Verso il Sé, per mezzo della Madre: il viaggio spirituale di Blanca Schlamm (Atmananda)

Verso la metà degli anni ’90, tramite un caro amico comune, conobbi, ad Assisi, Ram Alexander e sua moglie. Sapevo, tra l’altro, che entrambi erano discepoli di Anandamayi Ma (1896-1982), la Madre Divina bengalese, e attivi, sul piano spirituale e caritativo, anche dopo la morte di lei, nell’ashram di Kankhal, a Haridwar, dove si trova il tempio (mandir) in cui sono conservate le spoglie mortali della santa.
Qualche anno più tardi, Ram portava a termine un libro, dato alle stampe nel 2000, col titolo suggestivo di Death Must Die («La morte deve morire»), che riecheggia una frase pronunciata da Anandamayi Ma nel corso dei suoi insegnamenti [1]. Il volume, uscito in altre due successive riedizioni, è stato nel frattempo tradotto e pubblicato in Francia (due edizioni: 2003 e 2016), Germania (2009; 2021), Romania (2017), oltre che in Italia. La prima edizione italiana, del 2008, ristampata nel 2012, era uscita presso la casa editrice milanese Vivarium col titolo La morte deve morire. I diari di Atmananda (1925-1963); il sottotitolo recitava: La ricerca spirituale di una donna occidentale in India con Anandamayee Ma (con la grafia impiegata nell’edizione originale inglese).
Più recentemente, nel 2020, è apparsa la quarta edizione inglese del volume, completamente riveduta e integrata con alcuni nuovi contributi, con lo stesso titolo ma con un nuovo sottotitolo [2]. Su di essa si basa anche la nuova edizione italiana, pubblicata nel marzo 2022, all’interno della collana «Luci dall’Est» della casa editrice Stella Mattutina di Scandicci, specializzata in spiritualità esoterica e olistica. Luciano Paoli, affiancato da Maria Irmgard Wuehl (che ha tradotto i termini tedeschi presenti qua e là nel manoscritto originale), firma la bella traduzione in italiano.
Si tratta di un libro interessante da più punti di vista, che riguardano tanto il contenuto quanto la struttura: due elementi interdipendenti, giacché il contenuto è stato reso noto al pubblico proprio grazie al volume di Ram Alexander, mentre a sua volta la struttura è stata costruita per poter reggere una sostanza ben calibrata e composta da tre strati testuali, che corrispondono ad altrettanti soggetti autoriali.
Non a caso, Ram Alexander ha cautamente e umilmente precisato, sulla coperta e sul frontespizio del suo lavoro, che esso si basa su un diario che non è suo, bensì di un’altra persona, ovvero Atmananda, della quale parleremo più avanti. In altre parole, è un libro costruito con il “materiale del cliente”. Più precisamente, per circa tre quarti, consta delle annotazioni del diario spirituale di Blanca Schlamm (1904-1985), dal 1946 in poi nota col nome religioso di Atmananda, conferitole da Anandamayi Ma quale riconoscimento del legame consolidato di tipo maestro-discepolo. Il testo diaristico copre un periodo di trentotto anni: la prima annotazione è datata Vienna, 21 aprile 1925 (p. 48), e l’ultima è datata Kishenpur (a Dehradun, dove si trova un ashram dedicato alla Madre), 23 luglio 1963 (pp. 529-530). Da notare che il diario di Blanca è scritto fin dall’inizio in inglese (e non in tedesco, come ci si aspetterebbe in questo caso): uno Sprachwechsel frutto della sua significativa adesione giovanile alla cosmopolita Società Teosofica.
Nel 1972 l’allora sessantottenne Atmananda conobbe il giovane americano di ventitré anni, condiscepolo della Madre, Ram Alexander – che lei trattò subito, nonostante la notevole differenza d’età, «come un vecchio amico» (p. 39) –, il quale in seguito avrebbe collaborato con lei nella redazione dell’ashram di Kanhkhal. Poco tempo prima della sua morte (che sarebbe avvenuta nel 1985), Atmananda parlò a Ram del proprio diario intimo, che aveva pensato di distruggere; tuttavia, avendolo riletto di recente, dopo molti anni, riteneva che potesse «in qualche modo essere utile agli altri» (ivi). Così lo affidò al giovane collega, il quale sarebbe entrato successivamente in possesso dei manoscritti grazie alle cure di un’altra amica comune, Melita Maschman (una scrittrice tedesca che ha trascorso i suoi ultimi trentacinque anni di vita in India), colei che aveva assistito Atmananda negli ultimi giorni della sua esistenza terrena.
Ram Alexander è dunque l’autore di un volume in cui ha curato e commentato il diario scritto da Blanca Schlamm (Atmananda); la quale, rivestendo il ruolo di “personaggio principale” della storia, può essere considerata un secondo autore. Allo stesso tempo, nella misura in cui, in grandissima parte, il diario è dedicato al rapporto con Anandamayi Ma e riporta sistematicamente brani di dialoghi con lei, frammenti di insegnamento spirituale da lei impartito agli adepti e ai simpatizzanti, nell’ambito di attività religiose di gruppo alle quali Atmandanda presenziava, istruzioni personali, atteggiamenti, azioni e prese di posizione manifestate in varie circostanze, momenti e luoghi, oltre a testimonianze di altre persone, che condividevano con la diarista la via del perfezionamento spirituale (sādhanā), guidate dalla stessa Anandamayi Ma – ebbene, tutti questi elementi fanno sì che quest’ultima possa essere considerata il terzo autore del libro. Riassumendo: è un volume “stratificato”, costruito da Ram Alexander sulla base di un manoscritto di Atmananda, il quale, registrando lungo le pagine del diario relative agli anni 1943-1963 i detti e i non-detti della Madre, dà vita – sia pure in assenza di una tale intenzione letteraria – a una sorta di pseudo-biografia di lei, un testo che può essere letto anche come una pseudo-autobiografia di Anandamayi Ma, che si “rivela” a noialtri mediante le esperienze vissute (e trascritte) dalla sua seguace occidentale.

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Negli anni in cui Mircea Eliade si trovava in India (1928-1931), Anandamayi Ma era già conosciuta come una personalità fuori dall’ordinario – basti pensare, tra l’altro, che il maturo marito che le era stato destinato divenne, senza che il matrimonio fosse mai consumato, suo discepolo –, famosa perlopiù nel Bengala, terra generosa, in quel periodo, di maestri spirituali, sui quali si sarebbe poi sviluppata un’ampia letteratura. Uno di essi, Sri Yukteswar Giri (1885-1936), aveva il suo ashram nella cittadina di Serampore, a nord di Calcutta, dove Eliade ha ambientato un noto racconto del 1940. È stato un discepolo bengalese di Yukteswar, Paramahamsa Yogananda (1893-1952), a far conoscere Anandamayi Ma al pubblico internazionale, grazie al capitolo della sua celebre Autobiography of a Yogi (1946) a lei dedicato, nel quale raccontava il loro incontro, avvenuto nel 1935.
Blanca Schlamm, invece, non ebbe bisogno di quel libro per giungere a conoscere la Madre divina. Viaggiò per la prima volta in India (del sud) nel 1925, tramite la Società Teosofica, alla quale aveva aderito cinque anni prima, più esattamente quale seguace di Jiddu Krishnamurti (1895-1986). Dopo un’attività di quindici anni nel movimento teosofico in Europa, tornò in India ancora affascinata da colui che considerava il proprio maestro, nel 1935, senza sospettare che non avrebbe più lasciato quel Paese. Conobbe Anandamayi Ma nel 1943, e dal 1945 la seguì da vicino, con una tenacia e una costante lotta interiore (contro l’io limitato), contrassegnata da quotidiani fallimenti e vittorie, come il suo diario rispecchia.
Chi era Atmananda? Nata a Vienna in una famiglia ebraica, Blanca Schlamm perse la madre all’età di appena due anni, quando nacque la sua unica sorella. Affidate alla custodia del padre e della nonna, Blanca e sua sorella vissero insieme fino al 1919, quando quest’ultima morì. Questo secondo shock familiare, sopraggiunto nel quadro delle difficoltà sorte a seguito della prima guerra mondiale e del disfacimento dell’Impero asburgico, spinse Blanca verso una ricerca di tipo spirituale, innestata sul suo talento di pianista, che aveva manifestato fin da bambina. Così, sarebbe diventata strumentista in seno alla Società Teosofica, ed è in questa qualità, musical-spirituale, che la ritroviamo nella scuola olistica fondata da Krishnamurti a Rajghat, vicino Benares, dove ha insegnato musica per dieci anni.
Il suo diario ci offre la possibilità di essere testimoni di un lungo periodo di trasformazione interiore, dapprima sullo sfondo della routine didattica e delle frustrazioni spirituali che la spingeranno a impegnarsi sempre più a fondo sulla via contemplativa, oscillando tra la tendenza personale verso lo spirito critico e il metodo radicale, iconoclasta, di Krishnamurti (che incontrerà sporadicamente, in occasione delle visite di quest’ultimo a Rajghat), da un lato, e, dall’altro, la nostalgia dell’abbandono amorevole, entro la ricerca del Sé e dell’Uno, a colei che le si rivelerà gradualmente quale guida e modello da seguire: Anandamayi Ma. Alla progressiva “sterzata” verso la maestra bengalese contribuirà, in modo indiretto ma decisivo, il poeta inglese Lewis Thompson (1909-1949), anche lui impegnato sullo stesso cammino (indù) della realizzazione interiore. Rimasta nuovamente “orfana” a seguito della morte di questo amico spirituale, scomparso a soli quarant’anni, Blanca vive in pieno il dilemma della propria identità, di europea straniera in India (Paese divenuto nel frattempo indipendente), ma risolutamente avviata sulla via eroica di realizzazione dell’Unità che trascende i dualismi, le avversità e i condizionamenti mondani.
Riuscirà lei a superare questi ostacoli? Scorrendo il suo diario, un lettore profano non sarebbe in grado di rispondere a una domanda il cui senso non può essere decifrato in mancanza di uno sforzo reale o di un interesse autentico per una questione che è alla radice delle discipline spirituali di ogni latitudine. Fortunatamente, l’apporto del curatore Ram Alexander – egli stesso un insider, non un semplice erudito accademico – non si limita a rivestire di un “imballaggio” attraente un “prodotto” difficilmente commerciabile, bensì si incarica di agevolare, grazie a testi di accompagnamento ben calibrati e nitidamente esposti (testo introduttivo, commenti, note esplicative, apparati critici e iconografici), la comprensione delle pratiche quotidiane di un’eroina sulla via stretta della realizzazione spirituale.
Naturalmente, come dicevo e come lo stesso titolo del libro suggerisce, il lettore apprende molti fatti interessanti dal diario di Atmananda, sulla visione non dualista di Anandamayi Ma e sugli ambienti in cui l’ha trasmessa, tanto agli interlocutori indiani (in primo luogo ai fedeli indù, alcuni dei quali appartenenti all’élite della società, ma non solo a loro) quanto agli occidentali che l’hanno seguita, in diversi periodi del secolo scorso. Apprendendo queste informazioni di prima mano, il lettore diventa partecipe dell’intenso lavorio di colei che divenne, in seguito all’ingresso nell’ashram della Madre, sua interprete e traduttrice (dal bengali e dall’hindi); un lavorio alchemico di “fusione” delle tensioni e delle sfide “generiche” (difficoltà di concentrarsi, di meditare o di mantenere a lungo una determinata postura, il digiuno, la solitudine ecc.), come pure di quelle “specifiche”: di donna e, soprattutto, di straniera in un ambiente religioso indù, in cui spesso e volentieri le regole tradizionali di casta estendono il loro tentacolare influsso all’interno di comunità aperte, in linea di principio, ai non indù e ai non indiani. Da quest’ultimo punto di vista – ammirevolmente contestualizzato e spiegato da Ram Alexander nei suoi interventi – il libro rappresenta un ottimo vademecum, utile sia per chi voglia gettare uno sguardo sull’immenso “giardino esotico” chiamato India, sia per chi desideri approfondire le proprie ricerche spirituali in direzioni ancora poco esplorate.




Atmananda (a sinistra) e Anandamayi Ma (al centro)



Horia Corneliu Cicortaș
(n. 4, aprile 2024, anno XIV)