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«Le giovinezze di Daniel Abagiu»: il ʻridere riflessivoʼ di Cezar Paul-Badescu
Cos’è la letteratura se non l’elegante occasione per mentire dicendo pur sempre la verità? Non una mezza, ché questo è un altro discorso. La letteratura è mentire, spudoratamente e senza rimorsi, dicendo il vero. Perché il vero è solo una parte di un tutto, come insegnava Lacan. In quest’ottica, le parole di Cezar Paul-Badescu calzano come guanti. Spiega l’autore de Le giovinezze di Daniel Abagiu (Ciesse Edizioni, 2014), parlando della verità nell’arte: «Di sincerità si tratta – una sincerità che si muove nei limiti della bugia necessaria a qualsiasi prodotto artistico. Che altro dire? – il dibattito è antico: il prodotto artistico non può mai essere la realtà in sé poiché, tra l’altro, l’artista modifica la realtà in funzione dei suoi preconcetti, del linguaggio, delle sue convinzioni ideologiche e morali, ecc. e, in ultima istanza, offre una selezione della realtà. Nemmeno la fotografia ci offre la realtà, ma solo un ritaglio soggettivo di essa, steso su un supporto di carta».
E Cezar Paul-Badescu è sincero, nei limiti della bugia. Anzi, Daniel Abagiu non è altro che Cezar Paul-Badescu, sempre sinceramente e nei limiti della bugia. La questione dei nomi non è affatto dettata dal caso. A Cezar il suo nome non piace: «Ho chiesto, un giorno, a mia madre: “Perché mi hai chiamato con questo nome, Cezar?”. “Beh, quando stavo per partorirti, ero molto spaventata, perché eri molto grosso e mi tormentavi. Si supponeva dovessi fare il cesareo e avevo paura mi tagliassero. Allora ho detto: Dio, se riesco a partorire naturalmente, lo chiamo Cezar. E ti ho partorito naturalmente”. “E se mi avessi partorito col cesareo, come mi avresti chiamato?” “Sempre Cezar”. Ecco come alla base del mio onomastico c’è, di fatti, un difetto di logica».
Vista l’aria confidenziale che si sta creando, ammetto che nemmeno io amo il mio nome, Irina. Ho dovuto ricercare il suo significato greco, pace, per rivestirlo di qualcosa di speciale. Questo perché avevo smesso di amarlo per via della bidella dell’asilo, Irina pure lei, una donna severa che lavava di continuo i pavimenti, con il conseguente divieto di uscire dall’aula. Che fastidio chiamarmi come lei! Ragion per cui, quando gli amici mi storpiavano con grazia il nome trasformandolo in Irevole o Irins, la cosa mi solleticava l’immaginazione spingendomi a trovarmene altri io stessa. Di certo, però, nel fantasticare attorno alla possibilità di darmi un altro nome – e l’ho fatto –, difficilmente avrei avuto l’autoironia necessaria per darmene uno ilare. Daniel Abagiu ricorda, ai sottili parlanti di lingua romena – se letto tutto attaccato –, la parola labagiu. Accanto al praticante di autoerotismo, socialmente, il termine indica un individuo dalle scarse peculiarità interiori. ‘Na mezzasega, direi se fossimo in un parco romano – romano perché tutti i romani che ho incontrato avevano una spiccata ironia. Un loser, dirò perché sono seduta a una scrivania, a Piacenza.
Ironia e memoria
È subito chiaro che Cezar Paul-Badescu, nel raccontare le vicende di Daniel Abagiu, anzi Danutz, mette in atto una delle cose più difficili della comunicazione letteraria, secondo alcuni: l’ironia, l’autoironia, se vogliamo. Ed è arduo suscitare una risata, o un sorriso, attraverso l’ironia. Infatti, come si suol dire, questa corre il rischio di non essere colta. D’altro canto, si potrebbe asserire con una certa sicurezza che il dolore, la percezione del dolore, e la sofferenza connessa ci abbracci tutti in modo poco soggettivo. Alla vista di una bambina sporca di terra, coi capelli biondi e arruffati, lo sguardo triste, un peluche a penzoloni tra le mani, in cima a un cumulo di macerie, quel che rimane della sua casa, ci si commuove tutti. Qualcuno piangerà pure perché comprenderà che a quella bambina è rimasto il solo peluche, malconcio anche esso, come punto d’appiglio alle certezze del passate. Vale lo stesso discorso anche per la comicità: qualcuno che inciampa, perdendo momentaneamente l’equilibrio e dimenando le braccia in un volo assettato di nuova stabilità, come un albatro al contrario, ci strapperà almeno un sorriso; salvo non si faccia male. L’ironia, ed è ciò che mi ha fatto innamorare del romanzo di Paul-Badescu, è tutta un’altra faccenda.
Ed è una faccenda complessa, esistenziale, nonché essenziale; ho avuto modo di comprenderlo anni fa, quando ho notato che il mio docente di Estetica, di allora, aveva dedicato un volume all’argomento e anche un corso. Markus Ophalnders, per chiamarlo col suo nome, insegnava, a quella manciata di aspiranti filosofi quali eravamo, quanto segue: «chi parla di ironia suscita in chi ascolta l’attesa di una rivelazione. […] Eppure, ovunque la si cerchi, nei testi, nella vita, nei gesti o nelle molteplici sfumature delle parole pronunciate, l’ironia si sottrae a ogni tentativo di afferrarla; non esiste rete concettuale sufficientemente sottile perché essa vi possa rimanere impigliata. […] seguendo Kierkegaard, l’ironia segna anche l’inizio di una vita degna di essere chiamata umana».
Nella sua quintessenza, Le giovinezze di Daniel Abagiu è un romanzo della memoria. Bildungsroman, se si ammette che pure gli anti-eroi sono soggetti a una (tras)formazione per il semplice passaggio dall’infanzia all’età adulta. Formazione e memoria, la formazione della memoria, la memoria della formazione… La lista potrebbe essere ancor più ricca se volessimo applicare le leggi matematiche delle combinazioni, ma non occorre perché già queste tre possibilità riassumono il senso del romanzo.
Formazione e memoria sono gli elementi chiave: Paul-Badescu realizza una tabella di Mendeleev riempiendo alcune delle caselle e lasciandone vuote altre. Sulla scia dei suoi ricordi, il lettore è spinto a ritrovare i propri.
La formazione della memoria: questa la spiega con abilità l’autore stesso. «[…] non tutti i nostri ricordi necessitano di una liana moralizzatrice per sopravvivere. Ci sono alcuni che resistono di per sé: uno schiaffo ingiusto del padre, un momento in cui abbiamo sorpreso una zia o addirittura la mamma spogliarsi, il gioco del dottore con la cugina, un’umiliazione da parte di un altro bambino, le discussioni attorno a quello che fanno mamma e papà quando sono soli etc. È chiaro che non queste ultime racconteremo ai nostri nipoti».
La memoria della formazione la sintetizzava perfettamente Wordsworth dicendo che il bambino è il padre dell’uomo. E Paul-Badescu apre l’album fotografico di un bambino, ritratto nei momenti per lui significativi che lo hanno formato come uomo.
L’immagine del comunismo
E nell’atto di ricordare, Le giovinezze di Daniel Abagiu conserva un momento quasi inedito nella narrativa romena post-comunista della memoria; è il capitolo in cui lo scrittore si lascia cullare dalle nostalgie comuniste, con questa premessa: «Per alcuni, parole come compagna o compagno potrebbero essere fonte di repulsione o indignazione. Per me, no. Dalla mia prospettiva, il comunismo è stato qualcosa di terribile; davvero, ma questo solo su piano generale – sociale, politico, economico, nazionale, etc. Ma per me, come individuo, non è stato qualcosa di mostruoso. Sono nato nel ’68, quindi il comunismo è stato l’ambiente dove sono nato e sono cresciuto, l’aria che ho respirato. Siccome non sono entrato in contatto con altre realtà, quei tempi con tutti i loro presupposti rappresentavano per me la normalità. Poi, agli anni ’70, ’80 è legata la mia infanzia e adolescenza. Come potrei essere altrimenti se non malinconico?»
Ben iscritta nell’ottica è la percezione del buio, materiale, imposto dal regime: «Nella mia contrada, la luce si spegneva alle ore diciassette e venti, quando incominciava il Telegiornale. Inizialmente, i miei accendevano delle candele, ma col tempo mio padre si era procurato una batteria di un trattore che alimentava una lampadina, come quella del frigo. Io, però, non restavo mai in casa. Uscivo davanti al palazzo coi ragazzi e le ragazze. La luce spenta ci donava un’intimità altrimenti introvabile. Facevamo tanti discorsi quanto le stelle, flirtavamo anche, ma l’attività principale era quella di fumare. Il buio ci proteggeva dagli sguardi dei vecchi. Quando si accendeva la luce, alle otto, e dovevamo rientrare in casa, strappavamo un ramoscello di cedro e lo masticavamo, per togliere il puzzo di sigaretta. Il ritorno dell’elettricità era accolto da tutti con grande rammarico».
Scrutando in questo ricordo, deformato dalla lente delle sensazioni con cui è stato vissuto (e il discorso potrebbe essere esteso all’intero romanzo), è impossibile ignorare una riflessione spontanea. Rimane salda l’affermazione di Gandhi, secondo la quale bisogna ricordarsi la storia perché questa non si ripeta; si soffoca, però, se non si aggrappa alla storia personale e nel buio non si colga, pur fievole, una luce. E questa luce è data dalla capacità degli esseri umani di essere (auto)ironici. Ridere è l’attività che richiede al nostro corpo la minor quantità d’energie, eppure, spesso, è uno dei gesti più difficili da compiere. Lo si può imparare, però, anche attraverso la letteratura, evolvendo il «ridere» in un «ridere riflessivo».
Irina Turcanu
(n. 6, giugno 2014, anno IV)
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