Morte, risurrezione, immortalità. Il «corpo di arcobaleno» e dintorni

In diversi racconti fantastici di Eliade, l’eroe protagonista è un personaggio che, a un certo momento della sua vita, scompare. Tale scomparsa, i cui motivi si chiariscono (almeno in parte) durante la lettura e soprattutto la rilettura del testo, equivale – dal punto di vista umano-relazionale, ma anche spirituale e metafisico – a una “morte”.
È quanto avviene, per esempio, nel racconto Il segreto del dottor Honigberger, dove la scomparsa del dottor Zerlendi rispecchia la biografia “occulta” di un altro dottore, vissuto in passato, Johann Martin Honigberger. Attorno all’esistenza storica di quest’ultimo si dipana, nel racconto, una biografia romanzata, scritta dal personaggio letterario Zerlendi e riscritta – cioè riassunta – dal personaggio-narratore; apprendiamo, così, che il dottor Zerlendi, non più interessato a portare a termine il lavoro biografico, si vota invece a pratiche yoga segrete, decidendo infine di incamminarsi verso il “Regno invisibile” (Shambhala) evocato nelle tradizioni indo-tibetane, sparendo dalla vista dei suoi simili. La sua scomparsa, che a tutta prima sembrerebbe interpretabile come la probabile morte di un individuo letteralmente “svanito nel nulla”, il cui corpo non è stato trovato, e che non ha lasciato alcun messaggio ai “posteri” (eccetto quello, segreto, indirizzato a colui che sarebbe stato, a sua volta, in grado di comprendere il suo opus e conoscere le lingue da lui studiate), non si riduce, però, a una mera assenza. Di fatto, lo scomparso Zerlendi resta vivo e attivo spiritualmente, interagisce – da un’altra dimensione spazio-temporale – con gli individui “in carne ed ossa” che abitano nella sua (ex?) casa, ed è, per di più, un agente decisivo nella trasformazione delle loro esistenze [1].
Ad un’analoga evoluzione assistiamo nel romanzo Diciannove rose, con la scomparsa dello scrittore amnesico Adrian Dumitru Pandele (A.D.P.) come pure accade, su un altro piano, alla nobildonna uccisa durante le rivolte contadine del 1907, nel romanzo La Signorina Christina: privata di una morte naturale, la “vampiressa” Christina torna regolarmente a disturbare, conturbare, tormentare i viventi “normali”.
In altre parole, in questi racconti eliadiani, il protagonista scomparso – convenzionalmente morto o no – torna a interferire nelle vite dei “sopravvissuti”, a metterli alla prova, a guidarli e perfino a “salvarli”. [2]
Ma non è forse ciò che fanno anche santi e sante, maestri e maestre, d’Oriente e d’Occidente, nei confronti dei loro discepoli, allievi o discendenti devoti?
A occuparsi di questa problematica, partendo dal caso particolare di “scomparsa del corpo” di un maestro tibetano deceduto nel 1998, è lo studioso americano Francis V. Tiso, nel suo volume Rainbow Body and the Resurrection. Spiritual Attainment, the Dissolution of the Material Body, and the Case of Khenpo A Chö (North Atlantic Books, Berkeley 2016, pp. 408), la cui edizione in lingua francese è stata di recente data alle stampe. Si tratta del secondo volume pubblicato da Tiso sul buddhismo tibetano, dopo la monografia Liberation in One Lifetime: Biographies and Teachings of Milarepa (2010; seconda edizione: 2014).
Rispetto all’edizione originale americana, quella pubblicata ora a Bruxelles non è una semplice traduzione in toto. L’autore stesso, in vista della versione francese, ha rielaborato il testo, per un verso rendendolo più concentrato – il numero complessivo delle pagine, nell’edizione franco-belga, è di circa centotrenta in meno rispetto a quella inglese-statunitense – e per l’altro, rimodulandolo, mettendo in risalto due capitoli, rispettivamente il quarto (Le soutra de Jésus: L’Église d’Orient en Chine) e il sesto (La vie de Garab Dorjé: Un point de bascule dans l’histoire du dzogchen), che, nella prima edizione del libro, erano sezioni interne a capitoli più ampi. Per il resto, i cinque capitoli della prima edizione americana (più l’introduzione firmata dall’autore e li apparati critici: note, bibliografia e indici di luoghi e di nomi) si ritrovano, con gli stessi titoli, in quella europea, che contiene inoltre la prefazione di Philippe Cornu, professore di Storia delle religioni e di Buddhismo presso l’Università cattolica di Lovanio, in Belgio.
Il libro prende avvio e ritorna spesso a quest’esperienza del «corpo di arcobaleno», di per sé intrigante e poco nota al pubblico generalista, come osserva il professor Cornu nella sua prefazione. Questa circolazione ristretta si deve, in buona misura, alle caratteristiche del buddhismo dzogchen, le cui radici affondano, oltre che in alcune scuole Bönpo, ovvero interne alla religione autoctona, pre-buddhista (cioè “pagana”) – sopravvissuta fino a oggi alle varie “evangelizzazioni” buddhiste nello spazio culturale tibetano, che include il Tibet storico vero e proprio nonché aree dentro e fuori il territorio dell’attuale Repubblica Popolare Cinese –, negli insegnamenti della scuola Nyingma («degli anziani»), che è una comunità piuttosto di nicchia. Quest’ultima, come recita il suo stesso nome, è connessa alla prima diffusione del buddhismo nel Tibet (VIII secolo), alla trasposizione delle scritture buddhiste dal sanscrito al tibetano e alle prassi esoteriche relative alla tradizione dei “testi-tesoro” (terma), sotterrati per essere riscoperti e usati in epoche e circostanze spiritualmente idonee. Allo stesso tempo, se è vero che in diverse lingue occidentali esisteva già una certa letteratura sull’argomento scelto da Tiso, – il quale, peraltro, non manca di discuterla puntualmente lungo l’intero lavoro e di elencarla nell’utile bibliografia finale – è altrettanto vero che lo studioso americano la affronta, come vedremo più avanti, in modo differente e originale. [3]
Incoraggiato dal suo maestro spirituale, il monaco benedettino David Steindl-Rast, figura emblematica del dialogo, in una prospettiva olistica, tra le religioni, e tra la spiritualità e le scienze contemporanee, Francis Tiso si reca, nell’estate del 2000, nel Tibet orientale, per compiere ricerche su khenpo A chö [4], il cui corpo si era miracolosamente “volatilizzato”, una settimana dopo la morte, nell’agosto del 1998. Il viaggio si svolge, prevalentemente, come una ricerca sul campo, di taglio antropologico, con tanto di interviste, appunti di diario e dialoghi partecipati, coadiuvati dalla presenza di un tibetologo-interprete, Douglas Duckworth. Parti di questa ricerca sul campo sono fedelmente riportate nel libro in questione, il quale può essere letto anche come una testimonianza di “umiltà” antropologica da parte dell’autore, che ha svolto altre ricerche analoghe, prima e dopo quell’anno, nell’area indo-tibeto-himalayana (India, Nepal, Cina). Certo, l’indagine è, rispetto al contesto specifico buddhista-himalayano, portata avanti da un “esterno”, come il professor Cornu non manca di osservare nella sua prefazione. Del resto, alla domanda «Pourquoi une telle enquête?», il prefatore risponde che l’esperienza del «corpo dell’arcobaleno» presa in esame (che rinvia alla casistica di corpi postumamente dissolti nella luce, ma anche a quelli rattrappiti), per quanto straordinaria e rarissima, è stata osservata anche da terzi, cioè da esterni, essendo accompagnata da fenomeni come la luce, odori e suoni particolari percepiti da vari testimoni. Inoltre, prosegue il professore belga, toccando così un nodo cruciale trattato da Tiso nel suo libro, «le christianisme lui-même s’est édifié à la suite d’un événement extraordinaire, celui de la résurrection du Christ qui ne laissa pas non plus de corps physique à sa mort». Su tale similitudine, che non è sfuggita alla «perspicacité du frère David et de Francis Tiso», è costruita l’impalcatura comparativa e trans-disciplinare del lavoro. Indubbiamente, il raffronto tra la dottrina cristiana della resurrezione dei corpi e quella dzogchen del «corpo dell’arcobaleno» quale segno di particolare elezione spirituale, è un argomento di sicuro e perenne interesse filosofico. In proposito, l’autore ricorda, in apertura al libro, la simpatica espressione-battuta italiana «Che fine ha fatto?», che è come uno dei fili conduttori della ricerca su khenpo A chö.
Il volume non consiste nella semplice biografia di uno yogi del secolo scorso (cui è dedicato il primo capitolo, «Vita e morte di khenpo A chö. Ricerca su un fenomeno paranormale post-mortem nel Tibet»), né è la rievocazione di una spedizione antropologica, eventualmente integrata da una riflessione metafisica sulla “fine” a cui l’individuo va incontro, morendo (o scomparendo), in questa o in quella religione. Tiso va oltre. Lo fa in verticale, cimentandosi con la tradizione dzogchen, “costringendo” il lettore profano a iniziarsi nelle dottrine e soprattutto nelle pratiche meditative della scuola (si vedano, al riguardo, i capitoli secondo, sugli sviluppi recenti dello dzogchen, e quinto, sullo dzogchen antico), ma anche in orizzontale, perché quegli insight sono accompagnati, all’interno degli stessi capitoli menzionati, e ancor di più negli altri, di taglio più spiccatamente interdisciplinare, da accurate e suggestive incursioni nella storia religiosa dell’Asia, in generale, e dell’Asia centrale, in particolare, anche alla luce delle più recenti e affidabili cognizioni storiche, archeologiche, filologiche. Il confronto con il cristianesimo (soprattutto siriaco e orientale), con lo gnosticismo, con il manicheismo e persino con la tradizione musulmana, nei capitoli terzo, quarto e sesto (dedicati alla diffusione e all’impatto del cristianesimo in vari contesti orientali, dall’Egitto alla Cina) del libro getta una luce nuova sugli incontri, le influenze reciproche e le evoluzioni di queste dottrine e pratiche in quell’enorme piattaforma girevole che è l’Asia Centrale – “periferica” rispetto ai grandi Imperi d’Oriente (India, Cina, Tibet) o d'Occidente, ma centrale in una prospettiva più ampia, che potremmo chiamare euro-afro-asiatica.
Da questo punto di vista, il volume proposto da padre Francis Tiso rappresenta un ottimo strumento storico-religioso di avvicinamento e di approfondimento, oltre che una chiave di lettura assai originale, a fenomeni complessi, distanti nel tempo e nello spazio, ma interconnessi, i quali, proprio per queste loro caratteristiche, conservano la loro attrazione tanto per le indagini “interne” quanto per quelle “esterne” (o miste).
Per tali e tanti altri motivi – sui quali per ragioni di spazio non possiamo soffermarci in questa sede – c’è da augurarsi che il volume venga presto tradotto anche in italiano.


Horia Corneliu Cicortaș
(n. 7-8, luglio-agosto 2024, anno XIV)



NOTE

[1] Per approfondimenti, cfr. gli apparati critici del volume M. Eliade, Il segreto di dottor Honigberger, a cura di H.C. Cicortaș, Bietti, Milano 2019, e il mio articolo Evola, lo yoga e un raccolto ‘occulto’ di Mircea Eliade, in «Studi evoliani», 2019, pp. 131-150.
[2] L’edizione italiana integrale della narrativa fantastica di Mircea Eliade (racconti e brevi romanzi) è pubblicata, in due volumi, dall’editore Castelvecchi di Roma (2023-2024), a cura dello scrivente e di Igor Tavilla, con studi introduttivi di Sorin Alexandrescu.
[3] Tanto per limitarci a un esempio, esiste, sul tema, un libro del maestro dzogchen Chögyal Namkhai Norbu – dal quale l’autore ricorda, tra l’altro, di aver ricevuto insegnamenti specifici per il raggiungimento dello «stato naturale di contemplazione». Si tratta del volume Rainbow Body. The Lide and Realization of a Tibetan Yogin, Togden Ugyen Tendzin (trad. e cura di A. Clemente), pubblicato dalla stessa North Atlantic Books nel 2012: il racconto della vita dello zio di Norbu, con i dettagli relativi al suo contesto ecc., ma privo di informazioni tecniche e molto lontano dall’approccio storico-filologico, di taglio comparativo, di Francis Tiso. Questo libro di Norbu, a differenza di tanti altri firmati dal maestro tibetano, non è stato pubblicato in italiano.
[4] Il titolo di khenpo è per certi versi equivalente, nelle scuole Nyingma, Sakya e Kagyu a quello di geshe nell’ordine dei Gelugpa, e richiede un periodo prolungato (dai nove ai sedici anni) di studi intensi della teoria e della pratica di una determinata scuola.