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Giuseppe Pontiggia, un «classico» rivolto già al futuro
Non ritengo di proporre niente di nuovo nell’ambito della critica letteraria ufficiale e dell’ormai vasto pubblico dei suoi lettori, definendo Giuseppe Pontiggia scrittore che aderisce con pienezza di significato a questo ruolo, come non molti, in verità, nell’odierno panorama letterario italiano, con la sua produzione narrativa e saggistica, per autenticità e originalità sostenute da un senso fortemente «etico» della scrittura e da un profondo impegno intellettuale di studioso (della lingua, dei linguaggi, del costume sociale), di bibliofilo patito e lettore onnivoro di «tutti i libri». A sostegno di questa affermazione citerei il seguente passo di un intervento dello stesso Pontiggia, apparso sulla rivista «Alfabeta», n. 66 del novembre 1984, sul tema del «senso della letteratura»: «… si scrive per quel sé che è diventato gli altri… una sorta di proiezione in un vaglio critico che poi è quello che decide della validità di quello che scriviamo». Il senso di questa affermazione ci permette di individuare all’interno dell’Opera di questo scrittore una linea di percorso circolare, tanto è ossessivo in lui il ritorno sugli stessi temi, che sono poi i rovelli della sua problematica esistenziale e letteraria.
In una visione del mondo, che sembra essersi cristallizzata sulla impossibilità di penetrare a fondo il mistero dell’umana esistenza, in mezzo a una folla variegata di personaggi che spesso si muovono come fuggiaschi e reclusi, la vita scorre tangibile e palpita di segni concreti che ci raccontano, nuda e cruda, la nostra quotidianità. Una quotidianità fatta di alienazione e scontento, di traditori, spie e mestatori politici, di adultèri inappaganti, di letterati illusi e esibizionisti, di uomini di cultura e imprenditori che si arroccano sui loro privilegi, sull’ipocrisia e sull’avarizia, sul dominio del dio denaro, sulla mancanza di etica professionale, su imbrogli e commerci illeciti, sul delitto, nel frastuono suscitato dal bombardamento esercitato dai «media» e dal blablà di un linguaggio-lingua globalizzato sul modello di comunicazione mass-mediale. Per questo Pontiggia avverte la necessità di articolare il suo discorso di scrittore e di uomo (che coincide nel suo caso) tra romanzo e saggio, tuffandosi nel mare dell’oggettività per tornare ciclicamente a illuminarlo della sua intuizione geniale.
La ragione che se ne ricava, fra quelle essenziali della sua Opera, non può non coincidere con il senso di una «progettualità» attraverso la quale la scrittura tenderebbe sempre, al suo interno, sia in ambito narrativo che saggistico, nelle scelte sintattiche e lessicali oltreché tematiche, a un modello compositivo retto da un equilibrio stabile fra strumento espressivo e materia dell’espressione, magistralmente risolto nel segno della razionalità, della pacatezza e della chiarezza, del rapporto diretto, «radicale», con l’oggetto della scrittura , con totale eliminazione del superfluo, degli orpelli. Questo spiegherebbe il costante lavoro svolto per oltre un trentennio, articolato dalla necessità di alternare alla prosa narrativa quella saggistica, che tuttavia entrano in continuo rapporto speculare mostrando un modello stilistico omogeneo oltre il canone nel loro accattivante fluire, pur nelle differenze di fondo, cioè di taglio e di contenuti, e ancora caratterizzato dal mettersi continuamente in discussione, passando al «vaglio critico» (quel «sé diventato gli altri» di cui si diceva prima) di un rigore inflessibile la materia prodotta, la solidità del sostrato culturale della propria formazione. Da ciò l’esigenza di riprendere e riscrivere racconti e romanzi, interventi critici, brevi saggi, spesso interamente rielaborati e confluiti in quei gioielli di saggistica che sono i volumi che li accolgono.
È così che tutto in quest’Opera, continuamente rivisitato e ripensato, diventa materia del narrare, di affabulazione, mentre nello stesso tempo è spunto di riflessione critica. Tutto. Anche la vita. E materia del vissuto, del suo vissuto personale, segmento esperenziale della drammatica, fondamentale importanza, dopo trent’anni di decantazione, è diventata materia del romanzo Nati due volte, edito da Mondadori alla fine dell’agosto 2000.
Tema centrale del romanzo Nati due volte è il rapporto, raccontato in prima persona, tra un giovane insegnante, il prof. Frigerio, e il figlio Paolo, disabile a causa di un parto disastroso (colpa di un ginecologo ideologicamente contrario al taglio cesareo): una temporanea interruzione di ossigeno, una lesione cerebrale provocata dal forcipe gli compromettono per sempre non le facoltà intellettive, ma i centri motori e quelli del linguaggio. Così è destinato a una deambulazione incerta e traballante, a una funzione verbale impacciata e gorgogliante. Fa da sfondo al tema lo sconcerto che la disabilità, o l’handicap come più comunemente si dice, produce in un mondo impreparato ad accettarlo (l’ambientazione è ricondotta alla fine degli anni Sessanta, anteriormente quindi alla Legge 517 del 1977): medici, insegnanti, parenti, genitori compresi che proiettano sul figlio le proprie angosce e nevrosi, in una assurda quanto vana ricerca della normalità, al pensiero di un mancato raggiungimento della quale non riescono a rassegnarsi.
Il titolo viene modellato prendendo spunto dalla riflessione di un pediatra, figura di medico che si distingue in contrasto con la mediocrità del contorno, nel tentativo di far luce nel buio dello sconforto dei genitori: i bambini disabili nascono due volte, la prima al momento del parto, quando l’evento della nascita li consegna «disabilitati» a entrare in un mondo pronto a rifiutarli; la seconda è una ri-nascita affidata alla intelligenza e alla cura degli altri, dovendo imparare tutto partendo da zero. Comincia allora per il piccolo Paolo un’odissea penosa durata trent’anni (il tempo narrativo della vicenda), fatta di ginnastica ossessiva, encefalogrammi, strategie educativo-riabilitative di varia natura, alle prese con fisiatri, psicologi, neurologi, non sempre all’altezza della loro professione, spesso distanti anche da una semplice dimensione umana, e soprattutto nel sostenere il compito gravoso di farsi accettare, nella famiglia, nella scuola, nel consorzio dei «normali». Di conseguenza, la narrazione è come attraversata da due movimenti narrativi che si intersecano: dal tema principale se ne generano altri che paiono da esso momentaneamente distaccarsi per poi ritornarvi ricollegandosi, creando quello che i linguisti chiamano «campo semantico», di sicura efficacia in questo caso in quanto connota una sapienza di scrittura nel proporre in un giusto equilibrio le variazioni tematiche: esempi tangibili sono il tema dell’intelligenza che scaturisce dall’ossessione del padre per i test di misurazione del quoziente intellettivo cui viene sottoposto il figlio; e soprattutto c’è quello del confronto fra normalità e disabilità che si risolve nel tema della «disabilità universale»: se l’handicap viene visto come limite mentale o fisico non sarà difficile comprendere che prima o poi riguarderà tutti, che prima o dopo tutti possiamo scoprirci «disabili» basti pensare, al di là delle cause accidentali, all’insorgere di malattie invalidanti, all’irrimediabile decadimento nel tempo del corpo e della mente.
Ma perché Pontiggia ha scelto di scrivere un romanzo, di manipolare in forma narrativa materia del proprio vissuto ormai emozionalmente raffreddata? Avrebbe potuto scrivere una dolente testimo- nianza, un edificante memoriale, un pregnante documento di vita vissuta ad uso d’esercizio di buoni sentimenti per contemporanei e posteri. Invece no. Ha scritto un romanzo e al meglio nella resa delle sue doti di artista. Le ragioni sono sempre quelle intrinseche al senso della letteratura, che abbiamo visto prima (e Pontiggia è essenzialmente «letterato» nell’accezione più classica del termine): quel «sé» che diventa «gli altri», o «altro» da sé per essere validamente «di tutti». Pontiggia ha potuto eludere così la poco significativa edificazione di una scrittura patetica e consolatoria e ha trovato nella invenzione narrativa il coraggio di affrontare, con radicale lucidità, un tema, l’handicap, che riguarda la condizione di ogni uomo, direttamente e indirettamente. E cosa ancora più pregevole senza cadere nella trappola, nella gabbia del romanzo autobiografico. Certamente, non si può escludere che una certa quota di esperienza del vissuto personale del Pontiggia «padre» non sia stata riversata nel serbatoio del Pontiggia scrittore e poi distillata, dall’iniziale rifiuto alla successiva sofferta accettazione della realtà, fino alla faticosa costruzione di un rapporto esclusivo con il figlio «disabile» o «diversamente abile». Tuttavia, Nati due volte non è assolutamente un romanzo autobiografico. Questo è stato possibile perché da autentico maestro dell’arte narrativa Pontiggia ha saputo raffreddare prima questa materia del proprio vissuto per poi distaccarsene e affidarla a una dimensione autonoma, impersonale e atemporale, quasi metafisica in senso laico e afilosofico, che chiamerei di «sospensione» e che bene raffigurano la nudità e il biancore della pagina, una dimensione che è propria della scrittura creativa e nella quale la realtà personale e impersonale rinasce a nuova vita autonoma, quella del testo. Gli strumenti indispensabili per compiere questa difficile operazione lo scrittore Pontiggia li possiede tutti e li sa utilizzare al meglio e al massimo: sono quelli dello stile nella varietà dei toni e dei registri, dal taglio aforistico all’esercizio dell’ironia, alla leggerezza umoristica, e poi della sapiente costruzione di una struttura narrativa che fa procedere la scrittura a scatti, ora avanti ora indietro nel tempo, inserendo di tanto in tanto apparenti digressioni e fulminei, efficaci commenti a situazioni e personaggi che svelano spesso la specie ignorata dei «disabili normali», che si annidano ovunque.
Conferisce inoltre omogeneità con lo stile del complesso della sua Opera l’asciuttezza della sintassi, l’ariosità della frase, la lucidità e compattezza dell’impianto logico. A questo punto, giunti quasi alla conclusione, scopriamo un’altra verità di questa scrittura, che emerge dalla sua struttura più profonda: il figlio protagonista getta una amorosa luce di riflesso che illumina le figure dei genitori, facendoli co-pratagonisti, e soprattutto il padre, che alla fine riesce ad accettare con serena consapevolezza la condizione del figlio «quando – ha detto lo stesso Pontiggia in una intervista – si rende conto delle tante cose belle di Paolo: la sua capacità di essere simpatico con gli altri, il suo senso dell’ironia, la sua indifferenza per le convenzioni. Tutto questo è liberatorio per il figlio, ma anche per il padre. Che addirittura scopre di ricevere dalla sua condizione più di quanto questa gli toglie», dopo un lungo, tormentato cammino alla ricerca e poi alla scoperta di un figlio dal quale voleva istintivamente fuggire. Ragion per cui, se il libro è da un lato il romanzo della difficile educazione di un figlio disabile, dall’altro diventa vero e proprio «romanzo di formazione» del padre (nel pieno rispetto della grande tradizione europea del genere letterario), nel senso di una graduale acquisizione di un autentico, sofferto ruolo di «padre», ben diverso da quello assunto, nella comune consuetudine, alla nascita del primogenito, sano, Alfredo, che avrà tre anni quando verrà alla luce Paolo, verso cui nutrirà subito ostilità per gelosia. Da questa considerazione mi è sorto, quasi spontaneo, di pensare come a una sorta di stigma che connota il ruolo paterno, cioè la sofferenza, da acquisire e accettare insieme al ruolo stesso se si vuole assumerlo in modo autentico, una sofferenza, dunque, diversa da quella insita nel ruolo materno, in quanto questa è «fisiologica» sin dal momento del concepimento di un figlio, quindi con il parto e da quel momento connaturata. Madre si diventa per legge di natura concependo e partorendo, padre per accettazione del ruolo, se autentica ripeto, con tutto ciò che comporta nel bene e nel male, e questo significa essenzialmente «soffrire», una sofferenza commisurata all’evento della nascita ed estesa poi nel tempo all’esistenza del rapporto padre-figlio.
Da questa rinnovata figura di padre ci proviene un messaggio ben preciso, di grande coinvolgimento: evitare assolutamente il codice monodirezionale; cercare di individuare e di entrare nel codice peculiare del disabile, quindi di instaurare un rapporto essenzialmente comunicativo per coglierlo nella sua autenticità umana, nella sua pur complessa realtà di «persona».
Antonio Di Mauro
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII)
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