk in the Rain, e Sylvia esterna la sua gioia per il fatto che il marito l’abbia preceduta nella pubblicazione di un libro: «Sarà molto più facile per me quando sarà accettato il mio, di libro (…) perché allora potrò rallegrarmi molto di più, sapendo che Ted è avanti a me».
Fra viaggi avventurosi, trasferimenti di residenza, cambi di lavoro, esperienze estemporanee, Sylvia si convince che la letteratura sia la strada maestra per dare un senso alla sua vita. Gli anni 1958 e 1959 vedono alternarsi soddisfazioni (come la pubblicazione sul New Yorker di alcune liriche) e cocenti delusioni (il suo libro di poesie, cui ha mutato più volte il titolo, viene respinto da diversi editori). Nel febbraio 1960, con Sylvia incinta di sette mesi, gli Hughes prendono in affitto un appartamento a Londra, in Chalcot Square, nei pressi di Primrose Hill; la casa è piccola, ma pulita e luminosa, «come stare in un villaggio», scrive lei, «ma a minuti dal centro di Londra».
Sempre a febbraio, arriva un’altra gioia: Sylvia firma il contratto per la silloge poetica The Colossus and Other Poems; chi la incontra in quei giorni, scrive Linda Wagner-Martin, autrice dell’appassionata biografia Sylvia Plath (1999), la trova «raggiante di vita e di allegria».
Il 1° aprile 1960 nasce la figlia Frieda Rebecca, e Sylvia sembra adattarsi perfettamente al ruolo di madre oltre che a quello di moglie; ogni tanto, però, il suo lato nevrotico e possessivo torna ad affiorare e a spaventarla; all’età di ventun anni, a causa di un forte esaurimento nervoso, Sylvia aveva tentato il suicidio e subìto due cicli di terapia elettroconvulsiva.
Nel gennaio 1961, con sua moglie di nuovo incinta, Ted scrive a Moira Doolan, responsabile dei programmi della BBC per la scuola, proponendole una trasmissione radiofonica per studenti. Interessata al progetto, la Doolan telefona a Chalcot Square, per fissare con Hughes un pranzo di lavoro per i primi di febbraio; a rispondere al telefono è Sylvia, che si sorprende nell’udire dall’altra parte una voce irlandese. Il particolare è sufficiente per farle sospettare una tresca, e quando Ted, registrata la trasmissione, tarda un quarto d’ora a tornare a casa (due ore secondo Sylvia), lei strappa gli scritti e gli appunti del marito.
Ted dirà che non portò rancore a sua moglie per il gesto che a ragione definirà «inconsulto»; ma come emerge dalla biografia della Clark, nel 1974, tornando a parlare dell’episodio con Frances McCullough, editrice di una parte dei Diari della Plath, Ted confessò che in occasione degli scoppi d’ira in cui Sylvia rivelava il suo «lato demoniaco, distruttivo, come una nera elettricità», egli usava schiaffeggiarla per cercare di farle sbollire la rabbia.
La versione di Sylvia sulla reazione di Ted e le conseguenze che potrebbe aver comportato era arrivata molti anni prima. Il 6 febbraio 1961, la Plath aveva avuto un aborto spontaneo, annunciato alla madre con una lettera che portava la stessa data e dove non faceva cenno al litigio col marito. Ma in una missiva posteriore, datata 22 settembre 1962 e indirizzata alla psicologa e sua ex analista Ruth Beuscher, Sylvia era diventata più loquace sul vecchio episodio: scriveva di aver strappato, ma a metà, gli scritti di Ted, il quale aveva reagito picchiandola; un paio di giorni dopo, lei ebbe un improvviso aborto («Ted beat me up physically a couple of days before my miscarriage»).
A metà luglio del 1961, quando da qualche mese ha iniziato a scrivere il romanzo che verrà intitolato The Bell Jar (La campana di vetro), Sylvia è in viaggio con Ted nel sud dell’Inghilterra. Lei ha sempre desiderato abitare in una casa immersa nella campagna, e la graziosa proprietà con ampio giardino di Court Green, nel villaggio di North Tawton, nel Devon, sembra perfetta per lo scopo.
Gli Hughes lasciano Londra con grande entusiasmo per la nuova vita che li attende; la casa londinese di Chalcot Square viene subaffittata a David e Assia Wevill (nata Gutmann), una coppia che entra subito in sintonia con gli Hughes. Sylvia ignora che quel fatto casuale e apparentemente innocuo – un appartamento dato in affitto – segnerà l’inizio di un dramma che sfocerà nel gesto più estremo che un essere umano possa commettere.
Nell’incantevole dimora in pietra e tetto di paglia di Court Green, circondata dal verde e adornata da un meleto, alberi di ciliegie e cespugli di more e lamponi, Sylvia e Ted si danno con gioia a lavori di ristrutturazione e abbellimento; lei parla a un’amica di una «felicità paradisiaca», anche perché, oltre a scrivere e pubblicare alcune poesie, il 30 ottobre firma il contratto per la pubblicazione del suo romanzo con la casa editrice londinese Heinemann.
Il 1962 si apre lietamente per Sylvia, che il 17 gennaio partorisce il secondogenito, un maschietto cui verrà imposto il nome di Nicholas Farrar. Tuttavia, provata dalle cure per i bambini e dal duro inverno inglese, Sylvia anela l’avvento di una primavera che tarda ad arrivare. La sinusite, l’isolamento sociale e intellettuale, i frequenti viaggi di Ted a Londra per registrare programmi per la BBC, le prime tensioni coniugali, la fanno cadere in una lieve depressione.
Il 18 maggio David Wevill e sua moglie Assia, donna affascinante con ascendenze ebraiche, russe e tedesche, sono a Court Green per trascorrere un fine settimana con la famiglia Hughes. Come entrambi confesseranno anni dopo, l’attrazione fra Ted e Assia è immediata; Sylvia inizia a sospettare qualcosa, e dopo la partenza dei Wevill scrive due poesie sconvolgenti, The Rabbit Catcher e Event.
Il 9 luglio Sylvia si reca nella vicina cittadina di Exeter per fare delle compere; a sua madre, che l’ha raggiunta dall’America, dichiara di avere tutto ciò che aveva sempre desiderato dalla vita. Ma al rientro a casa, rispondendo al telefono, riconosce la voce di Assia, che si spaccia per un uomo e chiede di Ted. Sylvia strappa il filo del telefono, prende con sé il piccolo Nicholas e va a sfogare la sua disperazione dagli amici Elizabeth e David Compton. Piange, dice che non può più allattare il suo bambino, che Ted «è diventato un uomo piccolo», che le mente, ama un’altra, e lei sa che è Assia. E poi, le parole più amare: «Quando dai a qualcuno tutto il tuo cuore e lui non lo vuole, non puoi riprenderlo indietro. Se n’è andato per sempre».
Nonostante ciò, nei mesi successivi gli Hughes viaggiano insieme a Londra, nel Galles e poi in Irlanda. Ma dall’Irlanda Sylvia torna da sola; arrivata a Court Green trova un telegramma di Ted, spedito da un indirizzo londinese, nel quale le annuncia che sarebbe stato di ritorno dopo una o due settimane. In realtà, come Sylvia verrà a sapere successivamente, Ted è partito con Assia per la Spagna, dove trascorrerà 10 giorni, rientrando a Court Green a fine settembre.
Nulla ormai può sanare un rapporto che sta andando in frantumi; dopo alcune titubanze, dietro consiglio della sua psicologa Ruth Beuscher, di Aurelia e dell’amica e protettrice Mrs Olive Higgins Prouty, Sylvia si reca a consulto da un avvocato, decisa a divorziare. Accusa Ted di immaturità, di avarizia, di violenza psicologica, di aver chiamato il piccolo Nicholas «un usurpatore». Ted, a sua volta, scrive di essere strangolato dall’amore di Sylvia e «inorridito» nel constatare quanto abbia dovuto confinare, a causa di lei, la propria esistenza; reclama una maggiore libertà, vuole vivere la dimensione erotica della vita, che – sostiene – rappresenta uno stimolo per la sua attività artistica.
In quella temperie, mentre inizia a pensare a un trasferimento a Londra per ricostruirsi una vita sociale e intellettuale all’altezza delle sue aspettative, Sylvia viene presa da un furore creativo che nel giro di un paio di mesi – l’ottobre  e il novembre del 1962 – si concretizza nella composizione di trentanove poesie; tra di esse, le gemme di The Applicant, Daddy, Lady Lazarus, Ariel. La scrittrice e traduttrice Nadia Fusini, nella Prefazione del Meridiano Mondadori citato, parla di poesie che «rilasciano bollettini autodistruttivi di sempre crescente grandezza. Esprimono pensieri che si confondono con le allucinazioni, accostandosi così, con enigmatiche, perentorie comunicazioni, al cuore della sofferenza».
Nelle lettere alla madre, pur senza i toni gioiosi di un tempo, Sylvia rivela: «Scrivo come una pazza – sono arrivata a una poesia al giorno prima di colazione. Tutte poesie da libro». E ancora: «Sono una scrittrice di genio: ce l’ho dentro. Mi sveglio alle 5 e sto scrivendo le poesie migliori della mia vita: mi daranno la fama». È quello che effettivamente accadrà; ma sarà, purtroppo, una gloria postuma.
Il trasferimento a Londra è ormai inevitabile; la ricerca di una casa si risolve nell’affitto di un appartamento al n. 23 di Fitzroy Road, dove anni prima ha dimorato William Butler Yeats, uno dei poeti preferiti di Sylvia.
Il 19 novembre comunica alla madre di aver terminato il secondo libro di poesie, al quale, dopo alcuni tentennamenti, dà il titolo di Ariel. Il 12 dicembre Sylvia Plath abbandona il Devon e si trasferisce con i bambini nel nuovo appartamento, scoprendo che è privo di gas, elettricità e allaccio telefonico. Quando le fa visita l’amico e critico letterario dell’Observer Alfred Alvarez, la trova cambiata, con i capelli lunghi e sciolti che formano «come una tenda, dando al suo viso pallido e alla sua figura emaciata una curiosa aria desolata e rapita, come di una sacerdotessa svuotata dai riti del suo culto».
Il 1963 arriva con il gennaio più freddo degli ultimi centocinquant’anni. Ne risentono tutti i servizi, e Sylvia deve pensare a come scaldare la casa, lavare, cucinare. Perde peso, i bambini si ammalano e hanno la febbre alta per più giorni, ma il 14 gennaio la scrittrice può festeggiare la pubblicazione di The Bell Jar (La Campana di vetro) romanzo per il quale ha dovuto utilizzare lo pseudonimo di Victoria Lucas; i riferimenti ad alcuni amici sono piuttosto scoperti, ma, soprattutto, la madre della protagonista ricorda troppo Aurelia Schober.
Il libro ottiene consensi significativi in quasi tutte le testate inglesi più importanti; il recensore del Times Literary Supplement parla di una narrativa convincente, e Laurence Lerner, su The Listener, elogia il «trionfo» del linguaggio in un libro «brillante e commovente». Tuttavia, Ma avendo sperato che il romanzo potesse diventare un best seller, Sylvia non può esultare; ad aggravare la delusione, i rifiuti degli editori Knopf (28 dicembre) e Harper & Row (metà gennaio 1963) di pubblicare The Bell Jar negli Stati Uniti, traguardo che rivestiva una particolare importanza per l’autrice. A detta della madre Aurelia, il rigetto degli editori americani segna un punto di svolta; l’equilibrio mentale di Sylvia, già scosso a fine dicembre, peggiorerà sensibilmente nel gennaio 1963.
Sintomatico dello stato della scrittrice è quanto accade in occasione dell’apparizione sull’Observer del 27 gennaio 1963 della positiva recensione del romanzo da parte del romanziere e critico letterario Anthony Burgess. Infatti, accanto al commento di Burgess compare la poesia di Ted Hughes Full Moon and little Frieda. Sylvia – testimonia il vicino di casa Thomas Trevor – reagisce con rabbia verso il marito, «laggiù con i nostri amici, a ricevere le loro congratulazioni per la sua poesia, al centro dell’ammirazione, libero di andare e venire come vuole, mentre io sono prigioniera in questa casa, incatenata ai bambini».
Ma Ted Hughes aveva fatto di peggio: il 21 gennaio la BBC aveva trasmesso via radio (per replicarla poi il 9 febbraio) la sua commedia Difficulties of a bridegroom. Melodrammatica, piena di metafore esagerate e di simboli (vi compaiono due donne, una delle quali rappresenta la lussuria, l’altra la castità), l’opera – che la Clark definisce «infame» – contribuisce a umiliare la già depressa Sylvia, che vi scorge una chiara allusione alla definitiva conclusione del suo matrimonio.
Nei primi giorni di febbraio inizia la discesa verso l’abisso: Sylvia è prostrata, non dorme, abusa di barbiturici e altri medicinali, è preda di incubi. L’aiuto del suo medico, il dottor John Horder, e degli amici Jillian e Gerry Becker, è sollecito e costante, ma non può risollevarne le sorti.
La biografia di Heather Clark ci permette di far luce sulle ultime ore della poetessa, su alcune delle questioni sollevate dal suicidio, e sui comportamenti e le reazioni delle persone che più le furono vicine nei giorni conclusivi della sua vita.
Nella notte di domenica 10 febbraio, alle 11.30 circa, Sylvia bussa alla porta di Trevor Thomas, che abita nell’appartamento sottostante, e gli chiede dei francobolli, insistendo per pagarli subito, «altrimenti non si sarebbe sentita a posto con la sua coscienza dinanzi a Dio». Thomas la trova «strana, in uno stato di alterazione come da farmaci o droghe, e lontana, fuori dal mondo». Di sicuro, Sylvia ha in corpo un antidepressivo, un sonnifero composto da un barbiturico e da un’anfetamina, un farmaco per i problemi respiratori a base di codeina e il vino rosso che ha bevuto a pranzo, a casa dei Becker.
Thomas sente i passi di Sylvia sino alle prime ore del mattino dell’11 febbraio, dopodiché si addormenta. Secondo la ricostruzione della Clark, fra le 6.30 e le 7 Sylvia deposita del latte e un po’ di pane e burro nella stanza dei bambini, apre le finestre, copre i piccoli con altre coperte e sigilla le fessure della porta. All’ingresso dell’appartamento, appuntato sulla carrozzina del figlio, lascia un pezzo di carta sul quale ha scritto, in lettere maiuscole, le sue ultime parole: «PLEASE CALL DR HORDER AT PRI 3804».
Rientrata in cucina, tappa le fessure della porta e della finestra con tovaglie da tè e alcuni indumenti, poi gira la manovella del gas, si sdraia sul pavimento e posa la testa sullo sportello del forno.

Morire
è un’arte, come qualunque altra cosa.
Io lo faccio in modo magistrale,

lo faccio che fa un effetto da impazzire
lo faccio che fa un effetto vero.
Potreste dire che ho la vocazione.  (da Lady Lazarus)

La mattina dell’11 febbraio, Myra Norris, la babysitter che deve prendere servizio proprio quel giorno, suona il campanello senza ricevere risposta. Assicuratasi che l’indirizzo sia giusto, si fa aprire il portone da alcuni operai che lavorano nei pressi dello stabile. Non appena entrata, la donna sente l’odore del gas, sale di corsa le scale e si trova dinanzi a una scena terribile: Sylvia giace immobile sul pavimento, la testa sullo sportello del forno, reclinata su un panno piegato. Mentre la babysitter tenta di rianimarla, vengono chiamati il dottor Horder e un’ambulanza, che arrivano immediatamente. Purtroppo, l’avvelenamento da monossido di carbonio ha già sortito i sui effetti: Sylvia Plath è dichiarata morta nello University College Hospital di Londra alle 11.45 dell’11 febbraio 1963.
Intanto, le amiche Jillian Becker e Suzette Macedo, subito avvertite dal dottor Horder, si sono prese cura dei bambini; è arrivato anche Ted, che nelle ore in cui Sylvia metteva in atto il suo gesto era nelle braccia di Susan Alliston, relazione che coltivava insieme a quella con Assia Wevill.
Dopo aver identificato formalmente il corpo di Sylvia, Hughes si reca dai Macedo; appare sconvolto, ma a Helder Macedo non trova di meglio da dire se non: «Ascolta, o lei o me».
«Astonishing phrase», commenta la Clark; e tuttavia, sono parole che Hughes ripeterà più volte nei giorni successivi.
Il dì seguente, 12 febbraio, il neo vedovo annuncia il decesso di sua moglie a Dorothy Schober, sorella di Aurelia, con un breve telegramma: «Sylvia è morta ieri». A caldo, parlando con varie persone, fra le quali sua sorella Olwyn, Hughes si addossò la colpa della tragedia; dirà anche che aveva parlato con Sylvia di una possibile riconciliazione (tesi cui Frieda Hughes continua a dare credito). In altre occasioni cercherà invece di attenuare in vari modi le sue responsabilità, ciò che mi pare in linea col personaggio e le sue ambiguità, il suo lato «oscuro» (Helder Macedo), «scandaloso» (Jonathan Bate, uno dei suoi biografi) e «venato di una certa crudeltà» (Daniel Huws, suo grande amico).



Armando Santarelli
(n. 6, giugno 2024, anno XIV)