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Tra erbe e alberi: aspetti botanici nella «Commedia» di Dante
Nella Commedia il rapporto di Dante con l’ambiente è realisticamente molto stretto, come si vede in innumerevoli occasioni, tanto che per trattare tale tematica appare quasi scontato prendere le mosse proprio dai primi versi: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita». Oltre l’incipit, dal punto di vista dell’ambiente, vorrei ricordare d’un certo rilievo anche la selva dei suicidi del canto XIII dell’Inferno, paragonata alle zone impervie dislocate tra Cecina e Corneto (Tarquinia) nella Maremma tosco-laziale, e ancora la selva del Paradiso terrestre (le cui peculiarità si leggono dal XXVIII al XXXIII canto del Purgatorio), paragonata sotto qualche aspetto alla Pineta di Ravenna.
Se è lecito chiedersi il significato allegorico della «selva oscura» dantesca, le piante specifiche invece di solito sfuggono a una tale interpretazione, in quanto spesso correlate a un personaggio o a una determinata situazione, o utilizzate come paragone o exemplum. Volendo porre l’attenzione sulle piante erbacee o boschive in Dante nel loro contesto naturalistico, in ogni caso viene da chiedersi quali possano essere le peculiarità botaniche, e se esiste uno specifico sottobosco. L’uomo di oggi, sensibile alla problematica ecologica, alla lettura della Commedia potrebbe chiedersi se il suo Autore avesse una sensibilità ambientale, se amasse e rispettasse la natura, se ne conoscesse i meccanismi e i processi vegetazionali, cioè, per dirla con una espressione attuale, se avesse una coscienza ecologica. È chiaro che, se da una parte non si può parlare, per Dante, di ecologismo in senso moderno, dall’altra è possibile evidenziare in lui rispetto e attenzione nei riguardi dell’ambiente, tanto che molti dei suoi personaggi e alcuni tratti descrittivi, soprattutto dell’Inferno e del Purgatorio, hanno come sfondo un bosco, un prato, un albero, uno stagno, una pianta peculiare, un fiore, già a partire dai primi versi della Commedia. A parte i risvolti allegorici, a emergere sono le peculiarità di questa selva, oscura, selvaggia, aspra e forte, nella quale prevale la forza della natura vergine, una natura intatta, che se da una parte impedisce all’uomo di penetrarla, dall’altra permette al suo interno una vita variegata. In essa è possibile immaginare animali, erbe e alberi secolari: vecchie querce, antichi faggi, un «robusto cerro», un abete che «in alto si digrada / di ramo in ramo», e frassini e tigli e platani.
Sotto questi alberi c’è anche un fitto sottobosco, intricato di cespugli, di arbusti, di rovi, di piante che pullulano, di semi che nascono. La campagna è un qualcosa di vivo e di vivace, come si evidenzia in qualche tratto della rappresentazione del bosco che si trova in cima alla montagna del Purgatorio (XXVIII, 106-120), dove Dante sembra voglia descrivere il processo di nascita delle piante a partire dal seme, dal suo essere sparso sulla terra dal vento e dalle tempeste, inumidito dall’acqua, quindi attecchire, germogliare, crescere, con la più attenta osservazione di quelle che apparentemente sono «sanza seme palese», come i funghi. In tale contesto l’erba appare verde e può essere utile agli animali che se ne cibano, ma a volte anche dannosa all’agricoltura. Le piante erbacee, spesso infestanti, possono diventare però per Dante exemplum o termine di paragone per un personaggio, un’azione, una situazione, assumendo anche un significato allegorico, come il giunco, o ricavando da esse una inaspettata positività, come per la gramigna o per il loglio.
La spelta, una specie di grano, e la verbena, una pianta erbacea con fusto rigido, vengono citate, ad esempio, da Pier delle Vigne nel canto XIII dell’Inferno, per spiegare la metamorfosi delle anime dei suicidi in alberi. L’anima, quando si separa dal corpo, viene inviata da Minosse nel settimo cerchio, dove germoglia, somigliando dapprima a un’erba quasi indistinta, poi si trasforma in una pianta cespugliosa, e successivamente in pianta da bosco, quasi a indicare i tre stadi vegetativi. La festuca, un’erba da pascolo, quando si tramuta in secco stelo, offre un paragone con i dannati congelati nel ghiaccio del Cocito. Al loglio, Lolium temulentum, noto come erba tossica, vengono paragonati quei frati che si sono allontanati dalla regola francescana, ma viene distinto da un’altra specie simile, il Lolium perenne, che è cibo per gli uccelli. Alla gramigna Dante paragona l’umiltà di Fabbro Lambertazzi e Bernardin di Fosco, i quali, pur giunti ad alte cariche politiche, non hanno perso la loro umanità, ma essa è pure erba infestante che ricopre il carro, che allegoricamente rappresenta la Chiesa. Il trifoglio, che il contadino estirpa nei suoi campi, è l’erba cui viene paragonata la «mala oppinione» di chi pensa che nobiltà di nascita equivale a nobiltà d’animo, mentre l’ortica, alla quale è paragonata Beatrice, fa prendere coscienza al poeta della via traversa che aveva intrapreso.
In questo ideale mondo naturale non mancano la canna, la cannuccia di palude, il papiro, l’edera, il giunco. Quest’ultimo, nel primo canto del Purgatorio, che vede in scena Catone, Dante e Virgilio, si tramuta in un simbolo allegorico che ha sapore di una iniziazione catara. Cingere i fianchi, qui simbolicamente con il giunco, accostarsi all’acqua e lavarsi il volto ci lascia intravedere un Dante aspirante ‘perfetto’, come si definivano i catari, che viene preparato alla cerimonia del consolamentum. Catone sembra assumere la funzione di consolato-maestro, che lo invita a pronunziare la sua adesione, ripetendo le parole suggerite dall’anziano: «vengo a Dio (che corrisponde al «va dunque» di Dante), a voi e alla Chiesa e al vostro santo ordine per ricevere perdono e misericordia per tutti i miei peccati (“che li lavi il viso” e“ogni sudiciume quindi stinghe”)».
Per conoscere però le peculiarità botaniche di questa ideale selva dantesca, di sicuro è illuminante la seconda egloga, dove il Poeta ci descrive una selva di frassini frammista a tigli e platani, mentre le caprette giacciono sull’erba e il pastore se ne sta sotto un folto acero, appoggiato a un bastone di perastro. A queste piante si possono aggiungere quelle più tradizionalmente da bosco: la quercia, il cerro, il leccio, l’alloro, il pino, l’abete. Della quercia evidenzia il suo frutto, le ghiande, quale cibo dell’uomo nell’età dell’oro, e le galle (comunemente dette cecidio) che augura come cibo a coloro che gli sono invisi, mentre assume il cerro come paragone di sé stesso, nell’atto di resistere a Beatrice che vorrebbe che la guardasse negli occhi e accettasse il suo rimprovero. Non manca l’alloro con l’immancabile richiamo al mito di Ovidio. Dafne, sfuggendo ad Apollo, innamorato di lei ma che lei respinge, inseguita, invoca aiuto dal padre Peneo, quand’ecco il miracolo della sua trasformazione in pianta. Ma l’alloro è per Dante anche simbolo della tanto agognata gloria poetica, mentre d’altra parte assume un suo criptico significato religioso, figurando il legno della croce su cui è stato crocifisso Gesù: «vedra’mi al piè del tuo diletto legno / venire», dice invocando la Divina Virtù. Infine ci sono alberi pregni di misteriosità, come quello che i tre penitenti (Dante, Virgilio e Stazio) incontrano all’inizio della VI cornice del Purgatorio, cui ne corrisponde in parallelo un altro alla fine della stessa cornice, ed entrambi affiggono le loro radici in quello che si trova nel Paradiso terrestre. Il primo, paragonato a un abete, mostra le peculiarità del pino domestico, se leggiamo la descrizione di tale pianta fatta da Alberto Magno, un erborista medievale che nel suo libro dal titolo De vegetabilibus («Sui vegetali») lo descrive con modalità simili a quelle di Dante, che si esplicano nella dolcezza del frutto, nella difficoltà di poterlo mangiare, e poi nel fatto che la parte superiore della pianta va ad allargare, contrariamente alla forma dell’abete.
Dante, attraverso i suoi paragoni e le sue descrizioni, lascia trapelare spesso un animo sensibile e attento verso quell’ambiente naturale, cui egli si accosta con riverenza e rispetto, con meraviglia ed entusiasmo, con amore francescano e attento spirito di osservazione. In tale chiave di lettura anche a noi moderni quindi, dopo 700 anni, può offrire momenti di riflessioni e di attenzione verso quella natura che amiamo tanto, ma che a volte ci appare lontana e incomprensibile, e a volte bistrattiamo forse perché la conosciamo poco.
Angelo Manitta
(n. 12, dicembre 2021, anno XI)
* Da Angelo Manitta, La botanica di Dante. Piante erbacee nella ‘Commedia’, Il Convivio Editore, 2020, pp. 312. |
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