Dante, disegnatore d’angeli

Lectio facilior. Così Marco Santagata avrebbe voluto intitolare in origine il suo saggio, dedicato alla lirica amorosa medievale e pubblicato da Guanda nel 2017. Nella scelta del titolo, poi scartato a favore del più accattivante Il poeta innamorato, si riconoscono le profonde motivazioni ideologiche che hanno guidato l’ultima produzione dell’insigne studioso, prematuramente scomparso a causa della recente pandemia. Santagata era infatti convinto, come dichiara del resto nella premessa all’opera, che «divulgare è un compito al quale gli studi letterari non possono sottrarsi» e che dunque è necessario trovare un modo più piano e semplice – facilior, appunto – di leggere la poesia medievale.
A suo parere, la pigrizia creativa e la carenza di immaginazione che caratterizzano molta dell’attuale critica testuale tendono a favorire un’iperinterpretazione dei testi, in virtù della quale il dialogo con la bibliografia secondaria finisce per prevalere su quello con l’opera stessa degli autori. Pare invece quanto mai urgente sfatare il mito – sempre più diffuso peraltro, soprattutto tra gli studenti – che la letteratura antica abbia poco a che fare con la vita.
Sebbene la lirica medievale rappresenti un modo di poetare fortemente antirealistico, Santagata si propone dunque di indagare i riferimenti autobiografici dei poeti innamorati e quelli biografici delle donne oggetto del loro amore: ciò nel pregevole intento di documentare – senza bisogno di ricorrere a tanto stucchevoli quanto inopportune attualizzazioni – che semplicemente anche un tempo la letteratura dialogava con la vita.

In apertura, il saggio illustra con chiarezza, a un pubblico di potenziali neofiti, alcuni luoghi di seduzione tipici della poesia medievale, utilizzando come campo privilegiato di indagine proprio la Vita nuova di Dante. Nel sottolineare l’importanza rivoluzionaria del saluto che Beatrice rivolge al poeta nelle pagine iniziali del libello – gesto trasgressivo e gratuito di caritas cristiana che infrange il perbenismo sociale – lo studioso ricostruisce accuratamente una geografia della passione amorosa che, in virtù delle ferree norme che regolavano il buon costume femminile dell’epoca, si limita a occasionali incontri in chiesa, fuggevoli saluti scambiati per strada, sguardi e occhiate lanciate da un balcone.
Non manca poi una riflessione sul valore simbolico del nove, numero del «miracolo» che sempre accompagna Beatrice e che ella stessa, concreta donna fiorentina circonfusa di un’aura misticheggiante, rappresenta. La gentilissima trapassa tuttavia l’8 – non il 9 – giugno 1290: Dante pare in fin dei conti reverente nei confronti del proprio vissuto e del resto percepisce il forte controllo sociale della ristretta cerchia fiorentina di amici e conoscenti, che certo avrebbero denunciato una troppo palese mistificazione di accadimenti pressoché coevi alla redazione del libello. [1]
Nella Vita nuova, esili spunti biografici sorreggono una narrazione in cui risulta abolita ogni differenza tra realtà e letteratura. Indeterminatezza e astrazione paiono, dunque, categorie applicabili al libello dantesco, ma esso è anche un’opera brulicante di vita vissuta, un’esile storia d’amore che, attraverso i suoi rituali cittadini stilizzati, schiude per analogia a una dimensione altra, spesso colorata di religiosità. La narrazione, afferma l’autore, «sembra addirittura lambire i territori della mistica pur partendo da una realtà di prosaica laicità»: stile quotidiano e sublime convivono senza soluzione di continuità e anche un semplice sonetto d’occasione può celare in realtà una gamma di significati più complessa di quella che emerge a una prima lettura. [2]
L’esempio più eclatante di analogia rimane comunque quella cristologica che riguarda il personaggio-mito di Beatrice, donna mondana e cristofora salvatrice al tempo stesso, miracolo di perfezione capace di far nascere amore anche nei cuori non gentili.

Nel saggio si indagano con attenzione gli indizi biografici delle donne amate dai poeti medievali. Tra i procedimenti mitopoietici di maggior suggestione, si segnalano naturalmente quelli dell’angiola dantesca e della novella Dafne petrarchesca. Sebbene di entrambe si conoscano le generalità, la fisicità di Bice Portinari rimane del tutto ignota ai lettori: nella Vita nuova – sottolinea Santagata – ella è «una sorta di manichino» di rosso o di biancovestita, un «fantasma eroticamente sterile», che contrasta con la possente corporeità della Laura petrarchesca. Quest’ultima risulta in effetti fisicamente onnipresente, perenne fonte di un feticistico desiderio inappagato e per di più soggetta alle leggi del tempo. [3] L’idea rivoluzionaria, espressa da Petrarca, è proprio quella di una bellezza che, pur eccedendo la misura umana, progressivamente sfiorisce; di contro, i poeti stilnovisti concedono al più alla donna amata un repentino venir meno, come «lo spegnersi improvviso di una luce», ma mai un impietoso invecchiamento.
Nei capitoli conclusivi, Santagata torna a sottolineare come la conoscenza di elementi biografici possa non solo conferire maggior presunzione di verità alla poesia amorosa medievale – garantendone continuità nell’ambito complessivo della tradizione di genere, da Catullo e Properzio fino a Montale, – ma anche favorirne l’esegesi testuale.
Dante stesso ha del resto abituato il pubblico a un autoritratto d’autore: appare costante il suo tentativo di nobilitare la mediocre stirpe di appartenenza, lasciando in ombra la dubbia fama d’usuraio del padre Alighiero II e illuminando piuttosto, attraverso la parola poetica, il trisavolo Cacciaguida – cavaliere di investitura imperiale – nella cantica paradisiaca. Già nella Vita nuova egli tende a far propri modo e stile del vivere aristocratico, costruendosi un’autobiografia ideale, consona a un giovane poeta affermato e a un brillante critico letterario ante litteram, quale egli di fatto si considera nella buona società fiorentina del tempo.
Il futuro grande esule costruisce in fondo, già con la Vita nuova, le premesse del suo capolavoro: la mirabile visione che conclude il libello (e che coinvolge Beatrice) trasformerà infatti «gli esperimenti letterari di un giovane ambizioso […] nell’autoproclamazione di un profetismo vissuto come dovere ineluttabile».
D’altronde, come Santagata afferma in altra sede, [4] la stessa etimologia del nome Dante, secondo l’interpretatio nominis medievale, indicherebbe colui che «dà» e che mostrerebbe dunque, fin dal concepimento, l’essere diverso e predestinato: il poeta sarebbe, in sintesi, autore di un solo libro e protagonista di un’unica storia di salvezza, valida per sé e per tutta l’umanità.

 




Elisa Lucchesi
(n. 3, marzo 2022, anno XII)


NOTE

[1] Anche in Petrarca, il numero – in questo caso il sei – agisce come elemento costitutivo di un’autobiografia letteraria e arricchisce la narrazione di forti valenze simboliche, sebbene queste ultime non scaturiscano dalla donna amata, bensì dalla storia stessa che il Canzoniere racconta: in primis il 6 aprile, al contempo data del primo incontro con Francesco e di morte della stessa Laura.
[2] Esemplare è, in questo senso, l’analisi di Io mi senti’ svegliar dentro allo core: dietro la semplice occasione mondana descritta, il sonetto pare teso in realtà a indagare i modi e il senso stesso del fare poesia. Così, l’incedere di Monna Vanna, amata di Cavalcanti, che di poco precede Beatrice durante una passeggiata in città, si fa trasparente metafora di come l’esperienza poetica del «primo amico» abbia di fatto preparato la strada all’assoluta novità della poesia dantesca.
[3] Laura si ammala e Petrarca non manca di farne più volte menzione nel Canzoniere, ricordando ad esempio, in RVF 233, un malanno che ha colpito il «dextr’occhio», anzi – come sottolinea Santagata con una punta di ironia – il «dextro sole» dell’amata.
[4] M. Santagata (2012), Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, 2012.