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Alla ricerca del nuovo Proust: uno scherzetto letterario
Ormai lo sappiamo tutti: gli spermatozoi si sono infiacchiti, va giù anche la fertilità femminile, e la trasmissione dei nostri cromosomi è sempre più a rischio. Comprensibilmente, cerchiamo di perpetuare genia e conoscenze attraverso lasciti diversi: opere letterarie, per esempio. È anche questo, suggerisce Sartre, un modo per sentirci essenziali nei confronti del mondo.
Invero, sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, le segreterie editoriali vengono inondate da una marea di manoscritti; oggi, le fatiche letterarie di scrittori e scrittorucoli vengono inviate più comodamente via e-mail, ma il flusso è invariato, e rimane nell’ordine di migliaia di proposte annuali per ciascuno degli Editori maggiori.
A mali estremi, estremi rimedi: dinanzi al profluvio di richieste, le Case Editrici si difendono chiedendo agli scrittori in erba di inviare una sinossi e alcune pagine dei loro lavori. È il «metodo delle prime pagine», che fa leva, evidentemente, sull’intuito critico e sull’esperienza di chi è del mestiere.
Leggere tutto quel materiale rimane comunque una faticaccia, per di più abbastanza noiosa, dato che, come gli addetti ai lavori testimoniano, buona parte dei manoscritti ricevuti non ha alcun valore letterario. E tuttavia gli stessi Editori assicurano che, pur nella rapidità della valutazione, le proposte vengono esaminate con la dovuta cura, perché non si perdonerebbero mai di aver avuto fra le mani, senza averlo riconosciuto, il romanzo del nuovo Proust, o del nuovo Joyce. Prova che rimane non facile, ma di sicuro merito: la massima dimostrazione di capacità critica, secondo Saint-Beuve, risiede nella scoperta di un genio tra i contemporanei.
Se non si può non apprezzare tanta professionalità, stupisce invece che le Case Editrici non abbiano ideato metodi ancor più selettivi per arrivare, appunto, alla scoperta del romanziere principe, o dei romanzieri principi, di questo secolo. Ci permettiamo, dunque, di suggerire qualche utile scorciatoia, lasciando impregiudicato l’interesse degli Editori a pubblicare, in subordine alla cernita di cui ci facciamo promotori, tutto ciò che vogliono.
Partiamo dal dato fondamentale della produzione letteraria: è innegabile che il secolo appena trascorso abbia visto l’affermazione di una grande ricchezza espressiva, di tematiche e narrazioni quanto mai varie e plurali. Altrettanto innegabile è che nel novero delle grandi opere letterarie del Novecento i capisaldi siano costituiti dai romanzi di Proust, Joyce e Kafka.
Ora, non può essere un caso che i tre maggiori romanzieri del secolo scorso fossero persone magre, anzi magrissime, divorati com’erano dalla passione letteraria. D’altra parte, in una più ampia classifica di merito e di importanza, al di sotto di loro troveremmo un Pirandello, un Musil, un Thomas Mann, un Salinger, un Beckett, un Saul Bellow, anch’essi individui non certo pingui.
Descrivendo fisicamente Joyce, Richard Ellmann, suo massimo biografo, scrive: «Era alto e magro, e il suo peso restò sempre pressappoco uguale». «A che cosa ti faccio pensare», chiese una volta Joyce stesso, sdraiato a prendere il sole, a un amico. «Non so, a che cosa dovrei pensare?», replicò quello. «Alla fame», sbottò lo scrittore, producendosi in una sonora risata.
Veniamo a Proust. Nacque in una famiglia di persone piuttosto robuste; lo erano di sicuro il padre Adrien e il fratello Robert; quanto a sua madre, Jeanne Weil, era anch’essa una donna abbastanza in carne. E Marcel? Le testimonianze scritte e le inequivocabili foto d’epoca mostrano un uomo magro in ogni fase della sua esistenza; è noto che allo scrittore ci si riferiva spesso chiamandolo «il piccolo Marcel».
Quanto a Kafka, tutte le biografie a lui dedicate sono concordi nel sottolineare la sua gracilità. Nella biografia critica di Pietro Citati leggiamo che Kafka «era un uomo alto, magro, esile, che portava in giro il suo lungo corpo come se l’avesse ricevuto in dono». «Molto presto», continua Citati, «egli comprese che la ragione di questa magrezza. Tutte le sue energie si erano concentrate nella letteratura…».
Come non estendere quest’ultima osservazione agli altri due grandi? Anch’essi, come Kafka, hanno vissuto e si sono consumati nell’intento, infine realizzatosi, della creazione dell’opera d’arte, o meglio di un’opera arte che li innalzasse al di sopra di ogni contingenza, e del Tempo stesso.
Tutto ciò considerato, se fossi al posto degli Editori comincerei col chiedere agli aspiranti scrittori di corredare le proposte editoriali con i dati relativi alla loro altezza e al loro peso, allegando altresì una foto dell’intera persona; si avrebbe così buon gioco a scartare tutti gli scrittori ciccioni. (Obiezione: come la mettiamo, ad esempio, con un Walter Siti, letterato rotondo e rubicondo? Risposta: è fortissimo Siti, non c’è dubbio, ma noi stiamo cercando un fuoriclasse, non un bravo scrittore!)
Soddisfatto per aver suggerito un primo accorgimento per accelerare la scoperta del nuovo Proust, vado a considerare altre caratteristiche che accomunano i tre grandi letterati.
Una, sicuramente importante, consiste nel fatto che tutti e tre gli scrittori, almeno sin quando versarono in buona salute, amarono fare lunghe, a volte interminabili passeggiate: un impulso doppiamente connesso alla loro alla loro produzione letteraria, perché se da un lato gli consentiva di sfogare una parte dell’esuberante attività intellettuale, dall’altro favoriva la produzione di quelle molecole, le endorfine, che stimolano il senso del benessere e l’ottimismo creativo. L’argomento è estensibile a molti scrittori del secolo ancora precedente, l’Ottocento. Solo per fare un esempio, Manzoni, nella lettera all’amico Claude Fauriel del 2 marzo 1816, rivela che il solo rimedio efficace nei momenti di angoscia nervosa che lo assalgono è costituito dalle “grandi passeggiate”.
Ancor più significativo un altro tratto: tutti e tre gli scrittori erano dotati di eccezionali doti mimiche, e spesso si divertivano a mettere in caricatura amici e conoscenti. In particolare, l’abilità parodistica di Proust era tale da consentirgli l’imitazione delle dame dell’aristocrazia che popolavano i salotti del Faubourg Saint-Germain. È chiaro che tale prerogativa non sta soltanto a denotare lo spirito di osservazione che anche persone comuni posseggono; essa non è disgiunta da quella capacità, appannaggio di rari individui, di cogliere e decifrare l’interiorità dalla considerazione del più piccolo segnale esteriore. «Kafka», scrive Citati, «era in grado di imitare una persona nella complessità della sua natura».
Pertanto, sarebbe opportuno che le Case Editrici, esaurita la fase fisico-ponderale, chiedessero agli scrittori già selezionati, cioè le persone magre e dedite a lunghe deambulazioni, un video che attesti le loro qualità imitative. Dopodiché sarebbe certo cosa più facile e immediata immergersi nella lettura dei testi superstiti – immagino ben pochi – che potrebbero rivelare, già dalle prime pagine, la magia letteraria del Proust del nostro tempo.
Armando Santarelli
(n. 3, marzo 2023, anno XIII) |
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