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Un sublime assassino
La letteratura mondiale annovera molti romanzieri «cattivi». Fra questi, ce n’è uno che non ha pari, che li supera tutti; d’altronde è anche il più grande di tutti, perciò siamo dinanzi a una sorta di sillogismo.
L’insuperabile, meraviglioso assassino letterario di cui parliamo è Marcel Proust. La sua formazione giovanile si compie tra situazioni ed esperienze molto diverse. Da una parte, i privilegi dell’appartenenza a una ricca famiglia borghese: agiatezza economica, studi appropriati, frequentazioni mondane esaltanti, amicizie brillanti. Dall’altra, le sue vulnerabilità: una sensibilità morbosa, una salute cagionevole, le delusioni sentimentali, il senso di colpa per la sua omosessualità, l’amarezza per gli iniziali insuccessi della carriera letteraria.
Se da giovane conobbe una certa felicità, il Proust maturo giunge alla conclusione che la felicità non esiste, come non esistono l’amicizia e l’amore, che si risolvono immancabilmente nella sofferenza. La salvezza è nell’arte, perché la vita, le presenze reali, gli altri non possono che deluderci. E allora, alla sua maniera, Proust si vendica; lo fa con garbo, uccide senza dolore, quasi senza fartene accorgere, propinandoti un veleno a effetto ritardato, o infilzandoti con un stiletto che non fa male neppure quando penetra nelle parti vitali. Ma soprattutto, uccide tutto ciò che la sua penna tocca: le persone che ha conosciuto nella realtà, i protagonisti del suo romanzo, gli ambienti che ha frequentato, i sentimenti che ha conosciuto e nutrito.
Lo sguardo spietato e spesso crudele del Narratore della Recherche non deve stupire. Ogni aspetto del capolavoro di Proust - e dunque anche la voglia di riscatto e di vendetta - si iscrive nella concezione totalizzante che Proust ha dell’arte. L’opera di Proust è una vera summa della condizione umana, una creazione fondata su se stessa, che non si cura della letteratura precedente, né dei critici letterari, né del lettore.
In questo senso, temo di non essere d’accordo con una conclusione di Alberto Beretta Anguissola che troviamo nel primo tomo dei Meridiani Mondadori dedicati alla Recherche, e precisamente quando, nelle Ragioni di un commento, il grande francesista ed esegeta proustiano scrive: «L’ammiccante e complice mitoyenneté di chi narra – e che rende la Recherche dissimile da ogni precedente romanzo – è resa possibile proprio dall’esistenza di questo fitto reticolato di allusioni spesso enigmatiche a dati reali, storici, che non servono tanto a conferire al racconto un superfluo certificato di veridicità, quanto a trascinare storia, cronaca e cultura in una diversa dimensione, dentro un gioco narrativo a volte festoso, più spesso tragico, come se Proust avesse avuto in animo di far sì che i suoi lettori diventassero anch’essi dei personaggi potenziali del romanzo».
L’osservazione iniziale di Beretta Anguissola è incontestabile, perché la Recherche è effettivamente una miniera labirintica di citazioni, riferimenti letterari, geografici, storici, scientifici, artistici; ed è altresì vero, come lo studioso precisa più avanti, che «a chi legge è affidato il compito di rendere espliciti gli impliciti significati ulteriori». Non concordo, invece, sull’affermazione secondo cui Proust avrebbe proceduto in un certo modo «come se avesse avuto in animo di far sì che i suoi lettori diventassero anch’essi dei personaggi potenziali del romanzo».
In effetti, uno dei criteri utilizzati per misurare il valore di un’opera letteraria è la sua capacità di suscitare delle reazioni nei lettori; e ci mancherebbe che la Recherche non suscitasse stupore ed emozione, che non ci identificassimo, in certe situazioni, in uno Swann, un Saint-Loup, o nel Narratore stesso.
Ma è proprio questo che si proponeva di ottenere Proust? Far sì che i suoi lettori diventassero anch’essi dei personaggi potenziali del romanzo? Secondo me no, o perlomeno non è questo il suo scopo precipuo. Proust non pensa al lettore mentre crea, Proust costruisce la cattedrale della Recherche, e tutte le sue componenti, con in mente la perfezione della sua meravigliosa creatura, e avrebbe agito allo stesso modo anche se avesse saputo che nessun essere umano avrebbe mai letto una pagina della sua opera. Quello di Proust non è snobismo letterario, non è vanità, non è arroganza: la sua enorme energia creativa non prevede concessioni a nulla e a nessuno, perché deriva da una scelta estetica che diventa anche una scelta morale, innanzitutto verso se stesso e poi verso l’arte intesa come rinascita, come strumento di salvezza.
Giovanni Macchia in L’angelo della notte: «Mi ha sempre colpito la decisione con cui Proust, quando si accinse a scrivere la sua opera, cercò di infrangere nel presente ogni continuità con la sua precedente attività di scrittore, quasi che essa non gli appartenesse. La sua severità verso se stesso è senza limiti».
È vero che Proust ritorna più e più volte sui testi, è vero che in ogni fase di redazione del romanzo creerà le famose «fisarmoniche» che arricchiscono, correggono, integrano il contenuto; ma non lo fa di certo a beneficio del lettore, lo fa perché è egli stesso lettore e critico inflessibile del suo lavoro, e la sua fervida intelligenza, la sua capacità di analisi, il suo impareggiabile senso psicologico non cessano di suggerire, modificare, ampliare, approfondire.
Non sto dicendo che a Proust non interessasse piacere ai lettori, vedere riconosciuta la grandezza della sua opera; nelle trattative preliminari con Bernard Grasset, suo primo editore, Marcel dirà di preferire che il romanzo sia venduto a basso prezzo, e preciserà: «L’aspetto finanziario è meno importante per me del far entrare il mio pensiero nel maggior numero possibile di cervelli in grado di capirlo». E dopo la pubblicazione del Côté de Guermantes I (22 ottobre 1920), Proust organizza incontri all’Hotel Ritz con vari critici letterari perché - scrive Jean-Yves Tadié nella sua grande biografia - «sente che non serve a niente scrivere se non si è letti, e che la sua opera è così originale e difficile che spetta a lui spiegarla».
Proust non smetterà praticamente mai di scrivere ad amici, editori, letterati e critici allo scopo di illuminare punti oscuri, chiarire brani, pensieri, teorie di difficile comprensione. Ma questo accade proprio perché il suo mondo non era il nostro, ed era quel mondo che voleva immortalare con il suo capolavoro.
La letteratura mondiale registra molti romanzieri che fanno pensare di voler uscire dal loro dolore, dal loro pessimismo, facendovi entrare il lettore. Ma Proust non vuole uscire dal proprio dolore estatico, vi si immerge con tutto se stesso per cercare di comprenderlo, di dare una risposta e un senso alla sua singolare parabola esistenziale. Se questo è vero, che interesse può avere, per Proust, arruolare lettori «partecipi» in una costruzione nella quale ogni mattone, ogni parete, ogni suppellettile è messo al punto giusto per soddisfare la sua meravigliosa ossessione?
È noto che Proust si apre a una nuova visione della realtà grazie alla conoscenza dell’opera di Ruskin. Il critico inglese insegna a Proust a guardare le cose con esattezza scientifica, con l’occhio clinico del vero intenditore. Proust, assorbendo la lezione di Ruskin, ma andando oltre il maestro, arriverà a descrivere situazioni e sentimenti con precisione da medico.
«Di qui», scrive André Maurois, «si capisce come ogni frase del suo libro fosse un’esperienza, un ricordo, e come quel cacciatore di sensazioni praticasse l’intuizione integrale. Ciascuna visita si trasformava in sedute di lavoro. Egli interrogava con passione, con precisione, con incredulità, riportava al soggetto l’interlocutore che se ne allontanava; oppure piegava egli stesso il discorso per strappare una confessione o risvegliare un ricordo». Proust, conclude Maurois, «è portato a cercare un assoluto che stia di là dal mondo e dal tempo, lo stesso assoluto che i mistici e i religiosi trovano in Dio». E non è certo un interesse particolare verso il lettore a proiettarlo nelle abissali profondità che nessun altro romanziere ha mai raggiunto.
Armando Santarelli
(n. 2, febbraio 2023, anno XIII) |
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