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Ermeneutica che trasforma l'esistenza: il teatro nella visione di Mircea Eliade
In occasione dell'ultimo Salone internazionale del Libro a Torino, è stato presentato il libro relativo a Mircea Eliade, Tutto il teatro. 1939-1970 (Bietti, Milano, 2016, a cura di Horia Corneliu Cicortaş). Siccome il lato drammaturgico e l’interesse di Eliade per il fenomeno teatrale sono stati meno indagati negli studi dedicati alla sua opera, l’uscita di questo volume in italiano contribuisce indirettamente a riscoprire un’ermeneutica delle arti, di tipo extra-estetico, come concepita dallo stesso Eliade. Si tratta di un’ermeneutica che evita di isolare il teatro nell’ambito estetico o psicologico, processo in cui vengono infranti i legami con le origini del fenomeno: con l’aspetto religioso e misterico, da un lato, e con quello rituale, rigenerativo, dall’altro. È stato detto che la stessa de-teologizzazione dell’arte (quindi anche del teatro) sarebbe una delle caratteristiche essenziali del modernismo [1], e che il teatro può sperimentare infinite forme di espressione al di fuori del piano religioso. A questa estetica agnostica del nuovo, figlia della mitologia che ha ispirato le avanguardie storiche del primo Novecento, Eliade ha opposto l’idea di una ermeneutica creativa che «rivela significati non afferrati in precedenza, evidenziandoli con un vigore tale che, dopo aver assimilato questa nuova interpretazione, la coscienza non resta immutata […] Alla fine, essa trasforma l’uomo: va oltre la semplice istruzione, è anche una tecnica spirituale suscettibile di modificare la qualità della stessa esistenza» [2]. Il modello teorico si riferiva all’ambito della storia delle religioni, quale disciplina autonoma e integrativa dei contributi degli altri settori, in modo tale che l'ermeneutica può essere applicata anche alla letteratura, all’arte, ivi incluso il teatro (la sua origine mitico-religiosa legittima un tale approccio interpretativo).
Le radici mitico-rituali del teatro
Trovandosi di fronte alla crisi modernista di un certo estetismo senza fondamento etico ed esistenziale, Eliade ha sempre sostenuto che l'arte, quando raggiunge lo stadio di manierismo e la perdita di innovazione formale, può rigenerarsi tornando ai suoi inizi, come ad esempio, nel caso del teatro, il complesso mitico-rituale. Questo collegamento è ancora vivo nel teatro asiatico (il teatro Nō, il teatro balinese), e la sua forza espressiva ha ispirato un autore come Antonin Artaud, che ha esercitato un immenso influsso sul fenomeno del teatro nella seconda metà del XX secolo. Insieme a Bertolt Brecht, ma in un'altra direzione, Artaud è stato uno dei riformatori dell’idea di teatro moderno, confermando attraverso i suoi lavori i presupposti teorici che Eliade aveva formulato nei suoi scritti giovanili, comprese le pièces di questo volume. Le sue concezioni hanno influenzato il lavoro di registi acclamati nella seconda metà del secolo scorso, come Peter Brook e Jerzy Grotowski, o il lavoro di gruppi teatrali – Living Theatre (New York) e Odin Teatret (compagnia costituita in Danimarca da Eugenio Barba, regista formato da Grotowski). Questo volume contribuisce così ad una migliore comprensione del significato apparentemente paradossale che l’avanguardia teatrale della seconda metà del secolo scorso, interessata ai miti, ai riti e alle tecniche corporee arcaiche ha avuto.
Così, nella pièce Uomini e pietre, i due protagonisti, Alexandru e Petruș, esplorando uno labirinto di caverne, discutono sull’arte, la religione e il destino umano: «L’arte permette qualsiasi regressione. Fino al limite ultimo della coscienza, fino al limite ultimo della vita stessa. […] Una nuova discesa agli inferi… Un inabissamento fino all’ultimo livello della coscienza e della vita cosmica» [3]. Analogamente, il teatro può essere pensato come uno psicodramma attraverso il quale, mediante un processo simile a quello dell’anamnesi platonica, possono essere illuminati gli abissi della psiche umana, in senso geologico o in quello della psicologia del profondo. Non siamo affatto obbligati a condividere l’ipotesi eliadiana, ma la domanda da cui possiamo partire è: qual è l’essenza di un fenomeno culturale, come ad esempio il teatro? La sua origine, lo sviluppo storico o la sua forma attuale? Eliade afferma che un’arte come il teatro illustra idealmente l’aspirazione verso gli albori, il desiderio di ritrovare la purezza dell’originario, tratti che definiscono anche il senso dei rituali delle società tradizionali. Il riavvicinamento tra rito e teatro è rafforzato anche dalla derivazione dalla stessa radice etimologica: «Il termine greco per rito [...] è dromenon, ”qualcosa che è fatto” [...]; è un fatto di capitale importanza che il termine per spettacolo teatrale, drama, sia imparentato col termine per il rituale, dromenon; drama significa anche ”cosa fatta”» [4]. Sempre sulle connessioni tra arte e rito, secondo la tesi di Jane Harrison l'arte non nasce dal desiderio di imitare la Natura, di perfezionarla, ma da una forte emozione religiosa. Nel caso dell’arte teatrale, essa ha la sua origine nei rituali che accompagnavano la rinascita della vegetazione, all'inizio dell'anno nuovo, corrispondente al mese di marzo-aprile nel calendario romano. In questo periodo venivano celebrati i riti dedicati agli dèi della vegetazione (Dioniso, Attis, Adone, Osiride, Giacinto), considerati mortali, i quali tuttavia avrebbero potuto riacquistare, grazie ai sacrifici e alle offerte, la forza originaria, tornando alla vita: «L’origine comune dell'arte e del rituale dedicato a Osiride è il desiderio inteso e universale che la Natura, che sembra morta, torni alla vita. Questo elemento emotivo comune è ciò che fa sì che l'arte e il rituale si confondano ai loro inizi» [5]. Analogamente, Ifigenia viene sacrificata quando si profila lo spettro di un disastro militare, quando la spedizione degli Achei inizia nell’incertezza a causa di venti contrari che immobilizzano la flotta sulla riva e fanno schiantare le navi sulle rocce. La potenza del dio della guerra deve essere rigenerata con il sacrificio di una figlia di stirpe reale, che simboleggia il carattere latente di una forza generativa di primo rango, ma la cui manifestazione nella vita reale sarà ostacolata. Eliade ha sottolineato però che lo scopo di questi riti di fecondità non era quello di ripristinare la vitalità del dio, in modo puntuale o frammentario, ma l’intento era di rifare la Creazione autentica e originaria, attraverso l’inserimento in una temporalità inaugurale, prima di ogni divenire o degradazione [6]. Nel suo libro-intervista La prova del labirinto, Eliade afferma di aver voluto rappresentare attraverso il teatro la dimensione di un tempo immaginario, mitico, al di fuori del divenire storico e della tensione degli opposti. Questo è in realtà il tipo di temporalità nel rituale arcaico in cui erano abolite le opposizioni che strutturano i ritmi quotidiani [7]. Per quanto riguarda l'origine del teatro, la sua ipotesi era la seguente:
«Lo sciamanesimo può essere visto come una radice comune tanto alla filosofia che alle arti della rappresentazione [...]. Lo sciamano, per essere la guida spirituale della comunità, per edificarla, per rassicurarla, deve al tempo stesso rappresentare delle cose invisibili e manifestare – non fosse che ricorrendo a dei trucchi – il suo potere. Lo spettacolo che lui dà a questo scopo e le maschere che porta in questa occasione, tutto questo costituisce una delle fonti del teatro» [8].
La compagnia Living Theatre, guidata da Julian Beck e Judith Malina, è quella che è andata più lontano in questa direzione, esplorando le trasformazioni degli stati di coscienza indotte agli attori e al pubblico attraverso le pratiche sciamaniche, lo yoga e altre forme di spiritualità arcaica. Uno dei relativamente pochi studi che accostano il pensiero di Eliade agli spettacoli del Living Theatre è firmato da Monique Borie, pubblicato nel numero di Cahiers de l'Herne dedicato allo storico delle religioni [9]. Tuttavia, Borie non menziona il fatto che Eliade ha scritto anche pièce di teatro, né che alcuni suoi racconti hanno come tema la funzione e la natura della rappresentazione teatrale.
Il regista Jerzy Grotowski aspirava ad entrare in questa temporalità seguita da Eliade: «La dimensione del tempo quotidiano è quella dell’alienazione, delle maschere e degli stereotipi sociali. A questo livello, si trova un “io” empirico, instabile, privo di permanenza: è il dominio dell'inautenticità e dell'improvvisazione [...]. La vera realtà del nostro essere si trova nella parte dell’universale e dell’atemporale» [10]. Nel suo studio introduttivo, Horia Corneliu Cicortaș si sofferma sugli elementi che Eliade e Grotowski condividevano nelle loro visioni sul fenomeno teatrale [11], notando che il regista polacco e il suo discepolo Eugenio Barba erano al corrente delle sintesi teoriche dello storico delle religioni. Ma Eliade era considerato un autore vietato nella Polonia comunista, e cosi si spiega l'assenza di qualsiasi riferimento bibliografico, benché interi blocchi di testi grotowskiani appaiano ispirati dalle teorie eliadiane.
Ifigenia e la sovrainterpretazione in chiave politica
Per quanto riguarda la ricezione di Ifigenia, la più conosciuta e controversa pièce scritta da Eliade, Cicortaş fa giustamente notare che la reazione di Mihail Sebastian ha favorito l'interpretazione in chiave politica [12], in relazione alle turbolenze politiche degli anni '30, mentre Petru Comarnescu ha fatto una critica estetica, concentrandosi sulle carenze stilistiche del testo. Euripide ha scritto due tragedie dedicate a questo tema, tra cui Ifigenia in Aulide era centrata sul sacrificio della figlia del re Agamennone, per un’offesa che egli aveva portato alla dea Artemide. A differenza della versione di Eliade (che si conclude tragicamente con il sacrificio di Ifigenia), la versione antica comprende un atto supplementare, con l’intervento della dea che sostituisce Ifigenia con una cerva, cambiando così il tragico dell’intero sviluppo della precedente trama narrativa. Nella tragedia successiva, Ifigenia in Tauride, l'eroina viene portata dalla dea nel suo tempio in Chersonea per diventare sacerdotessa del suo culto, e da qui segue un evolversi differente degli eventi, senza collegamento con l’opera di Eliade. In realtà, oltre l'interpretazione nella chiave politica, Ifigenia riflette gli interessi dell’autore nella sua giovinezza: non solo il tema del sacrificio nei riti di costruzione, studiato nei Commenti alla leggenda di Mastro Manole (1943), ma anche l'idea di scrivere un dramma fantastico a partire dalla capacità della letteratura fantastica di realizzare una sintesi fra gli elementi della coscienza diurna e quelli attinenti alla vita subconscia latente: «I mezzi tecnici e la regia moderna consentirebbero di provocare facilmente l'emozione onirica, soprannaturale, fantastica. E in questa emozione collettiva, le parole avrebbero più peso, le associazioni penetrerebbero più a fondo. Al dramma parteciperebbero non l'individuo con la sua coscienza diurna ma tutti gli stadi del sonno e tutti i poteri del sogno, tutta la vita subconscia, latente, da cui nascono le grandi opere e che è presente in ogni atto decisivo della nostra vita» [13]. D'altra parte, Eliade conosceva la teoria di William Ridgeway (1919), secondo cui «il dramma e il teatro derivano ovunque dal culto dei morti […] e i primi attori greci erano dei medium» [14]. Nel contesto di un culto ancestrale e universale dei morti, la comunità passava dal piano reale a quello simbolico (in cui il soggetto diventa percepibile attraverso le nozioni di senso, significazione e non-senso), affermando la forza dell’«Io» collettivo che integrava non solo la partecipazione dei vivi (quali attori o spettatori), ma anche l’insorgere della forza spirituale dei morti. Il rituale segnava così la sospensione temporanea dei confini tra vivi e morti, profano e sacro, individuo e comunità.
Sempre in relazione al tema del sacrificio, Eliade ha dimostrato nel libro Il mito dell'eterno ritorno che nelle società tradizionali la sofferenza individuale o collettiva riceveva una giustificazione nella misura in cui era inserita in un contesto mitico-archetipico: «Ogni eroe ripeteva il gesto archetipico, ogni guerra riprendeva la lotta tra il bene e il male, ogni nuova ingiustizia sociale veniva identificata con le sofferenze del Salvatore (oppure, nel mondo precristiano, con la passione di un messaggero divino o di un dio della vegetazione, eccetera); ogni nuovo massacro ripeteva la fine gloriosa dei martiri» [15]. In un certo senso, il dramma di Ifigenia e della gente di 1241 è riattualizzato periodicamente, anche se lo sfondo storico fornisce quadri differenti per l’esperienza individuale e collettiva. A proposito di 1241, Eliade confessa di averlo scritto per difendersi dalla «terribile tristezza» dovuta al fatto che nel 1944 il Paese fu invaso dalle truppe sovietiche, come sette secoli prima era stato invaso dalle orde mongole. L’autore credeva che gli universi immaginari (la letteratura, l’arte, la religione) hanno il dovere di creare e conservare possibili risposte alla crudeltà e violenza che segna l'evoluzione storica, indipendentemente dall'epoca e dallo spazio culturale.
Così, la letteratura, al pari della dialettica della storia, può creare mondi nuovi e arricchire la realtà:
«Il romanzo deve “dire” qualcosa, perché la narrazione (cioè l'invenzione letteraria) arricchisce il Mondo né di più né di meno della Storia, naturalmente su un altro livello. Siamo creatori negli universi immaginari con più possibilità di quanto possiamo esserlo sul piano della Storia. Il fatto che qualcosa accada, che avvengano ogni sorta di cose è altrettanto importante per l'uomo che vivere nella storia o sperare di cambiarla» [16].
La confusione voluta tra il piano storico e quello degli universi immaginari ha portato a sovrainterpretazioni come quelle realizzate mediante la tecnica del collage, utilizzata da Alexandra Laignel-Lavastine [17] e Cristiano Grottanelli [18]. Se Eliade ha cercato di annullare il «terrore della Storia» attraverso la creazione letteraria o drammaturgica, questo tipo di analisi annulla i suoi sforzi, ricollocando l'intero edificio nella cornice della Storia. Quanto è legittimo un tale processo di ipercontestualizzazione, considerando che l'autore preso di mira ha scritto volumi interi contro l'invasione della Storia in tutti i piani della esistenza? Come difetto di metodo potrebbe trattarsi anche di un tipo di intentional fallacy, secondo l'osservazione di Sorin Alexandrescu, che si chiede se sia legittimo ridurre il significato dei racconti (implicito anche nel caso di Ifigenia) a determinati temi della storia delle religioni, secondo una presunta intenzione dell'autore [19].
Anche se apparentemente l'evoluzione storica sembra annullare i legami del teatro con le sue radici mitico-rituali, un'intera costellazione di registi dell'avanguardia teatrale del XX secolo si era proposta un rinnovamento delle concezioni e delle tecniche dello spettacolo attraverso il ritorno all’arcaico e al primordiale, confermando così le teorie di Mircea Eliade. Anche se le sue opere tradotte e presentate in questo volume non hanno goduto di un particolare apprezzamento, il loro valore non è percepibile solo da punto di visto politico o estetico, ma esse costituiscono un atto creativo sull piano paralello a quello storico, come una liberazione delle determinazioni storiche. La nostalgia delle origini è presente anche nelle idee di Eliade sull’arte teatrale, ma essa andrebbe intesa come una forza attiva e rigenerativa, come ramo dell'ermeneutica creativa che dovrebbe essere ri-attualizzata da ogni generazione.
Gabriel Badea
(settembre 2017, anno VII)
L'autore ringrazia il Prof. Giovanni Casadio
per la revisione della traduzione del presente testo in italiano
NOTE
1. S. Sontag, Contro l'interpretazione, Mondadori, Milano 1967; J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971.
2. M. Eliade, La nostalgia delle origini, Morcelliana, Brescia 1980, p. 76.
3. M. Eliade, Tutto il teatro. 1939-1970, Bietti, Milano 2016, pp. 222-223.
4. J.H. Harrison, Ancient Art and Ritual, Williams and Norgate, London 1913, p. 35: «The Greek word for a rite [...] is dromenon, “a thing done” [...] It is a fact of cardinal importance that their word for theatrical representation, drama, is own cousin to their word for rite, dromenon; drama also means “thing done”».
5. Ivi, p. 26: «The common source of the art and ritual of Osiris is the intense, world-wide desire that the life of Nature which seemed dead should live again. This common emotional factor it is that makes art and ritual in their beginnings well-nigh indistinguishable».
6. M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, pp. 45-46: «Vogliamo dire che la mentalità arcaica opera di preferenza con l'intero e non con le parti. Rappezzare, riparare, aggiungere, correggere, sono operazioni che hanno una efficacia minima. Il lavoro più sicuro è ritornare al momento della Creazione, al prototipo di tutti gli altri atti divini, ripetendo il solo atto creaturale che conta».
7. Inviamo alla molto ampia ricerca di un grande specialista dell'opera di Eliade: N. Spineto, Dionysos a teatro: il contesto festivo del dramma greco, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 2005.
8. M. Eliade, La prova del labirinto (intervista con Claude-Henri Rocquet), Jaca Book, Milano 1979, p. 98.
9. M. Borie, De l’herméneutique a la régénération par le théatre. Eliade et le Living Theâtre, in Cahier de L’Herne: Mircea Eliade (dir. Tacou, Constantin), Ed. de L’Herne, Paris 1978.
10. J. Grotowski, Vers un théâtre pauvre (1965) e Recherches sur la méthode (1967), in M. Borie, Mythe et théâtre aujourd'hui: une quête impossible? (Beckett-Genet-Grotowski-Le Living Theatre), Librairie A.G. Nizet, Paris, 1981 p. 121: «La dimension du temps quotidien, c'est celle de l'aliénation, des masques et des stéréotypes sociaux. A ce niveau, se situe un ”je” empirique, mouvant, sans permanence: c'est le domaine de l'inauthenticité et de l'incomplétude [...] La réalité authentique de notre être se trouve du côté de l'universel de l'intemporel».
11. H.C. Cicortaș, Mircea Eliade e il teatro, in M. Eliade, Tutto il teatro, cit., pp. 46-48.
12. Ivi, p. 21.
13. M. Eliade, L'isola di Euthanasius, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 299.
14. M. Eliade, Giornale, Boringhieri, Torino, 1976 p. 203.
15. M. Eliade, Il mito dell'eterno ritorno, Rusconi Editore, Milano 1975, pp. 154-155.
16. M. Eliade, Jurnal, vol. I, Humanitas, Bucuresti 1993, pag 475: «Romanul trebuie „să povestească” ceva, pentru că narațiunea (adică invenția literară) îmbogățește Lumea nici mai mult nici mai puțin decât Istoria, desigur pe un alt plan. Suntem creatori în universurile imaginare cu mai multă șansă decât putem fi pe planul Istoriei. Faptul că se petrece ceva, că se petrec tot felul de lucruri este la fel de semnificativ pentru om ca și faptul de a trăi în istorie sau de a spera să o modifici».
17. A. Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco, UTET, Torino 2008.
18. C. Grottanelli, «Fruitful Death: Mircea Eliade and Ernst Jünger on Human Sacrifice, 1937-1945», in Numen, Vol. 52, Fasc. 1, Religion and Violence (2005), pp. 116-145.
19. S. Alexandrescu, «La narrazione contro il significato», in R. Scagno e M. Mincu, Mircea Eliade e l'Italia, Jaca Book, Milano, 1986 p. 297.
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