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«Metamorfosi del mito», il nuovo volume di liriche di Antonio Catalfamo
I miti non descrivono che l’attualità che ci circonda, e lo fanno raccontando. Custodi dell’eredità del pensiero, essi fondano memoria e identità, sebbene collocati in un tempo fuori da qualsiasi cronologia umana; sono luoghi di nostalgia, presenze operanti negli uomini senza che loro ne siano per forza consapevoli. Il mito enuncia, ed enunciando rivela. Del mito si fruisce. Lo si fa anche nel senso di considerarlo serbatoio inesauribile di storie, modello scomponibile capace di adattarsi alla realtà e alla sua mutevolezza, a diverse narrazioni e a significati altrettanto difformi. La sua metamorfosi contrasta con la fissità del carattere che di solito si attribuisce allo stesso. Luogo letterario e culturale, esso diventa nell’ultima raccolta poetica Metamorfosi del mito di Antonio Catalfamo (Genesi editrice, Torino, 2024), identità e presenza che si con-fonde con l’umano, con la realtà concreta delle cose, affacciandosi in angoli di spazio inconsueti, facendosi sentire e percepire, rincorrendo i destini degli uomini. Concia, Circe, e ancora Euridice, la Sibilla, Persefone, Demetra, Artemide sono tra i nomi con cui il lettore è chiamato a confrontarsi ancora prima di entrare nei versi del poeta che, con tale onomastica, sceglie già nei titoli di farne conoscere l’essenza. Trasformata, la sirena, creatura mitica per antonomasia, «[s]i fa [in Catalfamo] storia vissuta», «assume[ndo] nuove sembianze / di ragazza neo-ellenica, / gli occhi neri / come il cuore del papavero, / il corpo scattante, / la voce suasiva / di divinità marina» (p. 26). La si può incontrare anche lei lì, dove l’«[a]ntico caffè / della piazza» (ibid.), spazio che ritorna in maniera costante nelle pagine che ci vengono offerte, diventa luogo liminale, in cui si può fare esperienza di un universo sospeso, di un mondo soglia tra realtà e immagine. E basta all’io-lirico il vedere sé stesso bambino per unire passato e presente e attraversare ancora tale spazio, dove «[o]ra ragazze magnogreche, / sveve, normanne, / azionano la macchina del caffè, / veloci come scoiattoli / servono ai tavoli, / regalan[d]o a tutti / un sorriso» (p. 29). Terra di miti e di leggende, crocevia per eccellenza di culture, tradizioni e di dialogo, la Sicilia, luogo del poeta nato a Barcellona Pozzo di Gotto, è riassunta in simili fotogrammi che fermano il tempo e raccontano la storia, dipingendo ritratti vividi con parole che risuonano di emozioni, riflessioni e scoperte. Quelli dello scrittore sono sguardi precisi, focalizzanti e focalizzati su attimi dell’esistenza, epifanie del quotidiano. Il femminile (lo si evince già dai titoli sopra menzionati) è in primo piano in questi versi che raccontano di ciò che dà vita al mondo e agli uomini. Si tratta di figure ctonie, legate alla Grande Madre, responsabile dell’eterna rigenerazione della natura, e quindi anche dispensatrice di morte. Demetra campeggia con i suoi «bei capelli d’oro», correndo «a piedi nudi / tra i covoni / con il viso avvampato di calore» (p. 39). È lei che «[c]ustodisc[e] il mistero della spiga / che germoglia nel grembo della terra» e che «sorrid[e] con lo sguardo complice, / suasivo, che ammalia / anche chi lo incrocia / un solo istante» (ibid.), mentre di Persefone, la dea fanciulla rapita da Ade, Catalfamo restituisce un ritratto che è configurazione dell’Eros come percorso conoscitivo, via per raggiungere la sapienza. Lo spazio che si configura nella poesia di Catalfamo, è come il tempo, dilazionato in attimi e, allo stesso tempo, espanso all’infinito, matrice e tessuto di corrispondenze; è poesia. Una poesia che permette di «[r]ibellarsi alle imposture / di uomini e dei, / inseguire carezze leggere, / parole arcane / sussurrate all’orecchio, / che fa […] sgorgare / il miele dal favo, / godere istanti […] / contro l’affanno / della vita tiranna» (p. 45). Una poesia che Catalfamo canta come Orfeo, ribellandosi «al destino» (p. 76) e diventando artigiano delle parole e del loro ordito; una poesia in cui il mito, così come dimostra lo stesso Pavese con i suoi Dialoghi con Leucò, riveste un importante ruolo esegetico della realtà immediata. Come lo scrittore di Santo Stefano Belbo, anche Catalfamo «si getta nel gorgo del mito classico per cavarvi fuori un mito moderno, che sia una risposta al caos dell’epoca contemporanea» [1], ma ancora di più per dimostrare come «la caotica e quotidiana realtà nostra […] può essere trasformata in pensiero e fantasia» [2]. Immagini e parole che Catalfamo scolpisce in versi fermi, procedendo per raffinate cesellature e sfumature di linguaggio; frammenti che compongono un tutto e da cui emerge la disinvoltura del poeta che, come un attento intagliatore, smussa, leviga e sgrossa fino ad ottenere il risultato a cui ambisce. I versi, costruiti su plurime suggestioni e congiunzioni, avanzano come rivisitazioni di tono originalissimo del mito e della tradizione, così come dei luoghi conosciuti dal poeta e dei loro riti e rituali. Se si vuole parlare di un denominatore comune della scrittura testimoniata in tali pagine, lo stesso va riconosciuto nella dimensione dionisiaca, che Catalfamo recupera dal ricco patrimonio culturale di cui si è nutrito: «Come il Tiresia di Gramsci, / sotto la Mole, / profetizzo il passato, / lo proietto nel futuro, / armonizzo la passione dionisiaca / dei miei antenati greci / con il raziocinio apollineo, / penso in universali, / come Cesare Pavese» (p. 68, corsivo nell’orig.). E si legge più avanti: «In me riemerge / il dio caprone, / il satiro dionisiaco / che insegue / l’ebbrezza dei sensi» (p. 82). Un satiro, la cui figura fa capolino anche in Bafia, componimento che il poeta dedica al luogo natio, e figura in cui l’io lirico si riconosce, lui che proprio in quello spazio di plurime memorie, vede levarsi «alto il canto» di questa divinità minore (p. 59), che abita nei boschi e sulle montagne ed è personificazione per eccellenza della forza vitale della natura. Descritto da Ovidio nel VI libro delle Metamorfosi, e poi, tra gli altri, da Euripide, citato esplicitamente al verso 7 della lirica, nonché da Nietzsche in Nascita della tragedia nello spirito della musica, questa volta come colui che, corrispondendo a uno stadio pre-umano dell’umanità, toglie il velo delle illusioni davanti al concetto di civiltà, sulle note del satiro, scrive Catalfamo, «i demoni ballerini / diedero l’assalto al cielo, / […] / conquistarono il potere, / cantando e bevendo / al suono delle cornamuse» (ibid.). I versi ci riportano, oltre al gesto di rivolta contadina del borgo rurale siciliano sopra menzionato e all’omaggio fatto all’antico poeta e drammaturgo greco, ad altri versi dell’autore, almeno per chi conosce la produzione poetica di Catalfamo, che nel 2021 pubblica la raccolta La rivolta dei demoni ballerini (Pendragon, Bologna). Come in quest’ultima, anche in Metamorfosi del mito, Catalfamo propone una silloge organizzata cronologicamente: quelle che vengono proposte al lettore sono 24 liriche datate dal 6 febbraio 2022 (Sirena) all’11 aprile 2023 (Ragazza calabra). Caratteristica di questo volume, a differenza di quello precedente, con cui diverse sono le intersezioni, è tuttavia l’accessibilità dei testi anche in lingua francese e inglese, a cura rispettivamente di Marta Mariani e di Giulia Calfapietro. Lo stesso vale per l’introduzione di Wafaa Raouf El Beih, dove si inquadra la poesia di Catalfamo sullo sfondo della «Sicilia magnogreca» (p. 9), della memoria e del suo recupero, così come degli assidui e approfonditi studi fatti dal poeta, come quelli «sulla Scuola poetica siciliana di Federico II», con riferimento anche alla «penetrazione dell’averroismo nella letteratura italiana delle origini» (p. 11) ed oltre. Le liriche sono istantanee di vita, fili tessuti nella trama dell’esistenza stessa dell’autore che non omette di camminare «mano nella mano, / nel giardino dei bergamotti, / […] / nel vaticinio e nell’arte della poesia» con quella che chiama «mia duplice Sibilla», «novella Aleramo» (p. 80). Nei versi dedicati alla profetessa cumana gli omaggi sono molteplici: insieme a quelli poc’anzi citati e all’amatissimo Pavese, emergono echi di Petrarca e Prévert. Una poesia, quindi, che si innesta su un solido tessuto culturale, senza tuttavia essere epigona dello stesso perché il suo è un ordito pregno di «odori / e sapori ancestrali» unici (p. 57) con il vento che sussurra tra le foglie degli ulivi che abitano il Mediterraneo, porta d’ingresso del dialogo tra Oriente ed Occidente. Catalfamo media immagini che appaiono pulsanti, scorci sensuali e svelati di passione politica e sociale. Dai versi traspaiono mistero, malinconia e, insieme a loro, la realtà di luoghi che riflettono e producono per mezzo di chi li popola stati d’animo e ricordi; che mostrano come dietro all’apparenza del quotidiano si celino visioni che rivelano l’equazione tra mitopoiesi e autopoiesi, varianti universali e atemporali che permettono l’interpretazione di ciò che è la poesia.
Una nota biobibliografica sull’autore chiude questo volumetto che contiene versi limpidi e ritmati da cadenze e sonorità che aprono il lettore a una nuova percezione di ciò che lo circonda e testimoniano ancora una volta il ruolo della poesia come strumento di conoscenza, emancipazione e riscatto, nonché percorso e cifra di identità.

Monica Biasiolo
(n. 4, aprile 2025, anno XV)
NOTE
[1] Daniela Vitagliano, «I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese tra classicità e modernità: il mito della/contro la crisi», in La Parola mi Tradiva. Letteratura e crisi, a cura di N. Di Nunzio, S. Jurišić, F. Ragni, Culture Territori Linguaggi, 10 (2017), pp. 349-357, qui p. 351 (corsivo nell’originale) Online al link: https://hal.science/hal-02425205/document (cons. il 19/12/2024).
[2] Cesare Pavese, Intervista alla radio (12 marzo 1950), in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino, 1968, pp. 263-267, qui p. 265.
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