Ion Mihăileanu e i suoi «Ritratti di attori»

Nato nel 1921 a Iași, la capitale storica e culturale della Moldavia romena, Mordechai Buchman, letterato ebreo fuggito da un campo del regime filonazista di estrema destra, cambiò (una «impostura positiva», come ebbe a dire lui stesso) il suo nome di nascita in Ion Mihăileanu e debuttò nel 1943 come giornalista della pagina letteraria, diretta dal poeta Miron Radu Paraschivescu, ospitata dal quotidiano antifascista Ecoul. Nel dopoguerra, divenne aiuto-caporedattore dell’importante settimanale bucarestino Contemporanul. Fu anche docente universitario come assistente del grande critico George Călinescu, alla Cattedra di letteratura romena dell’Università di Bucarest, e come professore alla Facoltà di giornalismo. A lui si devono parecchie traduzioni in romeno di opere di André Malraux (che conobbe personalmente, e che intervistò), di François Mauriac, di Jules Verne e di Alexandre Dumas. Nel 1966, firmò la sceneggiatura del film Domenica alle sei di Lucian Pintilie. Arrivato in Francia nel 1985, poté rincontrare i figli Dan e Radu Mihăileanu (il cineasta), e in seguito fu uno dei corrispondenti da Parigi per la rivista israeliana in lingua romena Minimum, diretta dal drammaturgo Alexandru Mirodan.

La sua opera principale è Ritratti di attori (Portrete de actori, Printech, Bucarest 2011, tradotto in francese da Dominique Ilea per L’Harmattan, Parigi 2016), frutto di un’appassionata immersione nell’universo dei più grandi attori romeni degli anni Settanta: il palcoscenico è stato «il sogno», se non «la fissazione» di tutta la famiglia dell’autore, di padre in figlio. Queste miniature cesellate con amore, come quelle che alcuni portano nel cuore incastonate in un medaglione, hanno come vocazione quella di restituirci tanto l’artista quanto «l’uomo, il cittadino», in ciascuno degli interpreti d’eccezione che per lungo tempo hanno fatto vibrare il ritrattista – la cui stessa figura viene sottilmente abbozzata lungo queste pagine, dapprima sparse in vari periodici, sino a raggiungere in filigrana tutte le altre. L’atto finale di questa avventura teatrale doveva essere il loro recupero (purtroppo parziale, solo una cinquantina) e la loro raccolta in un libro – che potrebbe concentrarsi interamente in questi pochi versi dello stesso Ion Mihăileanu: «Les yeux parlent / Les mots regardent / Les regards pensent / Les pensées qu’on entend / Les paroles qu’on voit / Alors / Les cœurs s’ouvrent» (Aimer, piccola raccolta di poesie in lingua francese, edizione in proprio, Parigi 2013).
Di seguito, in nostra traduzione, il medaglione dedicato a Toma Caragiu.
 

Anca-Domnica Ilea


Toma Caragiu

Se non fosse stato attore, Toma Caragiu sarebbe potuto essere un grande autore di caricature spinte fino all’irreale, fino al fantastico, nelle quali il diafano e l’orrendo avrebbero composto un tutt’uno con l’assurdo, col ridicolo. L’attore sembrava confermare le parole di Victor Hugo secondo cui «il grottesco è la fonte più ricca che la natura possa offrire all’arte».
Per questa ragione un solo giorno senza poter ridere con Toma Caragiu ci pareva un giorno sottratto alla vita. Per questo motivo era tanto richiesto alla televisione, dove un piccolo fatto di cronaca o un personaggio qualunque diventavano momenti artistici da antologia.
Interpretati da Toma Caragiu, i contrari convivevano pacificamente, l’incompatibile sembrava compatibile. Se un grande attore può entrare da bambino nel primo atto e uscire da vecchio nel terzo, Caragiu poteva entrare nel ruolo del primo come un essere candido di purissima elezione e concludere il terzo come un cinico incorreggibile, facendo accompagnare la sua partitura da una crassa risata omerica o sardonica. Il suo viso era uno strumento musicale che andava oltre la gamma usuale, moltiplicandone all’infinito le sfumature, rivoltando la stessa idea come un vestito di cui servirsi innumerevoli volte: l’estrema intelligenza nell’estrema imbecillità, come un automa pensante mosso da mani divine o diaboliche.
Toma Caragiu non era un atleta del palcoscenico bensì un mimo. Un mimo geniale. Nei panni di Iancu Pampon, uno dei protagonisti di D’ale Carnevalului di Ion Luca Caragiale, con la faccia irrigidita, perfettamente ottusa, camminando in modo simmetrico, con il bastone e la bombetta, che parevano anch’essi recitare, tanto erano vivi, che ci facevano volare con la mente a Chaplin. Toma Caragiu poteva benissimo muoversi facendo piccoli passettini, come un alto prelato, e dire: «Eccoci riconciliati, eccoci abbracciati, e d’ora in poi saremo nemici mortali».
Col suo sorriso beffardo, con quella voce nasale, con quell’accento dogmatico che prendeva in giro tutti gli imbecilli di questo mondo, Toma Caragiu sembra ammonirci, dall’aldilà, da vero moralista: «Brava gente! Cessate di mostrarvi incoscienti, capricciosi, falsi, chiacchieroni, ipocriti, orgogliosi, fastidiosi, artificiosi, viziosi, vigliacchi! Non dimenticate mai: il sonno della ragione genera mostri! Ricordatevi dei Capricci di Goya, dove il territorio dell’assurdo è l’incubo stesso».
Toma Caragiu sapeva, come nessun altro, parlare tacendo. I suoi silenzi erano sempre eloquenti: semplici, briosi, suggeriti da un’alzata tutta naturale di sopracciglio, da uno sguardo di sovrumana stupidità oppure di favolosa saggezza.
Nei suoi silenzi, nella sua voce, in ogni più piccolo frammento del suo corpo e della sua anima, sapeva scolpire instancabile un briciolo d’arte. Volle provare a essere anche un attore tragico. Vinse la scommessa nel Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill, sulla strada già aperta con De Pretore Vincenzo di Eduardo De Filippo.
Le sue tenui lacrime si scioglievano nell’enorme irrisione con la quale si burlava di tutte le brutture nascoste nell’animo umano. Perché Toma Caragiu resta un titano della comicità romena, che fu e che sarà amato per sempre dal pubblico, alla pari di un Caragiale dell’arte scenica.

Traduzione dal romeno di Anca-Domnica Ilea
(marzo 2017, anno VII)