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«L'immagine dell'ebreo. Stereotipi antisemiti nella cultura romena e dell'Europa centro-orientale»
Il libro intitolato L'immagine dell'ebreo. Stereotipi antisemiti nella cultura romena e dell'Europa centro-orientale (traduzione e cura di Horia Corneliu Cicortaș e Francesco Testa, Livorno, Belforte Editore, 2018) di Andrei Oișteanu è uno studio di antropologia culturale dedicato all’immagine dell’ebreo nella cultura romena e mitteleuropea. Nella prospettiva dell’imagologia etnica, l’autore analizza i meccanismi psicologici, culturali e religiosi che negli ultimi secoli hanno determinato la formazione e la riattivazione di molti stereotipi antisemiti. Oișteanu segue l’evoluzione nel tempo e nello spazio dell’«ebreo immaginario», esaminando quei cliché che dall’antisemitismo folclorico (leggende, canzoni, proverbi, superstizioni, rappresentazioni iconografiche) sono trasmutati alla cultura urbana (letteratura, politica). Nel misurare la distanza che separa il ritratto dell’«ebreo immaginario» dall’«ebreo reale», l’autore adotta un approccio originale, esaminando i pregiudizi fisici, professionali, morali, mitici e religiosi diffusi nell’Europa centro-orientale, dove ebraismo askenazita e sefardita hanno a lungo convissuto sotto l’influenza asburgica, russa e ottomana. L’immagine dell’ebreo ha ottenuto diversi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio dell’Accademia Romena e della Fondazione «Sara & Haim Ianculovici» (Israele).
Nota all’edizione
La traduzione del libro che siamo lieti di presentare al pubblico italiano è stata condotta sulla terza edizione (riveduta, ampliata e corredata di illustrazioni) del volume Imaginea evreului în cultura română, pubblicato dalla casa editrice Polirom nella collana dedicata alle opere di Andrei Oișteanu [1].
Trattandosi di un saggio caratterizzato da un ampio apparato bibliografico, nell’edizione originale l’autore ha scelto un particolare sistema di citazioni, da noi adottato anche per la presente versione italiana. Esso consiste nel segnalare, fra parentesi tonde, un riferimento numerico che rinvia alla sezione finale del libro, comprendente l’elenco dei lavori citati e, se contrassegnati da indicazioni numeriche in grassetto e corsivo, i commenti dell’autore. Ciò consente un’agevole lettura del libro, permettendo inoltre, grazie al supporto della sezione finale, gli approfondimenti bibliografici necessari.
Le edizioni italiane delle opere citate dall’autore sono state menzionate sia nella sezione finale, fra parentesi quadre, che nelle note a piè di pagina, inserite dai curatori con l’intento di segnalare subito la presenza di una versione italiana dell’opera. I brani citati dall’autore sono tratti da tali edizioni, salvo rare eccezioni diversamente indicate.
Le note a piè di pagina, che seguono una numerazione progressiva per capitoli, sono tutte dei curatori e pertanto prive di alcun contrassegno grafico. La maggior parte di queste note contengono i riferimenti bibliografici riguardanti l’edizione italiana utilizzata, con il relativo numero di pagina del brano citato.
Altre note, invece, forniscono delle indispensabili informazioni non desumibili direttamente dal contesto, dedicate a personaggi storici, perlopiù della cultura romena, agli autori meno noti, ma rilevanti per l’argomento trattato dal libro, oppure ad alcuni vocaboli che richiedono brevi chiarimenti semantici.
Qualora si riferiscano a omissioni o aggiunte di contenuto, la presenza di parentesi quadre nel corpo del testo è opera dell’autore; sono state impiegate dai curatori, invece, per tradurre il significato di un termine rilevante o il titolo di un’opera. Alcune parole che in romeno hanno sfumature particolari, come ad esempio jidan – che significa «ebreo» o «giudeo», ma viene spesso usato, soprattutto nel Novecento, in senso negativo o antisemita (diversamente da altre espressioni più neutre come evreu, ovrei, jidov, jid, iudeu, israelit, ecc.) –, sono state riportate in originale, in corsivo e fra parentesi quadre. Così, ad esempio, per i leggendari Giganti Giudei, è stato indicato tra parentesi il termine romeno [Jidovi].
Per consentire al lettore di rintracciare agevolmente sia gli autori delle opere citate dall’autore che i personaggi su cui abbiamo fornito delle informazioni in nota a piè di pagina (alla prima occorrenza), nell’Indice dei nomi sono state indicate, in corsivo, le pagine dove gli autori vengono menzionati in modo indiretto – attraverso i riferimenti numerici alle loro opere, elencate nella sezione bibliografica finale – e contrassegnate con asterisco le pagine relative in cui è stata fornita, a piè di pagina, la nota esplicativa.
Tanto nella sezione finale quanto nelle note dei curatori, è stato adottato un sistema di riferimenti bibliografici abbreviato, che include: iniziale/iniziali del nome dell’autore, cognome per esteso, titolo dell’opera, editore, luogo e anno, senza menzionare gli eventuali traduttori, curatori, autori di introduzioni o postfazioni; il curatore di un’opera compare solo quando fa le veci dell’autore. Più in generale, sono state seguite le norme redazionali della casa editrice Belforte.
Le suddivisioni del libro sono state chiamate «capitoli», «paragrafi» e «sezioni», per una loro identificazione univoca.
La prefazione all’edizione romena, i capitoli terzo (Il ritratto morale e intellettuale), quarto (Il ritratto mitico e magico), quinto (Il ritratto religioso) e la sezione bibliografica sono stati tradotti da Horia Corneliu Cicortaș; Francesco Testa ha tradotto l’Introduzione, il capitolo primo (Il ritratto fisico) e secondo (Il ritratto professionale). L’indice dei nomi e le note a piè di pagina sono stati realizzati congiuntamente dai due curatori, che hanno cercato, attraverso una revisione reciproca dei capitoli tradotti, di armonizzare il testo e renderlo il più fedele possibile al contenuto e alla forma dell’originale.
Desideriamo ringraziare innanzitutto il prof. Andrei Oișteanu e lo staff redazionale della casa editrice Belforte, per il loro supporto durante le diverse fasi che hanno accompagnato questo importante progetto editoriale. Vanno qui ringraziati, per aver agevolato la nostra ricerca di informazioni e documenti, oltre alla condivisione di pareri e consigli, Massimo Carloni, Giovanni Casadio, Maria Teresa Lombardo, Dominik Małecki, Bruno Mazzoni, Roberto Merlo e Paolo Vanini.
Horia Corneliu Cicortaș, Francesco Testa
Prefazione alla terza edizione
La storia di questo libro può essere riassunta in poche righe. I miei interessi nel campo dell’imagologia etnica risalgono all’inizio degli anni Novanta. Ho pubblicato il primo studio, intitolato «Evreul imaginar» versus «evreul real» în folclorul și mitologia română nel 1995, nella «Revista de Istorie și Teorie Literară».
Nel periodo 1997-1999, il Centro Internazionale per lo Studio dell’Antisemitismo dell’Università Ebraica di Gerusalemme mi ha offerto una borsa per una ricerca dal tema L’immagine dell’ebreo nella cultura tradizionale romena, un’indagine comparativa dedicata alle regioni dell’Europa centro-orientale. Al mio interesse per gli studi di etnologia riguardanti il centro e l’est dell’Europa, venne così ad aggiungersi quello per la storia e la cultura degli ebrei della stessa area.
Nel mentre lavoravo al progetto mi sono reso conto che sarebbe stato interessante e importante indagare il modo in cui gli stereotipi riguardanti gli ebrei, apparsi nella cultura tradizionale romena, siano sopravvissuti (o meno) nella cultura cosiddetta alta. Mi sono dunque proposto di studiare l’origine, lo sviluppo nel tempo, la diffusione spaziale e la sopravvivenza (o, al contrario, il declino e la scomparsa) dei cliché che costituiscono il ritratto fisico, professionale, spirituale, morale, magico-mitico e religioso dell’“ebreo immaginario”. Ero inoltre interessato a vedere il modo in cui l’antisemitismo popolare (inconsapevole e passivo) abbia influenzato quello intellettuale (consapevole e attivo). L’apertura di compasso si è ingrandita considerevolmente e il titolo della ricerca è mutato, diventando L’immagine dell’ebreo nella cultura romena. Così la sfera della cultura tradizionale era inclusa, senza tuttavia restare esclusiva.
Lungo gli anni, nel corso della sua stesura, frammenti del presente libro sono stati pubblicati soprattutto nella rivista «22», ma anche nei periodici «Dilema», «Observator cultural», «Sfera politicii», «New International Journal for Romanian Studies», «Realitatea evreiască», «Studia Hebraica», «Archaeus: Studies in the History of Religions», «Orizont» (Timișoara)¸ «Euphorion» (Sibiu), «Opinia studențească» (Iași)¸ «Contrafort» (Chișinău)¸ «Lumea liberă românească» (New York)¸ «Minimum» (Tel Aviv), ecc. Il lavoro si è meglio strutturato quando, a partire dall’anno 2000, ho iniziato a tenere un corso di imagologia etnica e di morfologia dell’antisemitismo per gli studenti iscritti alla laurea magistrale presso il Centro di Studi Ebraici della Facoltà di Lettere dell’Università di Bucarest. Il libro ha avuto due edizioni in lingua romena (Humanitas, 2001 e 2004) e altre edizioni nelle lingue ungherese (Kriterion, 2005), inglese (University of Nebraska Press, 2009) e tedesca (Frank & Timme Verlag, 2010) [2]. Su proposta della casa editrice Polirom, ho preparato una nuova edizione di questo libro, rivista, ampliata e illustrata.
Mi fa un grande piacere menzionare qui, all’inizio del volume, i nomi delle persone e delle istituzioni che in vari modi mi hanno sostenuto nel corso della ricerca, rendendo possibile l’apparizione di questo libro: il Centro Internazionale per lo Studio dell’Antisemitismo dell’Università Ebraica di Gerusalemme (diretto da Dalia Ofer e, dal 2003, da Robert S. Wistrich; nonché l’ex direttore di ricerca Leon Volovici), Moshe Idel e Galit Hasan-Rokem (professori alla stessa Università), l’Istituto di Storia delle Religioni dell’Accademia Romena. Ringrazio inoltre i collezionisti privati, i musei e gli archivi dalle cui collezioni ho tratto alcune delle illustrazioni presenti in questo volume.
Ringrazio mia moglie, Angela, che – come ogni volta – mi ha aiutato molto nel faticoso processo di elaborazione del libro.
Bucarest, 10 febbraio 2012
Andrei Oișteanu
L’ebreo usuraio
«Essere ebreo nel Medioevo non significava
soltanto appartenere a una certa nazione,
ma svolgere una professione ben precisa.
Essere ebreo significava essere usuraio e viceversa;
il carattere dell’ebreo è divenuto quello dell’usuraio,
e il carattere dell’usuraio, quello di un ebreo».
Karl Kautsky, Das Judentum, 1890
Nell’Europa centrale e occidentale, lo stereotipo professionale dell’ebreo era rappresentato dall’usuraio. Lo ritroviamo incarnato non tanto nel personaggio balzachiano Gobseck (dal francese gober, «inghiottire, ingurgitare senza masticare»), quanto piuttosto nella figura di Shylock, lo spietato banchiere de Il mercante di Venezia di William Shakespeare. «Shylock è un’immagine universale, applicabile a tutti gli ebrei. Shylock incarna il carattere ebraico!», scriveva B.P. Hasdeu nel 1865 (246, pp. 20-21). Il nome del personaggio shakespeariano è divenuto così rappresentativo da entrare nel lessico comune (cfr. la parola inglese shylock, «usuraio senza scrupoli»). Occorre sottolineare, tuttavia, che alla fine del Settecento – in piena epoca illuminista e grazie alla crescente influenza delle comunità ebraiche dell’Europa centrale – «Il mercante di Venezia poté essere rappresentato a Berlino solo preceduto da un breve prologo che si scusava con gli spettatori ebrei (non ancora emancipati)» [3] (434, p. 32).
Il fatto che un personaggio come Shylock abbia goduto di una carriera così fortunata è tanto più interessante se teniamo conto che Shakespeare scrisse l’opera alla fine del Cinquecento, tre secoli dopo l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra (nel 1290): una riprova del fatto che gli stereotipi antisemiti sono sopravvissuti benissimo anche (se non soprattutto) in quei Paesi dove gli ebrei erano stati cacciati. Nell’esaminare il processo di “mitizzazione dell’ebreo”, Leon Volovici commentava così questo apparente paradosso: «La scomparsa degli ebrei dalla società, invece di condurre alla fine dell’antisemitismo, lo ha reso più astratto, a causa della mitizzazione dell’ebreo. […] La predisposizione ad accettare o riprodurre gli stereotipi negativi, dipende dalla loro permanenza nella tradizione religiosa e folclorica, dal loro impiego nel linguaggio comune, ma anche dall’esistenza di una percezione collettiva distorta» (213, p. 5).
Durante il Medioevo, la pratica dell’usura nell’Europa occidentale era vietata ai cristiani. A tal fine, si invocava l’autorità di passi biblici veterotestamentari (Es 22, 24; Lv. 25, 35-37; Dt 23, 20) e neotestamentari (Lc 6, 34 e seguenti). I Padri della Chiesa e una serie di concili (da Clichy nel 626, fino a quello di Vienna del 1311) hanno posto – come osserva Jacques Le Goff – «una pietra sul muro della Chiesa destinato a contenere l’ondata usuraia» [4] (346, p. 23).
Di conseguenza, sono stati gli ebrei a occupare il comparto professionale più deprecato, smentendo la validità del famoso adagio aristotelico: Nummus non parit nummos (il denaro non genera denari). Un’espressione che si diffuse nell’Europa occidentale a partire dal XIII secolo, grazie alla riscoperta del filosofo greco, ma anche – in controtempo – a seguito della nascita di una potente borghesia, bisognosa di banchieri e dei loro soldi. Non cercherò di «difendere gli indifendibili», ovvero «i capri espiatori dell’economia» – come ha fatto in modo egregio Walter Block. Spinto dal coraggio di riabilitare le professioni impopolari, Block ha dimostrato non solo l’importanza dell’usuraio (del banchiere, in ultima istanza) in una società liberale, ma anche il fatto che «il presta-denaro è onesto quanto qualsiasi altro uomo d’affari» [5] (397, p. 133). Mi limiterò a mostrare che, nel corso dei secoli, la propensione degli ebrei ad accumulare denaro è stata anche la conseguenza di un divieto legale, che negava loro il diritto di possedere proprietà terriere e immobiliari. In cambio, gli ebrei hanno cercato di accumulare beni che fossero facili da nascondere, trasportare e scambiare (di piccolo volume ma di gran valore). Il denaro (rispettivamente l’oro o i gioielli) concentrava al meglio la fortuna di questo popolo errante, che viveva sotto la costante minaccia dell’espulsione o dei saccheggi. Nel 1523, Martin Lutero osservava come la società tedesca costringeva gli ebrei «a praticare l’usura» [6] (455, I, p. 202). Anche Nietzsche, alla fine dell’Ottocento, era dello stesso parere (598, p. 301). Non credo di dover insistere oltre. Da un punto di vista socio-economico, culturale e religioso, il fenomeno è stato studiato da medievisti di spicco, tra cui Jacques Le Goff, in alcuni lavori notevoli (346 [7] e 347 [8]).
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Come abbiamo visto, nel folclore romeno la relazione dell’ebreo con il denaro, sotto forme diverse, veniva costantemente messa in risalto. In una leggenda moldava, Santa Maria maledice Giuda così: «Che tu e il tuo popolo vi vendiate e vi ammazziate per i soldi». «Giuda e i suoi discendenti – continua la leggenda – diventarono commercianti; per il denaro si mangiano e si vendono a vicenda. Dal popolo di Giuda hanno origine i giudei [Jidovii], ovvero gli ebrei» (291, p. 161). Secondo un racconto diffuso tra i pastori della Bucovina, al momento della creazione del mondo Dio avrebbe detto agli ebrei: «In seguito, vi toccheranno tribolazioni e persecuzioni ma, in compenso, io lascerò che i denari scorrano a fiumi verso di voi» [9] (437). Similmente, in un antico testo romeno del 1705, Dio donava «la ricchezza agli ebrei» (20, p. 299). Nella mitologia romena, i giudei [Jidovii] – una specie fallita di androidi giganteschi – «possedevano una fortuna spropositata, così tanto denaro che non bastavano nemmeno dieci carri per trasportarlo». «L’immensa ricchezza dei giudei è divenuta proverbiale. Nel distretto di Vâlcea, si dice di un uomo benestante che è ‘ricco come un giudeo’ (jidov de bogat)» (166, p. 48). Un modo di dire simile lo ritroviamo in francese: riche comme un juif (3, p. 65), e anche, sia pure inversamente formulato, in lingua polacca («è mai esistito un ebreo povero!?»; 70, p. 121). «Se gratti un [ebreo] sefardita – afferma un proverbio –, ci trovi sotto monete d’oro» (361, p. 183). Nella tradizione popolare romena e aromena (511), a leggende del genere si aggiungono racconti che sottolineano la cupidigia degli ebrei; in Valacchia, ad esempio, «un giudeo prendeva a pugni la bara di un romeno» che era morto senza avergli restituito una gran somma di denaro (cfr. 149, p. 38). Oppure stornelli volgari, regrediti a far parte del folclore infantile («Cinci bani, zece bani, / O căruţă de jidani» [Cinque soldi, dieci soldi / Un carretto di giudei]; cfr. 162, p. 164). Per non parlare dei numerosi proverbi che mettono in evidenza il mercantilismo ebraico: «Gli ebrei, quando non sanno cosa fare, contano i soldi»; «Non contrarre mai debiti con l’ebreo» (3, pp. 72-74). Anche nel folclore dei ruteni della Bucovina sono frequenti i riferimenti al nesso ebrei-denaro, come emerge da un romanzo di Aharon Appelfeld: «Cantavamo e imprecavamo contro i figli di Satana, ché da loro era tutto calcolo, danaro, investimenti e interesse. […] Per ore cantavamo: Dagli ebrei ci sono un mucchio di banconote / ma a te non danno che spiccioli. / Si lavano il giovedì / e fanno l’amore il venerdì» [10] (813, p. 34).
Il rapporto dell’ebreo con il denaro è stato tematizzato anche dalla letteratura colta. Nelle opere di Calistrat Hogaş – questo «grande scrittore minore» e «dalla sensibilità irascibile», come lo ha definito G. Călinescu –, il legame assume un carattere quasi sensuale. I sensi del cassiere ebreo vibrano al suono di una moneta: «Il giudeo la prese, la girò, la ruotò di nuovo, la fece cadere sul bancone, la osservò davanti alla fiamma di una candela e solo dopo essersi accertato che non si trattava di una moneta consumata o di piombo, la fece scivolare nel salvadanaio. La sua caduta svegliò dal sonno una gran quantità di franchi e di liardi che, trasalendo impauriti per l’arrivo inaspettato, emisero un leggero grido metallico per poi ripiombare in un sonno profondo, assieme alla nuova arrivata» (439, p. 86; 130, p. 672). In una poesia di Octavian Goga, intitolata Cade o lacrimă (1913), l’avido locandiere ebreo – «il padrone Barba-Putrida» – passa la notte a contare i soldi. La presunta avarizia innata dell’ebreo traspare anche nella novella Pastramă trufanda di I.L. Caragiale – racconto caratterizzato da un umorismo nero, in cui compare la figura di un commerciante ebreo, Aron l’avaro. Mateiu Caragiale, figlio del drammaturgo, scriveva nel 1908 a un amico parigino: «A Bucarest, soltanto i giudei hanno ancora del denaro» (895, p. 587).
A volte capitava che le monete d’oro (galbeni) venissero contraffatte dai falsari. Ovviamente, a essere accusati erano spesso gli usurai ebrei: «Ebreo del diavolo, che la Madre del Signore lo maledica – imprecava ogni tanto un boiaro romeno verso la metà dell’Ottocento –, guarda che bel pezzo d’oro è riuscito a tagliare da questo povero zecchino; il governo dovrebbe impiccare questi falsari»; oppure: «giudeo maledetto, gratta via l’oro [dalla moneta] con l’acquaforte» (824, p. 403). Anche nella prosa di Vasile Alecsandri, «gli usurai giudei» limavano «la dentellatura [delle monete d’oro] con uno strumento chiamato chilă [lima]» (Istoria unui galbân, 1844; cfr. 444, pp. 19-20). Alecsandri non mostrò alcuna pietà per gli “ebrei strozzini”: «La loro missione è di impoverire i boiari, di corrompere i contadini e di far svanire l’intera Romania», scriveva verso la metà del XIX secolo (881, p. 12).
Credo tuttavia che nell’immaginario collettivo dell’Europa orientale, il nesso ebreo-denaro si sia sviluppato attorno alla figura dall’ebreo commerciante piuttosto che a quella dall’ebreo usuraio. Con questo non voglio certo ridimensionare l’importanza dell’usuraio nella comunità ebraica dell’Europa cristiano-ortodossa, in generale, e della Romania, in particolare. Ma la professione di usuraio non si è sviluppata qui come altrove, a causa della debolezza del ceto medio. Nei Principati romeni, ad esempio, la società era strutturata in due classi contrapposte: boiari e contadini. Artigiani, commercianti e imprenditori – che avendo bisogno di capitale, si rivolgevano solitamente agli usurai –, rappresentavano in Romania un gruppo sociale relativamente esiguo, composto soprattutto da stranieri (362).
Inoltre, come ha dimostrato Nicolae Iorga (416, II, pp. 30 e 133), i veri «mercanti di denaro» attivi nei due Principati danubiani nei secoli XVIII-XIX – che prestavano soldi alla gente comune, ma anche ai commercianti, ai boiari e addirittura ai regnanti –, erano soprattutto turchi e greci. D’altronde, il termine zaraf [usuraio] è di origine turca, e il suo sinonimo cămătar proviene dalla lingua greca. Di contro, la parola ebraica haflon [usuraio] – pur essendo attestata in alcuni censimenti effettuati in Moldavia – non è mai entrata nel lessico romeno (436, p. 83). Nel 1832, su un totale di quarantaquattro usurai registrati nella città di Bucarest, soltanto nove (il 20%) erano ebrei (576, p. 187).
Ciononostante, non dobbiamo cadere nell’estremo opposto. Alcuni usurai che prestavano denaro ai principi e ai nobili dei Principati romeni erano ebrei di lingua turca o greca, in parte insediati a Istanbul. È il caso del mercante-usuraio della Bucarest governata dal principe Caragea Vodă (1812-1818), immaginato da Nicolae Filimon nel romanzo Ciocoii vechi şi noi col nome di Costea Chiorul, «ebreo di origine, ma vissuto e naturalizzato tra i Fanarioti», che «prestava denaro a tutti i giovani [nobili] con degli interessi altissimi» (657, p. 57). Verso il 1700, dal registro delle entrate e delle uscite del principe Brâncoveanu, risulta che molti dei suoi creditori – dodici su diciassette (il 70%) – erano ebrei di Istanbul: David Cavitul il giudeo, Iuda Musaban, Tabia il giudeo, «gli ebrei Mentes e Avram», Banc – «commerciante franco» –, Hagi Dovleg, l’ebreo David Cavason, Medim, l’ebreo Menahim Psimon, Antonie Paspatu, Simon Cucul, Avram Iacov, Isaac e Abraam Haruha, Aron, Abraam Iacul (822, p. 375). Nel XIX secolo, Ion Ghica ripensava a quegli «ebrei scalzi» divenuti «grandi banchieri a Londra e a Parigi», i quali avevano prestato alla sua nobile famiglia «dei milioni, in cambio, ovviamente, di commissioni e interessi esorbitanti» (824, p. 200). Radu Rosetti, a sua volta, raccontava del principe Mihail Sturdza (1834-1849), che era assurto al trono della Moldavia dopo aver preso in prestito, all’inizio degli anni Trenta dell’Ottocento, molto denaro dai «banchieri e uomini d’affari giudei»: «Quasi tutti i debiti – scriveva Rosetti – il principe [Sturdza] li contrasse con i giudei». Tra di essi figurava il banchiere di Iași Michel Daniel, «uno dei principali creditori» del principe (680, p. 160).
Verso la metà del XIX secolo, il principe della Valacchia Grigore Alexandru Ghica prese anch’egli in prestito del denaro dal grande banchiere ebreo sefardita, di origine turca, Hillel Manoah [11] (1797-1862). Cosa abbastanza frequente, il sovrano non restituì i soldi al banchiere di Bucarest, come risulta da un canto in ladino, tratto dal folclore urbano del tempo: «Alexandru Ghica no tiene paras/ Ham Hilel l’impresta y no paga mas» (880).
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Nel 1821, il segretario della corte reale di Bucarest, François Recordon, tentava di correggere l’immagine negativa dell’ebreo usuraio, a cui era abituato anche nella sua Francia. Parlando de «l’amore degli ebrei per il lavoro» e della «loro intelligenza», Recordon concludeva: «Sebbene i proverbi dipingano gli ebrei come degli ignobili usurai, non bisogna credere che siano delle persone disoneste»; cattivi esempi «li ritroviamo anche presso altri popoli» (109, p. 47; 535, p. 470). Moses Schwarzfeld, passando in rivista le professioni degli ebrei stanziati nelle regioni romene, estremizzava il cliché in senso opposto: «Nella lista dei mestieri esercitati dagli ebrei romeni, dobbiamo escludere quasi del tutto il commercio di soldi, poiché praticato solo di rado e in modo discreto» (164, p. 129). Ad ogni modo, la percentuale degli usurai era tenuta sotto controllo dalle autorità e limitata, in modo artificiale, dalla legge. Nel 1836, ad esempio, il Consiglio amministrativo della Moldavia decretò che «nella città di Iaşi il numero dei prestatori di valuta non deve superare le dieci unità, scelte tra persone dal grande patrimonio e degne di fiducia, che si impegneranno per iscritto a seguire alla lettera le regole stabilite». Nel resto del Paese, il numero di usurai autorizzati per ogni borgo era limitato a «uno o due» (322, p. 203).
Anche nella vicina Polonia – Paese a maggioranza cattolica e con una grande concentrazione di ebrei –, la percentuale degli usurai ebrei era sensibilmente scesa a partire dal Seicento. A causa del drammatico impoverimento delle comunità ebraiche della Polonia e della Lituania – processo che raggiunse l’apice nella seconda metà del Settecento –, si verificò una modificazione significativa della struttura occupazionale degli ebrei: da usurai che prestavano denaro a terzi, diventarono soprattutto artigiani e piccoli commercianti, che prendevano soldi in prestito da altri, e cioè dai rappresentanti della Chiesa cattolica e della nobiltà polacca (szlachta) (412 e 455, I, p. 234 [12]). Come ha mostrato Olga Goldberg-Mulkiewicz, per la mentalità popolare polacca l’ebreo è innanzitutto un taverniere, in secondo luogo un commerciante, e solo di rado veniva percepito come usuraio (127, pp. 87-89). Pur condizionata da una serie di circostanze storiche e dall’influenza di stereotipi mentali, questa arbitraria rappresentazione del panorama lavorativo ebraico, nell’antica Polonia, appare alquanto suggestiva. Tuttavia, anche nel folclore polacco, l’ebreo veniva spesso associato al denaro, con una decina di configurazioni diverse. Ci limitiamo a soli due esempi: da un lato, i salvadanai popolari che i contadini acquistavano al mercato, avevano la forma di un ebreo con i suoi tradizionali stereotipi fisici. Si pensava che l’immagine in legno o in ceramica dell’«ebreo tipico» portasse ricchezza (70, p. 163; cfr. le immagini a p. 160 e seguenti). Dall’altro lato, alcuni canti natalizi polacchi, recitati dai contadini sotto le case degli ebrei, cominciavano ex abrupto: «Il piccolo ebreo alla Sinagoga è andato / E un sacco pieno di soldi ha trovato». Il seguito della canzone evocava l’immagine dell’ebreo che, contrattando ostinatamente, riesce ad acquistare molti prodotti con i soldi ricavati (184, p. 45).
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Tornando alla società romena, in un articolo del 1907 intitolato Camătă şi cămătari, pubblicato nell’anno delle insurrezioni contadine e dei pogrom antisemiti, il poeta Alexandru Macedonski mostrava un certo coraggio nel contraddire l’opinio communis: «La propensione a praticare l’usura non è un tratto spirituale ebraico: essa è tipica di tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro religione, [ma] viene utilizzata per mettere in cattiva luce una ben precisa classe di israeliti». Il poeta Macedeonski lottava, senza troppo successo, contro un pregiudizio all’epoca molto diffuso, alimentato da un gran numero di personaggi letterari: «l’usuraio Imergold» di Alecsandri, «Goldman del Credito» di Topîrceanu, «il giudeo usuraio Ascher» di Alexandru Pelimon, il banchiere Simon di Gala Galaction, e Leopold Goldstein di Liviu Rebreanu. Un’opinione diffusa non solo dai giornalisti – come nel caso di un certo A. Kălimănescu [13] nel 1865 («la natura e l’educazione ricevuta dall’ebreo fanno sì che il suo cuore batta soltanto al suono delle monete d’oro. Per lui tutto il resto è muto»; cfr. 417, p. 12) –, ma anche da esponenti di spicco della cultura romena, come B.P. Hasdeu: «Chiunque lui sia [l’ebreo], è prima di tutto un usuraio». Qualsiasi cosa egli faccia, è un «giudeo usuraio». Dopo aver analizzato l’immagine dei «tre ebrei» nella letteratura universale – Shylock (Shakespeare), Gobseck (Balzac) e Moise (Alecsandri) –, Hasdeu giungeva a queste conclusioni: la «indiscutibile affinità» dei personaggi sta nel fatto che «tutti e tre sono degli usurai»; l’usura è «l’occupazione nazionale» dell’ebreo» (246, p. 45). Non solo la conclusione, ma anche la premessa del discorso di Hasdeu si rivelò errata, poiché mastro Moise – personaggio dell’opera Lipitorile satului di Vasile Alecsandri – invece di praticare l’usura lavorava come taverniere («l’oste del villaggio», come viene descritto dal drammaturgo).
Alexandru Macedonski non è stato l’unico scrittore romeno che ha tentato di ridimensionare l’importanza di questa leggenda. Nel 1933, Nicolae Leon criticava gli usurai di Iaşi (ebrei inclusi) che, verso la fine dell’Ottocento, applicavano degli interessi molto alti. Tuttavia, evitando le facili generalizzazioni, l’autore non è caduto nella trappola dello stereotipo: «Il detto popolare: “Avaro come un ebreo” è falso. Paul Morand afferma che gli ebrei sono più generosi dei cristiani; ma poiché in passato vissero di usura, Plauto, Molière e Balzac si sono la sciati ingannare» (879). Ecco cosa scriveva Tudor Arghezi in un pamphlet del 1930: «Tutti gli ebrei, secondo la leggenda, sarebbero milionari. […] Un ebreo deve possedere tre fabbriche, una banca e un latifondo […]. Poiché il capitale denota una chiara tendenza filosemita, gli Stati battono monete a esclusivo uso degli ebrei, maestri di un’ipnosi che devasta fondi e bilanci. Sicché, il mondo è diviso tra milionari e cristiani, in lotta gli uni con gli altri […]. Visto che possiede tanto denaro, un ebreo può fare tutto quello che vuole. Oltre ai beni di prima necessità, costui si appropria della coscienza, del patriottismo, della giustizia e delle leggi. Un cristiano può entrare nella classe dei ricchi, ovvero degli ebrei, solo da “venduto” […]. La leggenda vuole inoltre che gli ebrei si aiutino a vicenda, non appena un milionario finisce tra le mani dei cristiani. Insieme formano un Cahal, una sorta di comunità universale, una compagnia gesuita o massonica che non abbandona nessuno del [popolo] di Israele». Per demitizzare questa falsa immagine, Arghezi descriveva la miseria in cui vivevano i «milionari» mendicanti dei quartieri ebraici di Iaşi, Paşcani e Târgu Frumos (398).
Mihail Sebastian, nel suo romanzo autobiografico Da duemila anni (1934), si serviva dello stesso tipo di retorica. Il protagonista del libro – alter ego dello scrittore – oppone all’esiguo numero dei banchieri ebrei (accusati di manipolare i politici romeni attraverso la finanza) una numerosa armata di artigiani, che sopravvivono in povertà: «A quei due banchieri ebrei di cui parlavi, potrei opporre venti, duemila, duecentomila disgraziati e miserabili lavoratori ebrei che si dibattono fra il pane quotidiano e la fame quotidiana. E allora? Questo farebbe forse vacillare le tue intuizioni? Dio ce ne scampi e liberi! Non vedi che quello che tu chiami “intuizione”, e che io chiamo il tuo “antisemitismo”, sceglie appositamente determinati esempi che possano fomentarlo e ignora quelli che possano contraddirlo?» [14] (219, p. 217). Nel 1935, Mihail Sebastian accusava di ingiustificato antisemitismo il suo vecchio mentore Nae Ionescu, per il modo in cui quest’ultimo – nella famosa prefazione al romanzo Da duemila anni – «stabilisce in tre parole l’identità tra Talmud e usura» (219, p. 292). «Dal talmudista all’usuraio, che soppesa oro e rivende argento, il passo è breve» – scriveva Nae Ionescu. «Sono la medesima cosa. Gli ebrei, nel corso dei secoli, sono stati eccellenti maneggiatori di denaro. Questo talento ha permesso loro di godere della vicinanza dei re e dei grandi capi dei popoli» (219, p. 19).
Anche Karl Marx riduceva la “questione ebraica” a “tre parole”: «Quale era la base profana del giudaismo?», si domandava in modo retorico. «La necessità pratica, l’interesse egoistico. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Mercanteggiare. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro» (Zur Judenfrage; in 278, p. 351 [15]). Il tedesco Moses Hess [16], fonte d’ispirazione per lo stesso Marx, affermava che «il denaro è il nostro sangue»; gli ebrei si nutrono come dei vampiri di sangue finanziario, contagiando anche gli altri uomini (Über das Geldwesen, 1843; cfr. 810, p. 342). Nichifor Crainic, su posizioni dichiaratamente antimarxiste, riproponeva quasi un secolo dopo i medesimi stereotipi antisemiti: «Giudaismo significa usura […]. La forza dell’ebreo è il denaro» (602, pp. 268-269). Come nota Marta Petreu [17], il ritratto dell’ebreo fatto nel 1908 da A.C. Cuza nel libro Naţionalitatea în artă si rifaceva alla «tradizione del XIX secolo». Per l’autore, gli ebrei sono «una nazione senza territorio», e il denaro, la loro «patria ambulante»; essi sarebbero «un popolo di trafficanti cosmopoliti», che vive «sfruttando il lavoro» di altri popoli, per questo motivo sono «disprezzati e odiati ovunque» (898, pp. 86-87).
L’idea che tutti gli ebrei fossero usurai (e viceversa), si basava su uno stereotipo molto antico. In Francia, ad esempio, questo tipo di cliché è diventato l’espressione dell’esagerazione per eccellenza. Quando si trovano dinanzi a qualcosa di veramente incredibile, i francesi ricorrono al detto «Tous les banquiers ne sont pas des Juifs» (3, p. 75).
In generale, l’immagine dell’ebreo usuraio è stata recepita in modo distorto e irrazionale da ambo le parti. La frase «tutti gli usurai sono ebrei» veniva contraddetta dal suo opposto, altrettanto esagerato: «nessun usuraio è ebreo». Sentendosi accusati, gli ebrei – soprattutto loro – se ne servirono. Come abbiamo già visto, nel 1899 Moses Schwarzfeld affermava che «il traffico di denaro è quasi da escludere tra le professioni degli ebrei romeni» (164, p. 129). Nel tentativo di ottenere i diritti civili e politici – negati fino al 1919 –, gli “ebrei autoctoni” di Romania inviarono nel 1910 una petizione al Parlamento, in cui tra le altre cose si dichiarava: «non sono gli ebrei a essere stati scoperti dalle autorità come usurai e sanguisughe dei villaggi. Non sono gli usurai ebrei, del tutto assenti nel nostro Paese, i potenti nemici che le banche popolari hanno dovuto combattere. Per decine di anni si è parlato dell’usuraio ebreo del villaggio, messo in scena anche da una certa letteratura; ma quando sono state effettuate delle ricerche in loco, è apparso subito molto chiaramente che quegli usurai non erano ebrei» (298, p. 282).
In questa parte del continente, lo stereotipo professionale dell’ebreo era rappresentato non tanto dall’usuraio quanto dal commerciante, soprattutto dal taverniere. Nell’immaginario collettivo, il ruolo dell’usuraio era occupato dal bettoliere. Nei Paesi cattolici e protestanti, il prestatore di denaro (nella fattispecie, quello ebreo) veniva associato a Giuda Iscariota, al diavolo e all’Inferno. E questo non solo perché, in generale, l’ebreo era demonizzato. Essendogli negato il Paradiso (cfr. Sal 15, 5), l’usuraio non poteva che bruciare nelle fiamme dell’Inferno. A tale sorte post mortem lo condanna anche Dante nella Divina Commedia (cfr. Inferno, XVII, 43-78). Al contrario, nell’Europa orientale, a essere demonizzato non era l’usuraio ebreo ma piuttosto il taverniere ebreo. Se «il denaro è l’occhio del demonio», l’acquavite è il suo sangue.
(n. 4, aprile 2019, anno IX)
NOTE
1. A. Oișteanu, Imaginea evreului în cultura română. Studiu de imagologie în context est-central european, Polirom, Iași 2012. Le prime due edizioni erano uscite nel 2001 e 2004 presso la casa editrice Humanitas di Bucarest.
2. Nel frattempo è stata pubblicata anche l’edizione francese: Les images du Juif. Clichés antisemites dans la culture roumaine, Non Lieu, Paris 2013 [N.d.C.].
3. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, p. 25.
4. J. Le Goff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 18.
5. W. Block, Difendere l’indifendibile, Liberilibri, Macerata 2016, p. 118.
6. L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, I, Da Cristo agli ebrei di corte, La Nuova Italia, Firenze 1991, p. 231
7. Le Goff, La borsa e la vita, cit.
8. J. Le Goff, Mercanti e banchieri nel Medioevo, D’Anna, Messina-Firenze, 1976.
9. M. Sadoveanu, La scure, Atmosphere Libri, Roma 2015, p. 7.
10. A. Appelfeld, Il mio nome è Katerina, Feltrinelli, Milano 1994, p. 24.
11. Hillel Manoah (1797-1862) fu un banchiere ebreo, console onorario dell’Impero ottomano e capo degli ebrei sefarditi di Bucarest.
12. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, I, cit., p. 268.
13. Venti anni prima che venisse pubblicato in Francia il noto manifesto antisemita La France juive, A. Kălimănescu scriveva Jidanii în România (1865), in cui preconizzava l’esproprio delle attività commerciali ebraiche.
14. M. Sebastian, Da duemila anni, Fazi, Roma 2018, p. 267.
15. P. Johnson, Storia degli ebrei, TEA, Milano 1994, p. 394.
16. Moses Hess (1812-1875) è considerato il fondatore del sionismo socialista. Abbandonate le iniziali simpatie per una forma di comunismo universale, si oppose ai movimenti assimilazionisti e appoggiò, nel libro Rom und Jerusalem (1862), la creazione di uno stato ebraico.
17. Marta Petreu (1955) è scrittrice e docente di storia della filosofia romena presso l’Università Babeş-Bolyai di Cluj. In Italia sono apparsi i seguenti volumi: Il passato scabroso di Cioran (2015), L’apocalisse secondo Marta. Poesie 1981-2015 (2016) e Dall’olocausto al gulag. Studi di cultura romena (2016).
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