La poesia di Guglielmo Petroni e Mario Tobino

Gugliemo Petroni e Mario Tobino sono oggi considerati rilevanti narratori italiani del secondo Novecento. Più difficile è che venga ricordata la loro produzione poetica; anche da parte della critica, l’attenzione è andata scemando dopo la loro morte nei primi anni Novanta. Le più importanti tra le recenti pubblicazioni critiche sui due autori (il «Meridiano» Opere Scelte di Mario Tobinoe gli atti del convegno La narrativa di Gugliemo Petroni) non prendono infatti in considerazione le poesie. [1] Nel corso della loro carriera, tuttavia, le poesie di Petroni e Tobino hanno attirato l’attenzione di importanti critici quali Binni, Caproni, G. De Robertis, Forti, Garboli, Gatto, Raboni e altri ancora. [2] È grazie all’apprezzamento per le sue poesie che Petroni entra a far parte dei circoli intellettuali fiorentini degli anni Trenta, mentre Tobino, più volte amareggiato per l’accoglienza da lui ritenuta insoddisfacente alle sue poesie, [3] ne ha sempre ribadito l’importanza: «Le mie poesie, i miei versi, sono la mia immediatezza, le mie istantanee». [4] Su queste basi è da credere che valga la pena tornare a leggere le poesie dei due autori.

Petroni pubblica la prima raccolta, Versi e memoria, nel 1935, riproponendola poi con tagli, aggiunte e sostanziose variazioni nel 1959 col titolo Poesie. Fermo sereno (1969) consiste di otto nuove poesie, poi inglobate in Poesie (1928-1978), riproposta salvo poche esclusioni delle poesie scritte in cinquant’anni. [5] L’edizione ne varietur è tuttavia Terra segreta (1987), che accanto al resto recupera l’intera Versi e memoria, insieme ad altre poesie giovanili mai prima pubblicate in volume.
Tobino pubblica due raccolte negli anni Trenta (Poesie, 1934; Amicizia, 1939) e due nel periodo compreso tra guerra e immediato dopoguerra (Veleno e amore, 1942; ’44-’48, 1949), prima di giungere a una sistemazione con L’asso di picche (1955), contenente una selezione di quanto pubblicato fino a quel momento insieme a dieci nuove poesie. Nel 1974 torna per l’ultima volta alla lirica pubblicando una nuova edizione de L’asso di picche con l’aggiunta della raccolta Veleno e amore secondo, consistente di inediti scritti dal 1954 al 1973.
Appaiono evidenti i parallelismi tra i due percorsi: si ha una prima produzione, quantitativamente rilevante e antecedente gli esordi narrativi in volume, negli anni Trenta, con Tobino che mantiene una più ampia presenza sulla scena nel decennio successivo. [6] Negli anni Cinquanta e Settanta (con un’appendice negli ultimi anni di vita per Petroni) si hanno due successivi momenti di risistemazione degli scritti giovanili, insieme alla proposta di nuovi, quantitativamente limitati, gruppi di poesie.
La produzione più ampia e continuativa si ha fino al 1945, o poco dopo nel caso di Tobino. In seguito, i maggiori riconoscimenti ricevuti con la narrativa hanno probabilmente contribuito a far sì che i due autori lasciassero in secondo piano la poesia, senza tuttavia mai abbandonarla completamente nel corso dei decenni centrali della loro carriera letteraria. Buona parte della produzione inedita sembra però ripiegare entro limiti un po’ angusti (così alcune poesie d’occasione di Tobino o le Dediche di Petroni), facendo così risaltare per contrasto l’ambizione delle prime raccolte, proposte a più riprese non come documenti di un passato, ma come sollecitazioni ancora operanti nel presente. Quindi l’operazione principale di Petroni e Tobino poeti nel dopoguerra pare consistere nella sistemazione e valorizzazione di quanto scritto da giovani. Le raccolte conclusive non si configurano come sillogi o semplici antologie, sono bensì pensate e costruite come opere organiche, che inglobano le raccolte precedenti per fornire un’immagine unitaria e definitiva della poetica dei due autori. Storia della vita, dei sentimenti e delle riflessioni degli scrittori fissati in un’istantanea al loro congedo dalla poesia, L’asso di picche e Terra segreta si prestano a una doppia lettura sincronica e diacronica, tale da diminuire la rilevanza e la necessità di riletture delle raccolte precedenti che vadano oltre lo scrupolo filologico. [7]
Passaggi di un itinerario passato di vita e letteratura da una prospettiva ancorata al presente: questa l’immagine di sé come uomini e come poeti che hanno voluto lasciare Petroni e Tobino.

Le differenze tra le due poetiche rispecchiano fedelmente i diversi caratteri di due scrittori che bene si conoscevano tra di loro: Tobino e Petroni erano infatti amici, coetanei e conterranei. Iniziano a frequentarsi dall’inizio degli anni Trenta allorché, entrambi giovani aspiranti scrittori autodidatti di provincia, si scambiano informazioni, consigli e contatti su riviste in cui pubblicare i loro primi racconti e poesie. [8] I due sono inseriti in un ambiente letterario estremamente vivace come quello della Lucchesia dell’epoca, legati anche dalla comune amicizia – a partire dal dopoguerra – con Felice Del Beccaro, tra gli interpreti più fedeli e approfonditi di due scrittori che sempre conserveranno uno stretto contatto col territorio. [9] I numerosi riferimenti a Lucca e Viareggio che si trovano nelle loro opere mostrano come la terra d’origine abbia per loro rappresentato un luogo di crescita anche e soprattutto culturale; non c’è da stupirsene, considerando la ricchezza e la diversità degli spunti offerti dalle scene letterarie delle cittadine della zona. A Viareggio l’ispirazione veniva dalle storie dei marinai, e la lezione di Lorenzo Viani era tramandata da Rolando Viani, Krimer, Silvio Micheli, Leonida Rèpaci; a Forte dei Marmi, al caffè del Quarto Platano, si riunivano in estate con Enrico Pea nomi tra i più importanti dell’arte e della letteratura italiana: Montale, Carrà, Bigongiari, Soffici, Delfini, Russo ecc. Meno mondana era Lucca, dove al Caffè Di Simo si radunavano scrittori che condividevano una poetica ispirata alla semplicità profonda e all’essenzialità dei classici: il circolo comprendeva, tra gli altri, il narratore e giornalista Arrigo Benedetti, Romeo Giovannini (importanti le sue traduzioni dei lirici greci), Giuseppe Ardinghi (pittore-poeta come il giovane Petroni). [10]

Tobino e Petroni sono parte integrante di questa scena, amici intimi che tuttavia seguiranno strade diverse per l’affermazione letteraria: già a metà degli anni trenta Petroni si inserisce nel circolo dei letterati fiorentini, trasferendosi poi a Roma ed entrando nel circuito di quella «cultura ufficiale» dalla quale Tobino si sentiva emarginato e osteggiato. In un appunto del diario, nel 1950, infatti Tobino inserisce spregiativamente Petroni tra i letterati «che si sentivano soddisfatti di essere intelligenti». [11] L’affetto tra di loro era infatti un’attrazione tra diversi, quella che può intercorrere tra due caratteri pressoché opposti: umorale e ribelle Tobino, mite e misurato Petroni, che nel terzo capitolo de Il mondo è una prigione descrive l’amico come «scrittore sdegnoso, serio, i suoi scritti sono pieni di una scrittura risentita, […] difficilmente può sentirsi in pace col mondo». [12]
«È l’odio che fa di Tobino uno scrittore»: [13] l’affermazione di Cesare Garboli del 1955 è tanto suggestiva quanto parziale, poiché a risaltare nello scrittore è piuttosto la compresenza delle «forti e contrastanti passioni» vista da Del Beccaro. [14] Tobino respingeva la definizione di scrittore istintuale, abituato com’era a ritornare a più riprese su quanto scritto, e lo stesso Del Beccaro gli riconosceva una progressiva assunzione di misura; [15] tuttavia – più in poesia che in prosa – è rimasto sempre operante in lui quello «spiritello balzano» [16] che produce sbalzi anche violenti nel tono e nel registro lessicale in un breve volgere di pagine. Tobino sorprende il lettore passando dalle accensioni paniche giovanili ai toni tragicamente realisti di alcune poesie del dopoguerra («È venuto ciò che si aspettava / il rosso odio che chiama / il fascista / gli dice di scendere / che è venuta per lui la morte» [17]), dal classicismo elegiaco del lutto per la madre morta («Io canto, mamma, / ma tu sei morta, / le mie parole forse non ti giungono / a farti sorridere / che hai un figlio poeta» [18]) a quello satirico, talvolta acre e talvolta semplicemente divertito, degli epigrammi. «Sono sempre più bello e maledetto, / canto», [19] scrive in un’occasione, esibendo il lato istrionico evidenziato ancora da Garboli. [20]
Molto meno estroverso di Tobino è Petroni, che ha fatto della misura e della pacatezza la propria cifra stilistica. La sua poesia è contraddistinta da una musicalità sommessa sulla quale ha forse influito il silenzio in cui è cresciuto da bambino, solo insieme alla madre sorda («O madre mia che vivi / fondo silenzio eterno / nei lunghi giorni, / ritorno ai tempi nostri / solo nostri rinchiusi nella casa»). [21] Il Petroni poeta rifugge i contrasti e stempera le immagini in «una tenue e castissima luce» [22] che vela di una patina uniforme quella che sua «misurata mutevolezza / solo apparente». [23]

Non si andrebbe lontani dal vero nell’applicare ai due poeti toscani la formula continiana monolinguismo (petroniano)-plurilinguismo (tobiniano). [24] Ai loro esordi sono stati accomunati dall’andare controcorrente rispetto all’Ermetismo allora egemone, ma i loro modi di rigettare il culto della parola e l’analogismo appaiono infatti sin da subito assai diversi tra loro. Nel clima degli anni Trenta, la ricezione di Petroni ha sottolineato la sua alterità all’Ermetismo nella direzione di una primitività quasi pre-letteraria. Anche i lettori più recenti (Raboni, Marcheschi) hanno sostanzialmente confermato l’interpretazione binniana della «facoltà di vedere le cose, e non i nomi, sorgive, virginali», parlando di linguaggio semplice, netto e asciutto. [25]
Stando anche solo al titolo della propria autobiografia intellettuale, tuttavia, Petroni considera il raggiungimento della maturità artistica come la presa di possesso del nome delle parole, dopo quello delle cose. [26] Pur privo di preziosismi lessicali e complessità retorica, il dettato poetico di Petroni, infatti, si mantiene su un registro sempre piuttosto alto. Per lui l’attenzione alla forma è inscindibile dal principio morale che ne guida la scrittura. Fedele all’ideale umanista di letteratura come civiltà, Petroni resta convinto – pur problematicamente – che lo stile sia salvezza, [27] proprio nella misura in cui «la letteratura non è fine a se stessa, non è giuoco di virtuosismi, […] ma ricerca della virtù suprema che può legarci in universale amicizia». [28] Se la funzione è così alta, Petroni ne consegue che lo stile deve mantenersi adeguatamente elevato.
La cadenza uniformemente elevata della sua lingua si differenzia nettamente dai notevoli sbalzi di registro di quella di Tobino. Inimmaginabile sarebbe in Petroni la violenza espressionista di un epigramma quale Romane: «Hanno mammelle pesanti, / occhi cisposi di rimmel, / la fica slabbrata. / Tremolazza nel sonno / la pappagorgia». [29] Sin dalle prime prove Tobino ha alternato toni di scabro realismo e di compita letterarietà, lasciandoli convivere nella successione da una poesia all’altra per volontà di dar conto di un’ampia gamma di sentimenti e pensieri: dal sentimentale al sensuale, dal nostalgico al vitalista, dal patetico all’aggressivo, sono tanti e contraddittori i Tobino che emergono dal suo corpus lirico.
Differentemente da Petroni, Tobino non sceglie una forma che lo contraddistingua, quanto piuttosto esibisce alcuni temi ricorrenti cui la forma, dichiaratamente, si adatta: «Le parole, il linguaggio, lo stile sono figlie del tema di cui si tratta». [30]
Gran parte delle poesie di Tobino sono infatti scandite su alcuni temi ben definiti: il mare e i marinai, la guerra e la resistenza, la madre e il lutto per la sua morte, l’amore e la nostalgia per Viareggio. Se si eccettua la significativa assenza della malattia mentale, sono pressoché gli stessi della prosa, a confermare che tra le due modalità di scrittura c’è un interscambio costante. Proprio come accade in Petroni, che tuttavia non propone un catalogo altrettanto ampio di temi, concentrandosi invece sullo scavo di questioni fondamentali di stampo etico e morale, in riferimento alle quali, coerentemente con un modus scrivendi che anche nella prosa valorizza non tanto i fatti quanto il significato che se ne può ricavare, vengono trattati quelli che a un primo livello semantico sono da considerarsi tradizionali temi letterari quali il paesaggio di campagna o la memoria del passato e dell’infanzia («Noi ricordiamo insieme i nostri giorni / come passati chiari unicamente / perché l’anima tua sente che andati / son tanti pezzi delle nostre cose» [31]).
Quest’ultimo è tema anche di Tobino, nelle cui poesie ricorre il rimpianto per il tempo che fugge e la nostalgia per un’infanzia sentita come irrecuperabile pienezza di vita perduta («vivere in quel modo era la completa poesia» [32]). Più sofferta e deprivata è stata l’infanzia di Petroni, addolcita tuttavia nella luce del ricordo lirico (ne La casa parla di «giorni buoni» con «tracce di solitudine» [33]). Ciò che ha valore per lui non è il passato in sé ma la sua memoria, intesa come strumento di autoconoscenza e presa di possesso della realtà anche sul piano artistico.

Al di là delle profonde differenze, infatti, ci sono importanti caratteri in comune nella poesia di Tobino e Petroni. Entrambi affrontano la letteratura partendo dal sé, con l’autobiografismo che assurge a punto di vista dal quale verificare simbolicamente tutte le grandi questioni del reale.
È molto sviluppata nei due, ad esempio, la dialettica tra bene e male; l’approccio alla poesia e alla vita è tormentato e bifronte. Tobino è più fiducioso in un’idea di bontà originaria della natura, e loda la vita anche nelle condizioni peggiori come la guerra: «La mia poesia deriva / dall’essere sani», [34] scrive. Nella «naturale malinconia» [35] di Petroni sembra invece prevalere un pessimismo razionale che arriva a fargli affermare, ripresentando nel 1960 la nuova edizione de Il mondo è una prigione, che «meglio sarebbe non esser nati». [36] Accanto a un’amara constatazione come «O vita, ad amarti / resti nemica», [37] tuttavia, trova posto anche la considerazione di diverso tono «Sono libero di soffrire / ma conosco la gioia / e le feste». [38] Ciò che gli interessa è in realtà scandagliare il confine tra positivo e negativo, tra luce e buio, come nella celebrata Per la nascita di P.I. in un paese toscano: «Che io considerassi pensandone male / la nascita di quel bambino era tanto / quanto il sorriso che ebbi per lui / e la sua vita nuova di zecca». [39] Lo stesso si può dire in effetti anche di Tobino, per il quale «Il piacere è così intessuto al dolore / che è inutile cercare di dividerlo». [40]
La tensione morale è unanimemente considerata essere il punto focale della scrittura di Petroni. La moralità ha in lui un valore estetico. Seppure in termini e toni diversi, l’affermazione può essere estesa anche a Tobino, che mostra a più riprese un’alta aspirazione etica e una vena gnomica (molto evidente in Non si estinguono: «Non si estinguono i sogni e le idee / e le sanguigne passioni dal luogo / dove nacquero e vissero, / ma continue vivono, / con terribile forza. / […] A questa immutabile forza legati / sono gli uomini» [41]) che convive coi caratteri più istrionici e umorali della sua poesia. 
Numerose sono le poesie in cui i due cercano una definizione del sé («Sempre mi vidi dentro / le mie parole» [42]), nell’interrogazione di cosa apporti all’interiorità l’incontro – e talvolta lo scontro – con gli altri, col mondo, con la storia («Sono nella mia storia» [43]). La loro è una poesia che, intesa come ricerca di una verità che valga per sé stessi così come per tutti, in ultima istanza è fedele al concetto di responsabilità etica dell’intellettuale. Al di là delle diversità tematiche, stilistiche e tonali, si può quindi affermare che, scavando sotto la superficie, l’opera poetica di Petroni e Tobino s’interroga su un nucleo comune di problemi e questioni essenziali.


Alessandro Viti
(n. 4, aprile 2024, anno XIV)



NOTE

[1]
Mario Tobino, Opere scelte, a cura di Paola Italia, «I Meridiani», Milano, Mondadori, 2007; La narrativa di Guglielmo Petroni. Atti della giornata di studio della Fondazione Camillo Caetani. Roma, 27 ottobre 2006, a cura di Massimiliano Tortora, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2008. Per quanto riguarda Petroni, vanno segnalati in controtendenza due interventi di Daniela Marcheschi: La poesia di Petroni, in «Il Vieusseux», VII, 21, 1994, pp. 57-67; Guglielmo Petroni, Dialogo con la memoria, in «Poesia», IX, 96, giugno 1996, pp. 33-38, quest’ultimo seguito da un’antologia di poesie petroniane. Ancor più recente è una nota di Amedeo Anelli:  https://www.presidiopoetico.eu/index.php/da-leggere/petroni-poesie.
[2] Tra i contributi sulle poesie di Petroni si citano qui Walter Binni su «Il Campano», marzo-aprile 1934; Carlo Bo su «L’Italia», 20 giugno 1935, Giuseppe De Robertis su «Pan», 1 agosto 1935 (poi in Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958, pp. 345-347); Giorgio Caproni su «La Fiera Letteraria», 9 agosto 1959 e «Il Punto», 4, 23 gennaio 1960; Alfonso Gatto su «Il Mattino», 19 febbraio 1960; Giovanni Raboni, A tu per tu con le cose, postfazione a Guglielmo Petroni, Poesie (1928-1978), Parma, Guanda, 1978. Una bibliografia più dettagliata è in Leandro Angeletti, Gugliemo Petroni, “Il Castoro”, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 136-137 e 139. Per quanto riguarda la poesia di Tobino si vedano almeno Carlo Betocchi, Lettura di poeti giovani, in «Il Frontespizio», VII, 7, Luglio 1935, pp. 24-25; Antonio Delfini, Mario Tobino, “Amicizia”, in «Letteratura», IV, 1 gennaio 1940, pp. 142-143; Giuseppe Raimondi, Mario Tobino: Veleno e amore, in «Letteratura», VI, 2, aprile-giugno 1942, p. 96 e I cinque anni di Tobino, in «La Fiera Letteraria», IV, 44, 30 ottobre 1949, p. 3 (ma sua era già la nota introduttiva a Mario Tobino, Amicizia, Bologna, Vighi e Rizzoli, 1939, pp. 7-10); Giorgio Bassani, Prose e poesie di Mario Tobino, in «Emporium», LI, 4-5-6, aprile-giugno 1945, pp. 78-81; Leonardo Sciascia, Appunti sulla poesia di Tobino, in «L’Esperienza poetica», 3-4, luglio-dicembre 1953, pp. 73-76; Marco Forti su «Paragone», IV, 72, 1955, pp. 123-126, poi in Le proposte della poesia e nuove proposte, Milano, Mursia, 1971, pp. 221-223; Cesare Garboli, L’asso di picche, in «Nuovo Corriere», 31 luglio 1955, poi Tobino di scena,in La stanza separata, Milano, Mondadori, 1969, pp. 240-245; Giuseppe De Robertis, L’asso di picche, in «Tempo», 1 settembre 1955, p. 46 e «Nuovo Corriere», 15 settembre 1955, poi in Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962, pp. 466-471; Eugenio Montale, Letture, in «Corriere della Sera», 3 gennaio 1956, poi in Il secondo mestiere, a cura di Giorgio Zampa, “I Meridiani”, 2 voll. Milano, Mondadori, 1996, II, p. 1912. Per la bibliografia cfr. anche Massimo Grillandi, Invito alla lettura di Tobino, Milano, Mursia, 1975, pp. 127-130; Mario Tobino, Opere scelte, cit., pp. 1885-1991.
[3] «Per le mie poesie c’è sempre stata negazione, come se non fossero chiare. Mi è sempre stato difficile pubblicarle». Così, ad esempio, la nota inedita di diario del 16 febbraio 1955 citata da Paola Italia in «Diari e cronache». Tobino e Maccari, in La sabbia e il marmo. La Toscana di Mario Tobino, a cura di Giulio Ferroni, Roma, Donzelli, 2012, p. 103.
[4] Così nel diario del 14 agosto 1973: cfr. Tobino, Opere scelte, cit., Cronologia della vita e delle opere,p. CXXVII. L’11 maggio 1950 Tobino scrive che il diario stesso è la sua opera migliore insieme proprio alle poesie (Tobino, Diario del 1950, in Id., Opere scelte, cit., p. 1653).
[5] Guglielmo Petroni, Premessa, in Id., Poesie (1928-1978), cit., p. 5.
[6] De Robertis e, in seguito, Forti, hanno visto uno scatto di valore proprio nella poesia di Tobino degli anni quaranta (De Robertis, Mario Tobino, in Id., Altro Novecento, cit., p. 468; Forti, L’asso di picche, in Id., Proposte della poesia e nuove proposte, cit., p. 222).
[7] I due volumi seguono l’ordine cronologico di pubblicazione delle poesie, ma la singolarità delle raccolte originarie viene superata e sostituita da sezioni connotate con mere indicazioni di data in Tobino (1930-’35; 1935-’40; Libia 1940-’43; 1944-’47; 1947-’54, prima dell’inedita Veleno e amore secondo, che ha come sottotitolo 1954-’73); Petroni opta invece per una più pregnante titolazione tematica: Poesie dei giorni innocenti 1928-1935; Volti e paesaggi; Senza guerra; Dediche; Comiato).
[8] Del loro carteggio, durato oltre cinquant’anni, sono conservate 50 lettere di Tobino e 26 di Petroni (cfr. La narrativa di Guglielmo Petroni, a cura di M. Tortora, cit., p. 131).
[9] Una volta raggiunta la notorietà, non si sottrarranno al ruolo di rappresentanti illustri della società letteraria lucchese e versiliese con scritti per occasioni quali mostre, conferenze, opere di storia e geografia locale: si vedano almeno, di Petroni, gli Scritti lucchesi (Lucca, Pacini Fazzi, 1987) e, di entrambi, gli scritti nei volumi di Isa Belli Barsali (Lucchesia: Lucca vista dai viaggiatori, Lucca, ERI Rai, 1986: Petroni contribuisce con La mia Lucca, pp. 31-40, Tobino con Le mura di Lucca, pp. 41-47), Franco Bellato (Tobino scrive la Presentazione di Camaiore: valle di luce, Lucca, Pacini Fazzi, 1979, Petroni quella di La terra di Camaiore, Lucca, Comune di Camaiore, 1985), e nella raccolta di racconti e testimonianze La Resistenza in Lucchesia (Firenze, La Nuova Italia, 1965: cfr. Ancora un racconto di Petroni, pp. 3-5 e Tocco di chitarra per Scipione di Tobino, pp. 97-104).Per quanto riguarda gli studi di Felice Del Beccaro si vedano gli articoli Poesie di Tobino, in «Giornale del Mattino», 15 luglio 1955; L’opera ciclica di Guglielmo Petroni, in «Belfagor», XIX, 6, novembre 1964, pp. 719-723; la monografia Tobino, “Il Castoro”, Firenze, La Nuova Italia, 1967; in Letteratura Italiana: I contemporanei, Milano, Marzorati, 1969, le sezioni Mario Tobino (pp. 635-662) e Guglielmo Petroni (pp. 677-697); Veleni e amori di Tobino, in «Rassegna lucchese», 56, 1975, pp. 25-26; la voce Tobino, in Letteratura italiana contemporanea, diretta da Gaetano Mariani e Mario Petrucciani, vol. II/1, Roma, Lucarini, 1984, pp. 477-484.
[10] Per una panoramica sugli autori della zona si vedano Manrico Testi, Dalla Torre Matilde alle vette apuane. Poeti e narratori di Viareggio e della Versilia, Viareggio, Baroni 1996; Poesia a Lucca. Antologia poetica, a cura di Dante Maffia, Lucca, Pacini Fazzi, 2002;Bartolomeo Di Monaco, Leggiamo insieme gli scrittori lucchesi, Lucca, Pacini Fazzi, 2009; Id., Scrittori lucchesi, Lucca, Tra le righe, 2016; Bibliografia degli scrittori della provincia di Lucca. Gli anni di Giannini: 1925-1960. Parte prima, a cura di Valeria Biagi e Alessandro Viti, Lucca, Zona Franca, 2014; La sabbia e il marmo, a cura di Giulio Ferroni, cit.; Dalla parte del mare. Tobino e la Versilia del Novecento, a cura di Giulio Ferroni, Roma Salerno, 2020.
[11] Tobino, Diario del 1950, cit., p.1614.
[12] Guglielmo Petroni, Il mondo è una prigione [1949-1960], Milano, Feltrinelli, 2005, p. 34.
[13] Cesare Garboli, Tobino di scena [1955], in Id., La stanza separata [1969], Milano, Scheiwiller, 2008, p. 52. A supporto dell’affermazione si può citare la poesia L’odio era il mio pane: «L’odio era il mio pane, / l’odio era il mio vino. / Con l’odio mi addormentavo, / con l’odio vedevo nascere l’alba» (in Mario Tobino, L’asso di picche: con il seguito di Veleno e amore secondo, Milano, Mondadori, 1974, p. 145. D’ora in poi i riferimenti al volume saranno abbreviati in AP).
[14] Del Beccaro, Tobino, 1967, cit., p. 123.
[15] Ivi, p. 124.
[16] Grillandi, Invito alla lettura di Mario Tobino, cit., p. 39.
[17] Mario Tobino, 1944, in AP, p. 57.
[18] Tobino, Le mie parole forse non ti giungono, in AP, p. 133.
[19] Tobino, Sono un bambino che vede per la prima volta il colore celeste, in AP, p. 97.
[20] Garboli, Tobino di scena, cit., pp. 53-56. Da notare a questo proposito la diffusa citazione del proprio nome e cognome in poesie quali È passato l’inverno e Alla G.: cfr. AP, pp. 82 e 89.
[21] Guglielmo Petroni, Dalla città lontana alla madre sorda, in Id., Terra segreta: tutte le poesie, a cura di Antonio Facchin, Montebelluna, Amadeus, 1987, p. 48. D’ora in poi i riferimenti al volume saranno abbreviati in TS.
[22] Del Beccaro, Guglielmo Petroni, 1975, cit., p. 680.
[23] Petroni, Naturalezza del passato, in TS, p. 58.
[24] Cfr. Gianfranco Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca [1955], in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-192.
[25] La citazione di Binni, per cui cfr. supra la nota 2, è ripresa da Angeletti, Petroni, cit., pp. 48-49. Alle note 1 e 2 si rimanda anche per i riferimenti ai saggi di Marcheschi e Raboni.
[26] Guglielmo Petroni, Il nome delle parole [1984], Palermo, Sellerio, 2011.
[27] Significativo il condizionale dell’articolo Stile sarebbe salvezza, pubblicato su «La Fiera letteraria» del 30 settembre 1951 (si veda in La narrativa di Guglielmo Petroni, a cura di M. Tortora, cit., pp. 105-106).
[28] Guglielmo Petroni, Dissidio e salvazione [1950], sempre in La narrativa di Guglielmo Petroni, a cura di M. Tortora, cit, p. 103. Corsivo nell’originale.
[29] Tobino, Romane, in AP, p. 170.
[30] Del Beccaro, Tobino, cit., p. 5.
[31] Petroni, Insieme, in TS, p. 44.
[32] Mario Tobino, Sulla spiaggia e di là dal molo [1966], Milano, Mondadori, 2008, p. 60.
[33] Petroni, La casa, in TS, p. 43.
[34] Tobino, Dammi, o Dio, fino all’ultima forza, in AP, p. 103.
[35] Del Beccaro, Guglielmo Petroni, cit., p. 686.
[36] Guglielmo Petroni, Nota, in Id., Il mondo è una prigione, cit., p. 235.
[37] Petroni, Ritegno, in TS, p. 113.
[38] Petroni, Dietro volti, in TS, p. 88.
[39] TS, p. 49. La poesia vinse il premio nazionale «Cabala» nel 1934, quando l’autore non aveva ancora pubblicato che poche poesie e racconti su periodici.
[40] Tobino, Primavera del ’45, in AP, p. 63.
[41] Tobino, Non si estinguono, in AP, p. 29.
[42] Petroni, Parole, in TS, p. 87.
[43] Tobino, Sono nella mia storia, in AP, p. 58.