Dopo il diluvio, ancora il diluvio: Dino Terra e gli intellettuali italiani dopo la guerra

Quando Dino Terra progettò il volume di saggi che si sarebbe chiamato Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, non poteva sapere quanta verità lo avrebbe attraversato e quante verità avrebbe contenuto. Sorprende, infatti, che molte delle considerazioni fatte dai saggisti invitati a prendere parte al libro potrebbero essere valide ai giorni nostri, senza rilevanti modifiche. Anzi, alcuni passaggi possono essere riletti alla lettera senza affatto sospettare che essi rimontino a ottant’anni fa. Lo aveva già notato Paolo Di Stefano, allorché nel 2014 la raccolta godé con Sellerio di una nuova edizione dal lontano 1947, quando Garzanti stampò la prima: «quel che colpisce – scrisse il giornalista – è che molte delle lacune che si avvertivano allora sono rimaste tali quasi settant’anni dopo» [1]. Ebbene, passati altri dieci anni da quella nuova edizione (prezioso fu il lavoro di Salvatore Silvano Nigro nel ricostruire la storia editoriale del libro, con le sue defezioni e i nuovi ingressi in extremis), l’impressione si è consolidata e non riguarda soltanto i difetti di un Paese da ricostruire ‘dopo il diluvio’, dopo la rovinosa guerra di Hitler e Mussolini, ma si allarga a fattori strutturali dell’italianità culturale e letteraria. In quell’occasione Di Stefano aveva richiamato Carlo Levi sull’esigenza di un buon piano regolatore e Alberto Moravia sull’individualismo della borghesia italiana e, più ampiamente, degli italiani (lo stesso Terra, in una delle sue note conclusive per il volume, scriverà: «Impiegato dello Stato, lavorar poco, garanzia di pensione, ecco le aspirazioni concrete della più gran parte della popolazione, e non soltanto della borghesia» [2]). Aveva richiamato anche Bonaventura Tecchi a cui era stato affidato uno scritto sulle Regioni [3]: il germanista non risolveva (né, di fatto, voleva risolvere) la questione del decentramento delle regioni, vista sul piano letterario come un falso problema con cui si presumeva di scongiurare ulteriori, futuri spauracchi accentratori, ulteriori derive dittatoriali. Ed è quantomeno curioso che oggi la questione sia ancora di strettissima attualità, ma che le autonomie regionali siano diventate l’argumentum di rinnovati sentimenti nazionalisti e di vecchie battaglie contro la presunta attitudine assistenzialista del nostro impianto repubblicano. Detto in altri termini: il volume di Terra testimoniava che la Repubblica italiana nasceva sotto gli auspici di autonomie regionali intese come ‘anticorpi’ di nuove tentazioni egemoniche; la politica italiana dei nostri giorni sostiene un ampliamento delle autonomie regionali quale garanzia amministrativa. E vale la pena leggere, in tempi di revisione dei compiti del Capo dello Stato, quanto aveva scritto Alberto Savinio in chiusura del suo saggio sullo Stato:

Eliminare d’in mezzo a questa «orizzontalità» tutto quanto è verticale – Dio, re, dittatura, Stato, punti fermi della cultura, – e ostacola il libero fluire della vita.
Con che sostituire lo Stato?
La parola agli specialisti. Io per me ripeto: perché sostituire?
Non dico di gettare il popolo nell’anarchia, levargli guida e direzione e i tutori dell’ordine. Ma togliere ai reggitori e amministratori della cosa pubblica la posizione di centro, ogni posizione che imiti la posizione e il potere centripeto di un dio, la funzione accentratrice, e disporli in fila, in «ordine sparso», ai margini della vita fluente. Come i segnalinee delle partite di calcio.
Che è il solo modo di sciogliere i nodi della vita: il particolarismo e l’isolazionismo nazionalistico. Dare ai popoli un cammino rettilineo e libero. Che farà incontrare popolo con popolo. Li fonderà. Li unirà. E tutti, senza illusioni né mete false, cammineranno il cammino di una comune sorte. [4]

La lungimirante qualità del volume, questa sua capacità di tramandare fino a noi temi che parevano annessi solo alle terribili urgenze dei tempi, stava già nella filigrana delle parole con cui Dino Terra aveva offerto indicazioni ai contributori e che poi sarebbero diventate l’introduzione del volume medesimo. Lo scrittore precisa che le questioni investono il tessuto sociale dell’Italia, ma che saranno affrontate sul piano letterario. In fondo, è proprio questo metodo che permette quasi di trasfigurare i fatti e di sottrarli alla contingenza temporale, di farne “faccende dell’uomo” nei tempi e nei casi. Quando Dino Terra sente che i calamitosi effetti della guerra nazifascista possono trovare un valido rispecchiamento in un paio di vicende bibliche, non soltanto suggerisce un percorso da seguire nello sviluppo degli argomenti che a ognuno dei saggisti è stato affidato, ma conferisce a tutto il libro una specie di contrassegno, una sigla, una ‘firma’ che va ben oltre il fatto che egli ne sia stato l’ideatore e il curatore (con l’importante sostegno di Orio Vergani [5] e di Roberto Papi). Nell’introduzione di Terra c’è tutto – o almeno molto – di Terra stesso: il disilluso richiamo a modelli letterari (senza che appaia deliberato), la volontà di scansare l’approccio ‘scientifico’, ossia gli acquitrini dell’accademia, ma al tempo stesso l’abilità nel saper tenere il passo di chiunque e, anzi, nel saper persuadere – senza doverlo fare – i propri interlocutori e compagni d’avventura a sposare idee letterarie e pure impianti di scrittura. Il Terra che per il day after – diremmo oggi – rievoca l’immagine del diluvio è il letterato e il lettore colto. Quella che pare una breve catena di anelli di facile incastro (diluvio, Noè, Giobbe) è una illustre tradizione libresca non ancora erosa dall’industria editoriale e dal giornalismo del Novecento: basterebbe scorrere il vecchio Dizionario di erudizione biblica del Re per rendersene conto; e notare, insomma, quanto attorno al diluvio si dipanino i canapi della chronologia veterotestamentaria [6]; senza dimenticare alcune storie d’Italia in uso nell’Ottocento che, biblicamente, narravano il popolamento o il ripopolamento del nostro territorio dopo il diluvio [7]. E come la narrazione sacra implicava la sicura rinascita del creato dopo il nubifragio catartico, così nelle parole di Terra c’è quel tanto di inesorabile e di solenne che deve anticipare la rinascita:

Ed ora anche gli italiani come una volta il pio Noè si ritrovano dopo il castigo di Dio della catastrofe nazionale. Altro che i modesti quaranta giorni de biblico acquazzone! Abbiamo avuto circa duemila giorni da ferro e fuoco, fino a ritrovarci nelle graziose condizioni in cui siamo ridotti. […]
Ma ci si rende conto?
Cosa è oggi l’Italia? Che vale? Quale significato possono conservare ancora, per noi e per gli altri di fuori, le testimonianze delle nostre venuste civiltà? Infine che cosa siamo in questo tempo? Latini o panbalcanici, europei o metecchi, umili provinciali o solerti cittadini di una prossima città del sole? E potremmo avere anche noi, ancora una volta, un certo «ruolo» nella composizione delle caratteristiche civili del mondo futuro? E come? [8]

Interrogativi, come si vede, tuttora validi. Si tratta soltanto del concretarsi del classico postulato vichiano? A questo mirava Terra? E a questo voleva indurre i suoi colleghi con ciascuna delle materie da affrontare? Scrivere che la bussola sua e degli scrittori del libro era e doveva essere primariamente letteraria e non di matrice storica; che, casomai, gli storici, i filosofi, gli economisti (classe poi divenuta egemone e Terra lo stava intuendo) potevano darsi da fare a loro volta per proporre un’analisi del Paese dai loro punti di vista voleva significare un tentativo – tra gli ultimi in Italia – di dichiarare il primato della letteratura nella rappresentazione autentica del reale. Per farlo Terra assorbe nell’amplissimo schermo delle lettere proprio nozioni storiche aggiornate politicamente: i ‘metecchi’ che egli oppone agli europei sono null’altro che i metechi dei greci di un tempo, ma ripensati alla luce di quanto già Charles Maurras alla fine dell’Ottocento aveva teorizzato [9]: gli stranieri cosmopoliti, coloro che minacciavano l’integrità dell’Europa. A quel tempo vennero presi di mira gli ebrei, oggi è la volta di nuove etnie, ma sempre al di qua del Mediterraneo. Insomma, lo sciovinismo maurrasiano che adeguava in chiave nazionalista l’avversione per lo straniero dei tempi antichi diventava nelle mani di Terra un fattore imperituro, al di sopra degli storicismi e del pensiero speculativo. E nel suo Giobbe, nell’evocare per l’Italia e gli italiani usciti dalla guerra il Giobbe sottoposto alle più atroci prove, pare esserci un avvertimento di quello più celebre di Carl Gustav Jung che appena qualche anno più tardi (1952) vi dedicherà un accorato saggio [10]. Con quello scritto lo psichiatra farà i conti con la sua stessa coscienza, con alcune posizioni e dichiarazioni ambigue se non proprio sfavorevoli sugli ebrei, fino a domandarsi se non avesse dato – sia pure in minima parte – il suo contributo a un certo sentimento antisemita. Per cui, Jung sentiva di dovere delle risposte a Giobbe, si domandava perché al mondo fosse stato permesso tutto quel male e quale volto il mondo stesso potesse avere al cospetto di quella grande figura biblica, uomo dalla fede incrollabile e mai incline all’ira nonostante le rinunce a cui doveva sottoporsi. Non solo: Jung amplificava la discrepanza tra il Dio del vecchio testamento (malvagio e in ciò terribilmente vicino all’uomo [11]) e del nuovo, sostenendo che fra i due fattori vi era una dialettica divergente e una distanza incolmabile: il Dio del Vangelo è più benevolo proprio per ridurre e quasi annullare la distanza. Il Giobbe di Dino Terra non aveva, tuttavia, il profilo della vittima sacrificata per intenzionale perfidia, ma quello di un uomo sul quale quasi fatalmente si era appuntata la decisione divina della prova. Allo stesso modo per l’Italia era venuto il momento di soggiacere alla sventura: tollerato il sacrificio, ora non poteva che risollevarsi. Tra il Giobbe di Terra e quello di Jung ci passa una specie di “volontà della colpa storica”: Terra aveva fiducia nell’uomo come in un organismo portato naturalmente a sanare le sue ferite; Jung aveva timore della comprensione umana. Per cui, da un lato Giobbe resta un padre esemplare, dall’altra un olocausto senza senso [12]. Vale la pena leggere Terra:

Questo ci insegna la Bibbia nella solenne e imperitura lezione di Giobbe. Ebbene anche noi italiani, rassicurati dall’alta autorità del testo sacro, dobbiamo sperare che le dolorosissime e lunghe prove di questi anni siano servite almeno a far intendere la realtà dell’organismo sociale, a darci la responsabilità del nostro ruolo di uomini, e in definitiva a renderci migliori. […] Ma se l’orizzonte rimane ancora oscuro, mentre la confusione par conduca il senno col mal di mare, sì da rischiar di inacidir tutti, non di meno non dobbiamo disperare su la nostra comune sorte, non fosse altro pel ricorso dell’inestinguibile lezione di Giobbe. Benedette reazioni! Come il corpo di una persona malata reagisce suscitando le schiere battagliere dei microrganismi di difesa, anche le tristi e gravi condizioni della nazione dilaniata e sfasciata dovranno, per legge di natura, pur risvegliare la coscienza politica dei molti cittadini. [13]

I 31 saggi del libro sono tenuti in cerniera da Terra: insieme all’introduzione e a un saggio vero e proprio, lo scrittore realizzò anche una nota di chiusura di qualche pagina ripartita in sei “osservazioni” la quale, oltre a richiamare evidentemente alcuni aspetti trattati dai colleghi, offriva spunti per una lettura, una interpretazione di elementi cruciali messi in campo tra le fitte pagine del volume. Si consideri quanto Terra scrive nella prima osservazione: «con Tiepolo, Leopardi, Manzoni e Verdi finiscono i grandi maestri, e diciamo pure: gli immortali rappresentanti della nostra gloria» [14]. In queste poche parole si rassoda tutto un convincimento, ossia che l’unità d’Italia avesse generato le premesse di un nuovo popolo, ma al tempo stesso avesse svigorito le sue migliori intelligenze artistiche, fino a impedire un plausibile rinnovamento di generazioni. Insomma, proprio quando si è unita l’Italia si è sfilacciata nei campi dell’arte: «Previati o Puccini o D’Annunzio, hanno, sì, innegabili qualità, e magari grandi quantità, ma sarà sufficiente ricordare un Canova, o il fantastico Rossini per capire la differenza d’irradiamento» [15]. Concetti consimili erano stati espressi da Giovanni Battista Angioletti; anzi, nel caso dell’autore di Il giorno del giudizio le parole furono più recise e i giudizi più netti: «i nostri musei erano termini di paragone davanti ai quali dovevano cascarci le braccia per lo scoraggiamento. Una volta qualcuno, smanioso e fantastico, predicò addirittura la necessità di distruggerli: […] per sentirsi, lui e i suoi compagni, meno intimiditi, più liberi, più nuovi». Segue una stroncatura del Novecento, del novecentismo e – avrebbe detto Bontempelli – dei ‘novecentieri’ (stroncatura che giunge già a metà del secolo, ma d’altra parte proprio Bontempelli, dopo appena tre decenni, aveva isolato con chiarezza i connotati di un secolo che segnava uno stacco fortissimo col passato). A tal proposito sarebbe interessante comprendere, al di là di quanto già fatto dallo studio di Nigro, quali siano state le dinamiche che restituirono a Terra l’elenco definitivo dei collaboratori del volume, giacché esso appare abbastanza eterogeneo, al limite dell’incoerenza: Angioletti, per esempio, era un convinto erede del rondismo, era della schiera di coloro che praticavano il bello stile, che adocchiava la parola intinta nella tradizione, a dispetto delle “spezzettature” avanguardiste; dunque, andava collocato nella linea di Cecchi, che pure fu tra gli scrittori del libro è [16]. Ma tra coloro che avevano procacciato contatti a Terra vi fu Roberto Papi, bontempelliano di seconda generazione [17]. E non a caso lo stesso Bontempelli consegnò un saggio, tra i più gustosi della collezione [18]. Quindi, nel libro stesso si erano andate componendo scuole spesso in disaccordo fra loro. Eppure il volume conserva una pregevole organicità, garantita – ci pare – proprio da Terra, dalla sua capacità di mantenere fermi alcuni assunti e liberarli da esigenze di coalizioni, chiedendo alla guerra di avere in ciò il più paradossale dei compiti, quello di ‘paciera’ tra movimenti e correnti. Così Angioletti, che certo non guardava a Bontempelli e ai suoi (ma era stato anch’egli tra gli ‘sprovincializzatori’ della cultura italiana a metà degli anni Venti [19]), mette da parte il suo naturale tono polemico e chiude con parole concilianti: «le grandi ombre non ci perseguitano, perché noi non siamo agonizzanti che abbiamo terrore della morte, né figli degeneri. Le grandi ombre – i dipinti, le statue, i palazzi – sono realtà amiche, consolatrici. E potrebbero bastare a redimerci, se a esse restiamo fedeli, dei molti errori» [20]. Nella seconda osservazione Terra deplorava l’abitudine alla morte, alla violenza, alla corruzione, insomma al male, a cui l’Italia si era consegnata, tanto da non avvedersi più dell’una, dell’altra e dell’altra ancora, e quasi convincersi che è tutto in ordine e che certi avvenimenti sono inevitabili [21]. Savinio, nel suo già citato saggio sulle condizioni dello Stato dopo gli eventi bellici, col consueto e smaliziato scetticismo della sua prosa, aveva “denudato” quanto nelle parole di Terra restava riparato per pudore: «Lo Stato è della natura dei tumori. […] La nazione travagliata dallo Stato – la nazione “rósa” dallo Stato mostra una cera florida, un’apparenza di salute. […] Superficie “liscia” e “lustra”. L’apparenza di salute che ha un èbete, un organismo psichicamente devitalizzato» [22]. Dunque, la viziosa consuetudine a cui alludeva Terra, quella inerzia che non permette più di distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, stava nell’inespressività dell’ordinamento civile in quanto ‘Stato’, in quanto organizzazione che consuma ed esaurisce la forza interiore di chi nello Stato vive, fino – diceva bene Savinio – a renderlo èbete, e quindi non più capace di accorgersi di ciò che viene fatto, viene compiuto [23].  
Volendo pescare qua e là dalla terza e quarta osservazione, diremo che pure a Terra veniva la tentazione di obliterare il mezzo secolo letterario nel quale si trovava, risalendo a Leopardi e alla sua disamina sui costumi degli italiani (per spiegarci che il fascismo si era potuto impiantare perché gli italiani vanno avanti a consuetudini, a cui credono di opporre leggi, laddove non vi sono ‘costumi’). Tuttavia, c’era da capirlo: anch’egli – come la maggior parte degli scrittori del libro – sospettava che nelle due guerre sciagurate del nuovo secolo una parte di responsabilità doveva avercela la nuova classe intellettuale sortita dal vago crepuscolo risorgimentale e che forse era meglio fare tabula rasa. Se si leggono le pagine di Raffaele Calzini sulla Società, una certa tendenza sarà più chiara. Calzini [24] era un altro nome dell’«Illustrazione italiana» di quel tempo, di fatto la “spina dorsale” del libro (lui con Angioletti, Cecchi, Carlo Levi, Moravia, Saponaro, Savinio e Vergani erano tutti nomi legati in quegli anni al periodico diretto da Giovanni Titta Rosa) e non è da escludere che il tragico filtro della guerra, il diluvio che spazzò via le città italiane, servisse anche a ripulire la cultura e la letteratura italiane dai sedimenti depositatisi tra gli anni di Giolitti e quelli di Mussolini, fino a rischiare – va detto – di collocarsi sugli stessi sentieri antieuropei e antiesterofili di chi la guerra di Hitler l’aveva sostenuta:

Un certo gusto «farceur» spinse giovanotti brillanti e signorine eccentriche sulla via dell’incanagliamento. Ci furono baruffe e vassallate all’americana (cioè corroborate dai numerosi cocktails venuti di moda) […]. Tra le tante variazioni di burle rimarrà famosa quella alla quale partecipò un principe del sangue e che si svolse a Courmayeur dove il busto bronzeo di Carducci, tolto dal piedistallo, venne collocato nel letto di una dama di corte! […] Tipiche divagazioni della «società italiana»? Non direi; sono atteggiamenti e divertimenti e isterismi di un mondo internazionale e specialmente anglosassone. [25]

Ma Terra aveva l’antidoto anche per gli eccessi analitici dei suoi stessi amici scrittori, laddove volessimo considerare l’era fascista non come un insieme di paratie stagne, ma come flussi osmotici in cui tutto finisce per allagarsi nel diluvio, tutto finisce per guastarsi un po’ perché tutto ci finisce dentro: «il fascismo è meritevole di averci lasciato un importante ammaestramento, ché appunto nel fascismo troviamo tutto ciò che deve essere scrupolosamente evitato, tanto che in definitiva potrà funzionare da ottima guida alla rovescia» [26]. Ma nel 1975 Dino Terra riproporrà (stavolta in proprio) il medesimo schema in Eteromorfismo d’uso quotidiano. Una guida al viver civile, un libro che tutto sommato convalidava a trent’anni di distanza il principio che aveva ispirato Dopo il diluvio, ossia che l’uomo è in grado di mutare aspetto, di cambiare a seconda del contesto [27], mantenendo fermi, tuttavia, gli elementi che segnano la sua esistenza, il suo ‘viver civile’ appunto. E per questa ragione il secondo segmento di quel libro appariva al lettore come una specie di lemmario, un elenco di vocaboli che corrispondevano ad altrettanti concetti, alcuni dei quali erano pressoché i medesimi del libro del ’47 e altri vi erano richiamati abbastanza chiaramente: amore, famiglia, musica, fascismo sono gli stessi di un tempo; mentre dietro vocaboli come cristianesimo, potere, Rinascimento e Romanticismo si adombravano le nozioni, i significati e le analisi sulla Chiesa, dell’arte, sullo Stato e sulla società che avevano riempito le pagine trent’anni prima. Si può dire che la falsariga di quella complicata avventura editoriale attraversò i decenni per riproporsi e rinnovarsi sotto la penna autonoma e indipendente del nostro scrittore, il quale sul fascismo mostrava quanto quella del Ventennio fu tutt’altro che una lezione bene appresa, come con un po’ di abbagliante miraggio egli aveva scritto chiudendo al tempo le sue note. In Eteromorfismo Terra ricalibrava una misura intellettuale in realtà già abbastanza manifesta nell’immediato dopoguerra: «se il governo fascista è stato travolto da qualche decennio, non dobbiamo dimenticare che l’Italia è il paese del sanfedismo, del quale il fascismo non è che un derivato» [28]. Che gli stesse a cuore il più complesso dei temi – il fascismo, appunto – e il più difficile (non tanto per l’enormità degli eventi che lo attraversarono, quanto per la ancora scarsa distanza che separava gli uomini da tutti i terribili fatti e ne rendeva difficile la capacità d’analisi) lo dice che egli scrisse un saggio dal titolo Il residuo littorio. Leggendolo con attenzione, non sfuggiranno contenuti che ritroveremo poi condensati nel personale vocabolario del 1975 alla voce Fascismo, segno da un lato che su certe questioni Dino Terra aveva le idee chiare sin da subito, dall’altro che alcune valutazioni hanno passato il filtro del tempo fino a riuscire quasi speculari. E se per qualche secondo ci può attraversare il sospetto che il nostro autore abbia voluto riconvertire pensieri già concepiti e frasi già sfruttate, dovremo scacciarlo dietro la spinta di una considerazione più profonda e avvilente: che in trent’anni era cambiato poco o nulla (e che alcuni temi meritavano di essere riproposti: il ‘viver civile’ nel sottotitolo di Eteromorfismo richiamava evidentemente quanto Terra aveva scritto nel saggio del ’47 [29]). Per questo a Di Stefano nel 2014 (i primissimi tempi del postberlusconismo) parve di stare sotto lo stesso diluvio. E oggi potrebbe piovere ancora più forte. Perciò, non è inopportuno né è un mero esercizio di stile – e con ciò si chiude – accostare parti dei due testi, rimarcandone utili rimandi e prossimità:

1a. Infatti è notorio con quanta valida simpatia i proprietari terrieri aiutarono le prime squadre d’azione e le connesse costituzioni dei fasci locali a difesa dai nemici rossi. […] Ed analoghi aiuti vi diedero i ricchi in genere, e in particolare certa borghesia; tutti comunemente sospinti a cercar ripari dal chiassoso babau del bolscevismo. (Il residuo littorio, 1947) [30]

1b. Tuttavia questa massa di spostati non sarebbe giammai potuta arrivare al potere se non ci fosse stata la gran paura del bolscevismo. Infatti la classe dominante degli industriali e degli agrari, come la grande finanza, non avrebbe foraggiato quegli scalmanati col manganello se non avesse avuto paura di perdere il patrimonio personale come era successo in Russia. (Fascismo, 1975) [31]

2a. […] fra i reduci vi fu l’ambizione degli ufficiali di complemento: piccoli borghesi abituatisi durante gli anni di guerra a comandare, a far la parte di personaggi autorevoli. La loro smobilitazione era un disastro, e per non ritrovarsi nell’umile condizione d’anteguerra trovavano nel facile moschettierismo fascista una sgargiante divisa, nuovi gradi, nuovi comandi e guadagni capaci di soddisfar i loro piccoli orgogli tanto spaventati. Già una quindicina di anni fa Leone Trotski, in una lucida comparazione tra i fenomeni di fascismo e nazismo analizzò magistralmente questa meschina volontà di potenza del piccolo borghese. (Il residuo littorio) [32]

2b. Secondo Leone Trotsky, in un acuto saggio per spiegare il Fascismo (pubblicato in francese verso il 1930), la causa fondamentale del suo espandersi fu la smobilitazione dell’esercito successiva alla prima guerra mondiale. Con la pace molte migliaia di impiegatucci che per tre anni si erano ritrovati a fare i comandanti, magari soltanto con i galloni di sergente o di sottotenente, mal si adattavano a ritornare nella condizione di umili travet. Invece attraverso lo squadrismo fascista potevano indossare un’altra uniforme, gridare dei comandi, alzare il bastone e riuscire a far paura […]. (Fascismo) [33]

3a. Inoltre i pasticcioni vi ebbero un meraviglioso clima per pescare nella confusione; i lazzaroni un modo d’impiego […]. (Il residuo littorio) [34]

3b. Povero Pisacane, non lo avrebbero trucidato se non gli si fossero scagliati contro quegli sciagurati lazzaroni che rappresentano all’incirca il fascismo di quei tempi. (Fascismo) [35]

 

4a. Insomma diverse disparate correnti d’interessi confluirono nella novità del movimento littorio, tanto da fare – è il caso di ricordar i proverbi – di più erbe un fascio… (Il residuo littorio) [36]

4b. Facendo di ogni erba un fascio, un fascio littorio, fascista è l’arbitro che impone un calcio di rigore […]. (Fascismo) [37]

5a. Ma se oggi dei simbolici fasci di pietra non son rimaste che le tracce impeciate o scarpellate […] nondimeno il complesso fascistico rimane […] e resta diffuso nel paese, prontamente rivestito da novissime camicie, magari appoggiato o innestato agli alberelli della democrazia. (Il residuo littorio) [38]

5b. Per quanto il Fascismo sia ignominiosamente crollato, morto e sepolto dal 1945, pur ne ritroviamo le scorie (che non sono poche) in qualche movimento politico […]. Come se non bastasse, quasi non ne avessimo avuto abbastanza, vi si è aggiunto un altro pseudofascismo: spauracchio sventolato per distrarre l’attenzione dalle pericolose debolezze della democrazia. (Fascismo) [39]


Antonio Rosario Daniele
(n. 7-8, luglio-agosto 2024, anno XIV)




NOTE

1. P. Di Stefano, Città, etica, borghesia. L’Italia dopo il diluvio, «Corriere della Sera», 1 aprile 2014.
2. D. Terra, Nota, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, a cura di Salvatore Silvano Nigro, edizione originale a cura di Dino Terra, Palermo, Sellerio, 2014, p. 315 (ed. 1947: p. 436; si preferisce rimandare prioritariamente all’edizione Sellerio, in quanto il curatore ha emendato refusi ed errori contenuti nella prima edizione, pubblicata da Garzanti nel 1947. A questo proposito si veda la Nota al testo del curatore, pp. 341-344: 344).
3. B. Tecchi, Le autonomie regionali, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., pp. 90-101 (ed. 1947: pp. 89-105).
4.
A. Savinio, Lo Stato, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., pp. 67-68 (ed. 1947: pp. 55-56).
5. Sul giornalismo di Orio Vergani si veda D. La Monaca, Orio Vergani. La «notizia fresca» e la «sensazione vissuta», Firenze, Franco Cesati, 2018.
6. Si veda Giuseppe Giacomo Filippo Re, Dizionario di erudizione biblica. Propedeutico storico, geografico, esegetico ed apologetico, vol. II, Torino, Stamperia Reale della ditta G.B. Paravia e c., 1887, pp. 552-555.
7. Si veda Storia d’Italia. Dai suoi primi abitatori dopo il diluvio fino ai nostri giorni, Torino, Per Giacinto Marietti, 1834, pp. 4-5.
8. D. Terra, Introduzione, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 26 (ed. 1947: pp. XII-XIII).
9. Si veda D. Rocca, La teoria dei quattro stati nel pensiero di Charles Maurras, «Teoria politica», XXIV, 1, 2008, pp. 157-172.
10. C.G. Jung, Antwort auf Hiob, Zurich, Rascher Verlag, 1952 (1a ed. italiana: C.G. Jung, Risposta a Giobbe, traduzione di Alfredo Vig, Milano, Il Saggiatore, 1965).
11. Si veda S. Dell’Amico: Il male in Dio. Il processo di individuazione del divino nella Risposta a Giobbe di Carl Gustav Jung, «Studi Junghiani», 27, 1, 2021, pp. 75-92.
12. Si veda L. Verdi Vighetti, Jung e la colpa: spunti di riflessione teorica e clinica, «Studi Junghiani», 8, 1, 2002, pp. 5-34.
13. D. Terra, Introduzione, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., pp. 28-29 (ed. 1947: pp. XIV [nel testo il numero romano è erroneamente riportato: “VIX”]-XVI).
14. Id., Nota, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 313 (ed. 1947: p. 433).
15. Ibidem (ed. 1947: pp. 433-434).
16. Su Angioletti si veda L. Saltini, Il viaggiatore della parola. G.B. Angioletti (1896-1961), Lugano, Biblioteca cantonale, ELR Edizioni Le Ricerche, 2007.
17. Sul clima intellettuale nel quale erano coinvolti Papi e Bontempelli, tra guerra e dopoguerra, si veda N. Pozza, Vita da editore, a cura di Angelo Colla, Vicenza, Pozza, 2016.
18. M. Bontempelli, La musica, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., pp. 234-243 (ed. 1947: pp. 309-323).
19. Si veda M. Basora, Ma non è rimasto proprio nulla, della mia città? Giovanni Battista Angioletti, un europeo milanese in cerca della sua identità, in Geografie della modernità letteraria, atti del XVII Convegno internazionale della MOD, Perugia, 10-13 giugno 2015, Pisa, ETS, 2015, pp. 509-515.
20. G.B. Angioletti, L’arte è la nostra storia, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 214 (ed. 1947: p. 276).
21. D. Terra, Nota, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 314 (ed. 1947: p. 434): «Come nei campi di concentramento in Germania gli infelici prigionieri dovettero fare l’abitudine alla morte, in Italia l’annoso malcostume, dilagato più o meno fra tutte le classi, ha prodotto l’abitudine allo sfaldamento morale, pericolosa abitudine attraverso la quale restano degenerati gli elementari sentimenti civili, e cioè di solidarietà umana. E se dopo sei mesi nel campo di Buchenwald non c’era presso che nessuna reazione alla vista di un cadavere, da noi siamo ridotti in tal modo che le furfanterie lasciano indifferente la più gran parte dei cittadini genericamente onesti».
22. A. Savinio, Lo Stato, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., pp. 62-63 passim (ed. 1947: pp. 49-50 passim).
23. Si veda S. Cirillo, La democrazia delle idee, sola condizione di progresso. Sorte dell'Europa di Alberto Savinio, «Eurostudium3w», aprile-giugno 2018, pp. 115-126. Il saggio di Savinio, come molti altri del libro, fu pubblicato anche altrove. Si veda la Nota al testo di Salvatore Silvano Nigro, cit., p. 343.
24. Su Calzini si vedano E. Franchi, Uno scrittore colorista: Raffaele Calzini, «Il Mondo», VI, 17, 16 maggio 1920, p. 10; O. Vergani, R. C., «Corriere della Sera», 3 sett. 1953
25. R. Calzini, La società, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., pp. 182-183 passim (ed. 1947: pp. 227-228 passim).
26. D. Terra, Nota, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 317 (ed. 1947: p. 438).
27. Da Metamorfosi (Milano, Ceschina, 1933) Terra affronta il tema con brillanti risvolti socio-politici. Si tengano presenti i saggi di Daniela Marcheschi (La figura e le opere di Dino Terra: originalità e complessità di un protagonista del Novecento letterario, pp. 7-38: 28-31) e di François Bouchard («L’acqua oscura delle grotte»: il realismo sperimentale di Dino Terra, pp. 39-52) in La figura e le opere di Dino Terra nel panorama letterario ed artistico del '900, a cura di Daniela Marcheschi, Venezia, Marsilio, Fondazione Dino Terra, 2009.
28. D. Terra, Fascismo, in Eteromorfismo d’uso quotidiano. Una guida al viver civile, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 96-99: 98.
29. D. Terra, Il residuo littorio, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 289 (ed. 1947: p. 396): «La vendetta del defunto regime è nell’aver lasciato la nazione priva dei principi elementari di un’autentica vita civile». A questo proposito, e più in generale sull’antifascismo di Terra in questa fase, si veda G.A. Palumbo, Dino Terra antifascista: quella strana «Grazia», «Orizzonti Culturali Italo-Romeni. Orizonturi culturale italo-române», rivista interculturale bilingue, 6, giugno 2024, anno XIV, url: http://www.orizzonticulturali.it/it_studi_Gianni-Antonio-Palumbo-2.html; sul romanzo La Grazia si rimanda alla curatela dello stesso Palumbo: Dino Terra, La Grazia, introduzione di Gianni Antonio Palumbo, Venezia, Marsilio, Fondazione Dino Terra, 2023.
30. D. Terra, Il residuo littorio, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., pp. 282-283 (ed. 1947: p. 388).
31. Id., Fascismo, in Eteromorfismo d’uso quotidiano. Una guida al viver civile, cit., pp. 97-98.
32. Id., Il residuo littorio, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 283 (ed. 1947: p. 388).
33. Id., Fascismo, in Eteromorfismo d’uso quotidiano. Una guida al viver civile, cit., p. 97.
34. Id., Il residuo littorio, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 283 (ed. 1947: p. 389).
25. Id., Fascismo, in Eteromorfismo d’uso quotidiano. Una guida al viver civile, cit., p. 98.
36. Id., Il residuo littorio, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., p. 284 (ed. 1947: p. 389).
37. Id., Fascismo, in Eteromorfismo d’uso quotidiano. Una guida al viver civile, cit., p. 98.
38. Id., Il residuo littorio, in Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, cit., pp. 287-288 (ed. 1947: p. 394).
39. Id., Fascismo, in Eteromorfismo d’uso quotidiano. Una guida al viver civile, cit., p. 96.