Etica della scrittura e scrittura come intendimento etico. Nota su Giuseppe Pontiggia
«Penso che questo sia fondamentale per chi scrive, avere la percezione che il testo sia suscettibile di miglioramenti, sia qualcosa di cui alcune parti funzionano e altre no, non qualcosa di misterioso e di inafferrabile. O meglio è “anche” questo, ma al tempo stesso è qualcosa su cui si può lavorare». (Giuseppe Pontiggia) «Colpisce la sicurezza con cui lo studente Pontiggia sa individuare, dominandole (lo dimostrano i virgolettati anche minimi), le più solide fonti critiche di partenza per la propria ricerca di tesi: ad esempio, oltre agli interventi su Svevo per così dire ‘canonici’, obbligati, di Eugenio Montale e Benjamin Crémieux, che ne furono fra i primi estimatori, quelli di Sergio Solmi, Elio Vittorini, Bruno Maier, Giacomo Devoto, Carlo Bo, Alain Robbe-Grillet e pochi altri. In un’epoca in cui il dibattito intorno al triestino finiva non raramente con l’insistere sulla difficoltà di lettura (Svevo ‘scrittore per iniziati’ – ribadiva Flora) o il ruotare ancora intorno a quelle ‘mende verbali’, originate dalla minor pratica dell’italiano, di cui lo stesso Montale aveva segnalato la marginalità già nel 1925, Pontiggia ne ribadisce non solo la forza dello stile e il ruolo di grande della letteratura italiana, ma anche la statura europea». [3] La tesi di laurea di Pontiggia tocca argomenti definiti compiutamente fin a partire dai titoli (di nettezza ‘chirurgica’) dei capitoli in cui essa è suddivisa: Il punto di vista, Il tempo, I personaggi, Il paesaggio, Il dialogo, Il linguaggio; segue in chiusura la bibliografia. Vi sono già evidenti quella cura e attenzione per il linguaggio sino alle minuzie, e dalle singole parole all’aggettivazione; in breve, una scrittura saggistica chiara e rigorosa, e una notevole indipendenza di giudizio: un altro scarto e respiro rispetto alla scrittura accademica in cui a tutt’oggi è generalmente redatto tale genere di lavori. «Ne parlavo coll’autore e lui di solito conveniva che effettivamente certe parti andavano modificate: non nell’interesse di qualcuno, ma nell’interesse del testo. Io facevo proposte di correzione, cerchiavo per esempio le parole che secondo me andavano omesse o ne suggerivo altre. È un lavoro che adesso non faccio più per questioni di tempo, ma che è stata un’esperienza importante; ed è un lavoro che a mia volta io chiedo a qualche lettore-vittima quando scrivo. So benissimo che è una fatica non da poco. A questi lettori io chiedo che mi leggano il testo, che mi dicano o mi sottolineino le parti che secondo loro non funzionano, le dissonanze che notano nella scrittura le parole sbagliate, le immagini non risolte, le battute non convincenti. Hanno tutta la mia riconoscenza se sono severi ed esigenti». [6] Un lavorio di scrittura e riscrittura a cui Pontiggia, valendosi a volte di amici-critici su cui contare (esemplare il sodalizio con Daniela Marcheschi che ne curerà il Meridiano Mondadori [7]), ha sottoposto testi e romanzi. Emblematica è in particolare la revisione e riscrittura, a distanza di anni, del romanzo La grande sera, uscito presso Mondadori nel 1989 e vincitore del premio Strega. Nell’edizione riveduta per la collana mondadoriana degli Oscar, nel 1995, si legge: «Dopo la pubblicazione della Grande sera, nel 1989, mi sono reso conto che il testo presentava alcuni difetti non marginali. Parte della critica e dei lettori mi ha corroborato, per così dire, in questa inquietante persuasione. Dovessi riassumerli in modo schematico: Ridondanze di colorito retorico (eccessi di antitesi, parallelismi, ossimori). Aforisticità insistita. Sentenziosità dei dialoghi. Ho lavorato oltre un anno alla correzione di questi difetti. Dalla revisione capillare, parola per parola, il testo è uscito non vistosamente – però profondamente modificato. Mi sembra più rapido, sfumato, ambiguo, ironico. Il lavoro sui dettagli ha finito per cambiare l’insieme. Io spero sia migliorato». [8] O, ancora, si consideri il lavoro di ‘taglio, revisione e cucito’ dell’ultima opera Prima persona (raccolta, con svariate revisioni, degli Album pubblicati nel supplemento domenicale del quotidiano «Il Sole 24 Ore», tra il febbraio 1997 e il maggio 2002) [9]. Un vero e proprio volume di critica dell’esistente e di sguardo eidetico sulle cose e sul linguaggio, sulle cose attraverso il linguaggio e la sua critica, che per altri versi richiama l’esemplare Diario fenomenologico di Enzo Paci. «è anche un ritorno al soggetto [la fenomenologia, n. d. r], al cogito, non al soggetto come categoria artificiale, ma al soggetto proprio, in prima persona: a quel soggetto che è ognuno di noi e che non è né astratta categoria, né puro pensiero. Per fare questo bisogna sospendere ogni conoscenza e ogni giudizio dato prima di sperimentare atti e fatti così come sono vissuti, bisogna compiere l’esercizio di sospensione che gli scettici greci chiamavano epoché. Bisogna non ripetere nozioni o categorie astratte, ma ricominciare da capo, compiere sempre le operazioni che fondano un sapere e una scienza». [10] Affermazioni che mettono in risalto il contesto di pensiero filosofico, oggi non comune negli scrittori italiani, in cui Pontiggia verrà nel tempo maturando la propria idea di autobiografismo in letteratura, di cui è esempio (per molti aspetti da indagare ancora di più di quanto già fatto dalla critica) il romanzo Nati due volte (Milano, Mondadori, 2000). Una idea che gli si era annunciata già in tutta la sua problematica portata formale fin dall’epoca degli studi per la Tesi su Svevo: «Questa incapacità sostanziale a spezzare il punto di vista unico rappresenta dunque una riprova tecnica dell’autobiografismo di Svevo. Infatti non tanto l’unicità ce ne persuade (ne La coscienza di Zeno il racconto è addirittura in prima persona, ma questo potrebbe essere soltanto un espediente tecnico) quanto proprio i vani tentativi di Svevo di spezzarla. Autobiografismo che non soffoca, anzi favorisce la creazione di tanti indimenticabili personaggi. L’autobiografismo di un uomo che già straordinario nella vita (malgrado le superficiali apparenze) è stato trasfigurato dalla propria arte in un emblematico protagonista, contraddittorio disperato sorridente». [11] Con acribia di filologo, alla dimensione fenomenologica Pontiggia aggiunge un attraversamento di ciò che di meglio la filologia e la linguistica hanno prodotto, unendo – al modo di Paul Ricoeur – dimensione fenomenologica e dimensione ermeneutica: in questo caso letteraria. Pontiggia, infatti, rinuncia a un assolutismo fondativo dell’io – per dirla appunto alla Ricoeur – con lo scopo di far emergere un sé come altro, in un orizzonte intersoggettivo e ampiamente culturale che prevede l’alterità dentro il soggetto stesso: il sé è altro, ma è anche quel «sé che coincide con gli altri», caro a Giorgio Caproni oltre che a Pontiggia. Il sé che coimplica, si porta dentro, anche quella molteplicità e dialogicità asserita pure da Michail Michajlovič Bachtin e dalla teoresi di ascendenza fenomenologica del primo Novecento. «Io penso che lo scrivere sia soprattutto inventare nel senso etimologico di invenire. Invenire in latino voleva dire trovare. Inventare è un frequentativo di invenire e vuol dire essenzialmente scoprire quello che non si sapeva di conoscere, trovare quello che non si sapeva esistesse. Penso che una delle mete di un narratore sia dar vita a un testo che alla fine ne sappia più di lui, un testo che rappresenti per lui una fonte di sorpresa, di curiosità, di conoscenza, che non lo deluda alla rilettura, ma anzi riveli significati nascosti che lui stesso non poteva prevedere. Un testo è riuscito se ne sa più dell’autore, e questo è confermato dalla nostra esperienza, sia dall’esperienza storica». [12]
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