La musa inquietante

Abbiamo detto più volte, ripetendo il pensiero di Montale, di Iosif Brodskij e di tanti altri poeti, che la poesia non è soltanto un qualcosa di ancora possibile, ma di necessario. Viviamo in un mondo più virtuale che reale, e credere nella poesia è sinonimo di sensibilità, di amore per la cultura e per la creatività artistica, di resistenza all’omologazione imposta dal sistema dei social.
Ma è un fatto che oggi i poeti non sono certo incoraggiati nella loro attività, come dimostra il marcato disinteresse della critica nei loro confronti. Alcuni specialisti sono arrivati a parlare di una sorta di “sub genere letterario” nel quale non si raccapezzano più, perché la poesia gli suona astratta, inconcludente, lontana da quella «concretezza di vita e di esperienza» (così lo storico della letteratura Giulio Ferroni) che caratterizzava la precedente produzione poetica.
Agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, Mario Barenghi, sulla rivista Linea d’ombra, rendeva una testimonianza impressionante: il critico letterario rivelava di non riuscire più a leggere i libri di poesia, ma soprattutto che non si sentiva più in colpa per il fatto di non leggerli.
Nel gennaio 2006, sulle pagine del Foglio, un altro grande critico, Alfonso Berardinelli, esprimeva lo stesso disagio: «Ci sono in giro e in piena attività almeno venti o trenta poeti di cui ignoro perfino il nome. Provo a leggerli, a informarmi. Ma noto dopo un po’ che la cosa più difficile è proprio questa. Dire ‘leggere’ è un eufemismo, perché non si riesce a leggere. E dire ‘informarsi’ anche. Non si riesce a capire con che cosa e con chi si ha a che fare». Nello stesso articolo, elogiando il saggio di Alessandro Carrera I poeti sono impossibili (prima edizione, 2005), Berardinelli sottolineava l’amara veridicità del caustico titolo del primo capitolo: «Un popolo di poeti preme alle porte dell’oblio».
Ancora una decina di anni dopo, i giudizi restano immutati. Nel saggio Da Pascoli a Busi, opera del 2014, il critico e romanziere Matteo Marchesini scriveva: «In Italia, ormai, dei poeti si parla con imbarazzo. Oggi il poeta italiano non solo è emarginato, ma non è neanche considerato uno scrittore». E ancora: «In un Paese in cui tutti scrivono poesie e nessuno le legge, riuscire a farsi chiamare poeti sembra troppo facile, cioè irrilevante. La causa e insieme l’effetto di questa situazione è la progressiva perdita della capacità di distinguere i poeti veri».
La critica di Marchesini che mi sembra più pertinente è quella relativa al modo in cui si produce poesia, alla leggerezza e spesso alla noncuranza dello stile. Ecco le sue parole: «A chi non vuole cimentarsi con le fatiche della forma, la “poesia” offre oggi un triste ma accogliente rifugio, un ambiente di rassicurante anarchia». Di conseguenza, conclude il critico, aumenta l’autoreferenzialità dei poeti, mentre diminuisce, specularmente, la coscienza critica, la voglia di costruire testi densi, comprensibili, formalmente coerenti.
È anche vero che una tale situazione chiama in causa gli stessi critici, perché prima degli altri dovrebbero essere loro a rivelarci dove si annida una poesia seria e credibile. La situazione si complica quando pensiamo che oggi quasi tutti i poeti sono pubblicati da piccole case editrici, fatto che costituisce un ulteriore ostacolo alla lettura dei loro testi. Purtroppo, dove manca la funzione critica non può nascere qualcosa di veramente buono; in primis perché i nuovi poeti non sono indotti a riflettere, a mettere in discussione la loro produzione; inoltre, se non esiste un filtro critico, tutto è lasciato nelle mani degli editori, di alcuni abili piazzisti, di poeti più furbi che bravi.
Ma c’è un altro fattore di cui bisogna tener conto: sino a una quindicina di anni fa, mentre sfogliavamo i testi dei giovani poeti, erano ancora attivi Andrea Zanzotto, Alda Merini, Giovanni Giudici, Maria Luisa Spaziani, Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani; il confronto non poteva non risultare penalizzante per i nuovi autori, peraltro non in grado di accompagnare le loro opere con note o apparati critici di un certo spessore.
Frantumazione, pluralità disordinata, difficoltà di sistemazione critica, rifiuto di qualsiasi appartenenza: questa la realtà attuale, che esclude movimenti e capiscuola, conducendo a un’assoluta autonomia dei singoli poeti, e quindi a ogni possibile soluzione stilistica: approdo democratico, comodo e alla portata di tutti, ma proprio per questo esposto al rischio dell’irresponsabilità espressiva.
E allora, che fare? Il critico letterario Gianluigi Simonetti, nel pregevole La letteratura circostante (2018), vede una possibilità nell’indebolimento della prima persona, nel ricorso a una poesia-prosa che diventi più trasparente e discorsiva, ma anche nel ritorno a una poesia-poesia fatta di dignità comunicativa e onestà intellettuale.
A questi suggerimenti aggiungerei quello di essere umili, umili come, ad esempio, la poetessa forse più letta e apprezzata negli ultimi decenni, Wisława Szymborska, che diceva di partire, nella sua poesia, da un socratico e incessante «non so»; è così che questa grande interprete, premio Nobel nel 1996, riusciva ancora ad osservare con curiosità e meraviglia ogni cosa, a stupirsi del mondo circostante e farlo proprio in una luce di comprensione, di empatia.
Non a caso il già citato Alfonso Berardinelli, negli splendidi articoli che le ha dedicato, parla della poesia della Szymborska come di una poesia «ansiosa e gioiosa», ma soprattutto autentica e originale, capace di posarsi su tutto, su cose «che fino a un momento prima non sorprendevano nessuno».
E poi c’è l’inevitabile questione dello stile. Ai giovani poeti consiglio di stare attenti alle approssimazioni, di evitare banalità e prevedibilità, ma anche di non abbandonarsi all’anarchia espressiva. D’accordo, niente più vincoli metrici, spazio anche alla poesia-prosa; ma rimane importante – anche e soprattutto attraverso la lettura dei grandi – continuare a dare ascolto alla voce ancestrale che suggerisce di non tralasciare le componenti più autentiche della poesia, e quindi un certo ritmo del verso, l’originalità e la varietà metaforica, l’intelligibilità del senso.
È vero, oggi siamo sempre più lontani da una poesia anche lontanamente classicheggiante, da quella moderna, e persino dal postmoderno; appare ormai improponibile una poesia intesa come una «scienza esatta», come il genere letterario dove perfino le metafore tendevano all’esattezza «matematica» (Baudelaire); ma siamo arrivati all’opposto, al caos, perché davvero non si capiscono certi a capo ingiustificati, l’abolizione totale della punteggiatura, gli spazi bianchi, l’abbandono di qualsiasi musicalità dei versi.
Io continuo a pensare che la poesia debba essere buona amica di chi legge, anche quando si fa rude, dolorosa, anche quando ci ferisce; ma per diventare amici ci si deve parlare, ci si deve capire; è questo il punto.
Perché quelli della mia generazione conoscono a memoria tante poesie? Solo perché a scuola ci imponevano di impararle? No, non solo per quello; noi le poesie le abbiamo imparate a memoria anche senza il pungolo di un insegnante, le apprendevamo per il piacere di farlo, e il piacere nasceva dal fatto che erano belle, eufoniche, ed era bello recitarle.
Oggi chi può dire di conoscere a memoria poesie di autori contemporanei? E perché non lo si fa? Semplice: perché le poesie non danno emozioni, non destano meraviglia, non appagano i sensi di chi ascolta. Ancora una volta, però, possiamo e dobbiamo ripetere che non si è ancora fatta sera: perché è tuttora possibile una poesia alta ma confidenziale, allusiva ma non oscura, espressiva ma non retorica o banale. Una poesia che sappia cogliere chi siamo, descrivere i momenti chiave della nostra vita, i paesaggi perduti e quelli ancora esistenti, le storie vere e quelle immaginarie: una musa forse più inquieta, più insicura, ma ancora capace di rappresentare uno dei più benefici attivatori delle nostre emozioni più elevate.



Armando Santarelli
(n. 4, aprile 2023, anno XIII)